Abstract
Lo scritto si pone l’obiettivo di descrivere l’evoluzione istituzionale degli enti locali, muovendo dall’unificazione nazionale del 1865. Dall’introduzione della Costituzione del 1948 sono stati compiuti notevoli progressi nel riconoscimento dell’autonomia locale. A partire dalla modifica della Carta costituzionale del 2001 è stato avviato un percorso di riforma legislativa degli enti locali, che è culminato nell’emanazione della legge 7 aprile 2014 n. 56, contenente “Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni”; alla recente normativa si accompagna la previsione di una riforma costituzionale, che avrebbe l’ambizione di “modernizzare” e razionalizzare il titolo V della Costituzione, tentando di coniugare le ragioni dell’autonomia locale con quelle della semplificazione e dell’efficienza. Tuttavia al momento sembra potersi delineare un sistema degli enti locali che nell’esercizio della funzione amministrativa pone al centro il Comune, introducendo una più organica disciplina delle forme associative tra Comuni, dando così effettiva attuazione al principio di differenziazione già previsto nell’art. 118 della Costituzione.
La figura degli enti locali rimanda inevitabilmente al concetto di Stato o meglio di Stato come territorio nazionale, legandosi indissolubilmente a quella specifica vicenda di formazione dello Stato unitario di fine ‘800, che ha posto le premesse istituzionali necessarie ad inscrivere la relazione giuridica tra centro e periferia tra i “tornanti fondamentali” della storia del pensiero giuridico moderno. Concetto di territorio, sempre più spesso messo in discussione nel dibattito dei giuristi contemporanei (Irti, N., Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto, Roma-Bari, 2001, ora in IV ed., 2006; Cassese, S., Le trasformazioni dello Stato, in Cassese, S.-Schiera, P.-von Bogdandy, A., Lo Stato e il suo diritto, Bologna, 2013, 11 ss.), in quanto sospeso tra logiche economiche e politiche di ricostruzioni sistematiche spesso sganciate dal riferimento alla sovranità nazionale e tendenze di segno opposto favorevoli ad un recupero della componente “comunitaria” dell’amministrazione radicata nel territorio; esiti contraddittori, che hanno costretto la dottrina a ricorrere a neologismi, nel tentativo di conciliare fenomeni concettualmente antitetici, quale quello di “glocalization” (per lo sviluppo del cosiddetto diritto globale, si veda per tutti Cassese, S., Oltre lo Stato, Roma-Bari, 2006; Id., Globalizzazione del diritto, in XXI secolo, Enc. it., Roma, 2009, 7 ss.; D’Alberti, M., Poteri pubblici, mercati e globalizzazione, Bologna, 2008; Zolo, D. , voce Globalizzazione, in Dig. pubbl., Agg., Torino, 2005, 378; Auby, J.B., La globalisation, le droit et l’Etat, Paris, LGDJ, 2010, II ed., spec. 143 ss; Morbidelli, G., Il diritto amministrativo tra particolarismo e universalismo, Napoli, 2012, 48 ss.; Ciolli I., Il territorio statale tra dimensione nazionale e sovranazionale, in www.apertacontrada.it, 2011; Id., Il territorio rappresentato. Profili costituzionali, Napoli, 2010). In una prospettiva diacronica è possibile delineare positivamente i tratti degli enti locali soltanto a partire dal momento nel quale diventa predicabile una loro distinzione rispetto alla figura, prima di allora totalizzante, dello Stato-persona. Nel percorso di consolidamento dello Stato-persona si colloca lo sviluppo della nozione di autarchia, intesa quale amministrazione indiretta dello Stato, che tanto peso ha esercitato nell’elaborazione del fenomeno dell’autonomia locale, la cui più chiara percezione risulterà sfrondata dalle incrostazioni stataliste, che a lungo l’avevano mortificata, soltanto successivamente alla sostituzione – non solo di ordine terminologico, ma soprattutto di natura concettuale – della nozione di autarchia, con quella distinta di autonomia (Romano, S., voce Autonomia in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1947 ora in L’ultimo Santi Romano, Milano, 2013, 601 ss.; Zanobini, G., Caratteri particolari dell’autonomia, in Scritti vari di diritto pubblico, Milano, 1955, 273 ss.; Romano, Alb., Autonomia nel diritto pubblico in Dig. pubbl., II, Torino, 1987, 30 ss.; Giannini, M.S., Autonomia pubblica, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 356 ss.). Alcuni degli elementi costitutivi di quest’ultima hanno a lungo stentato ad acquisire una fisionomia più definita proprio a causa della tendenza a cogliere negli enti locali un elemento di disturbo e di minaccia rispetto all’ancora incerta unità politica ed amministrativa dello Stato nazionale. Passaggio decisivo per superare l’impasse liberale creato dall’obiettivo preminente di portare a compimento l’edificazione dello Stato di diritto, secondo una prospettiva teorica statalista condizionata anche dagli insegnamenti orlandiani, si rinviene nella distinzione fortemente innovativa tra Stato-persona e Stato-ordinamento: mentre, infatti, il concetto di autarchia si collocava nel quadro di una relazione enti locali/Stato quale rapporto tra amministrazione locale e Stato-persona – dove la prima fungeva da mera articolazione territoriale del secondo – l’ingresso dell’autonomia fu reso possibile dall’inscrizione del rapporto enti locali/Stato nella diversa prospettiva dello Stato-ordinamento, dove i primi, espressione di un potere proprio non più derivante da quello statale, sono preposti alla cura di istanze della collettività localmente stanziata, non necessariamente coincidenti con l’interesse pubblico-statale (sulla distinzione tra autonomia e autarchia si rinvia a Romano, S., Il decentramento amministrativo, in Scritti minori, Milano, 1990, vol. II, 7 ss.; Id., Gli interessi dei soggetti autarchici e gli interessi dello Stato, in Scritti minori, Milano, 1990, vol. II, 351 ss.; Id., Il Comune, in Tratt. Orlando, vol. II, Milano, 1908, 542-543; Rugge, F., Autonomia e autarchia degli enti locali, in I giuristi e la crisi dello Stato liberale in Italia, a cura di Mazzacane A., Napoli, 1986, 276 ss.; Cianferotti, G., Storia della letteratura amministrativistica, I Dall’Unità alla fine dell’ottocento: autonomie locali, amministrazione e costituzione, Milano, 1998). In questo quadro di evoluzione storica ed istituzionale l’emanazione della Costituzione del 1948 ha sicuramente rappresentato un progresso, almeno nel senso del riconoscimento esplicito degli enti locali (Province, Comuni) quali componenti territoriali necessarie della Repubblica, secondo declinazioni che si estendono alla loro autonomia politica, normativa, organizzativa, amministrativa, finanziaria. La forza prescrittiva delle norme costituzionali che direttamente fondano l’autonomia degli enti territoriali è rimasta a lungo tempo sospesa, probabilmente in attesa dell’emanazione delle riforme legislative sul governo locale, che avrebbero dovuto riempire di contenuti più stringenti quelle disposizioni costituzionali – qualificate come di natura meramente programmatica – realizzando l’auspicato raccordo tra il titolo I ed il titolo V della Costituzione. In questo contesto di predisposizione di una legislazione di principî, che stabilisse i limiti esterni dell’autonomia, si inserisce la prima legge sugli enti locali (la l. 8.6.1990, n. 142), più volte modificata e da ultimo confluita nel testo unico del 2000 (approvato con d.lgs. 18.8.2000, n. 267). Il cammino di definizione legislativa degli enti locali si era giovato anche di altri interventi normativi intermedi (cd. “legge Bassanini”: l. 15.3.1997, n. 59) che avevano, a Costituzione invariata, già previsto il trasferimento dell’esercizio di funzioni amministrative dallo Stato agli enti locali in attuazione del principio – già contenuto nelle tradizioni giuridiche di altri stati europei e successivamente elevato a canone di ripartizione delle competenze tra Stati membri e Comunità (oggi Unione) europea – in base al quale il livello ottimale di svolgimento della funzione amministrativa debba essere quello più prossimo ai cittadini. La riforma del titolo V della Costituzione effettuata nel 2001 codifica ed asseconda questo disegno legislativo, introducendo esplicitamente a livello costituzionale il principio di sussidiarietà (art. 118 Cost.) e dando finalmente attuazione agli enunciati programmatici contenuti nella prima parte della Costituzione. In particolare, ai fini della ricostruzione dei poteri spettanti agli enti locali acquista un significato cruciale la nuova formulazione dell’art. 114 Cost., che sembra fornire definitiva conferma della previsione a livello costituzionale – ossia a prescindere dalla forza fondante del riconoscimento legislativo – del potere normativo, statutario e regolamentare, degli enti locali (Romano, S., Il Comune, cit., passim; recentemente sull’interpretazione dell’art. 114 Cost. nell’assetto costituzionale modificato nel 2001 si veda Romano Alb., Nota bio-bibliografica, in L’ultimo Santi Romano, Milano, 2013, 843 ss., spec. 851 ss.). Una delle questioni interpretative più complesse sottese alla comprensione delle modifiche costituzionali introdotte nel 2001 si rinviene nella definizione della portata semantica da annettere alle diverse tipologie di funzioni descritte nell’articolo 118 Cost. (attribuite o conferite, fondamentali e proprie), e soprattutto nella precisazione legislativa, richiesta dalla riserva di legge statale contenuta nell’art. 117, co. 2, lett. p), Cost. delle cosiddette funzioni fondamentali, dirette a delineare l’impalcatura organizzativa e funzionale essenziale degli enti locali (Cerulli. V.-Pinelli, C., Verso il federalismo. Normazione e amministrazione nella riforma del Titolo V della Costituzione, Bologna, 2004; De Lucia L., Le funzioni di province e comuni nella Costituzione, in Riv. trim. dir. pubbl., 2005, 23 ss.). Questione che appare tutt’ora decisiva per l’esatta individuazione dell’ambito di autonomia della quale gli enti locali sono effettivamente titolari, posto che, sia pur in un quadro legislativo fortemente instabile ed ancora lungi dall’aver raggiunto un assetto definitivo, l’elemento veramente distintivo degli enti locali risulta essere proprio l’autonomia (l’art. 114 Cost. testualmente ricomprende gli enti locali tra gli enti autonomi nell’ambito dei principî contenuti nella Costituzione), giustificata in relazione al legame costitutivo con il territorio e qualificata in una duplice direzione: sia verso l’interno, ossia rispetto alla comunità locale del quale l’ente territoriale è esponenziale, sia rispetto all’esterno, ossia nei confronti dell’ordinamento generale, che riconoscendola la garantisce (Romano, S., voce Autonomia, in Frammenti di un dizionario giuridico, ristampa Milano, 1983, 14 ss; ora anche in Id, L’ultimo Santi Romano, cit., 601 ss.; Romano, Alb., voce Autonomia, cit., 30 ss.; Giannini, M.S., voce Autonomia in Enc. dir., Milano, vol. IV, 356 ss; Berti, G., Caratteri dell’amministrazione comunale e provinciale, Padova, 1969; Bifulco, R., Art. 5, in Bifulco, R.-Celotto, A.-Olivetti, M., a cura di, Commento alla Costituzione, Torino, 2006, 144; Pizzetti, F., Il sistema costituzionale delle autonomie locali, Milano, 1979; Romano, Alb, Commento all’art. 1, in Commentario breve al testo unico sulle autonomie locali, a cura di Cavallo Perin R. e Romano Alb., Padova, 2006; Vandelli L., Sovranità e federalismo interno: l’autonomia territoriale all’epoca della crisi, in Le Regioni 2012, 845 ss. e spec. 880 ss; De Martin, G.C., L’amministrazione locale nel sistema delle autonomie, Milano, 1984; Id., voce Enti pubblici territoriali, in Dig. pubbl., Agg., Torino, 2011, 290 ss.). Ed è proprio nella prospettiva della pluralità degli ordinamenti che appare possibile risolvere il rapporto tra fonti del diritto, secondo una simmetria che lega l’ordinamento generale alle fonti primarie ed agli interessi pubblici – qui intesi in senso più alto e comprensivo degli interessi individuali – e gli ordinamenti particolari (autonomi) alle fonti secondarie ed agli interessi pubblici, qui, invece, declinati in una accezione parziale, dovuta alla loro inerenza alle specifiche esigenze del territorio, geograficamente, socialmente, economicamente connotate (Romano, Alb., Interesse legittimo e ordinamento amministrativo, in Atti del Convegno celebrativo del 150° anniversario della istituzione del Consiglio di Stato, Milano, 1983, 95 ss.; Id., Potere amministrativo e situazioni giuridiche soggettive, in Contieri, A.-Francario, F.-Immordino, M.-Zito, A., a cura di, Interesse pubblico tra politica e amministrazione, Napoli, 2010, vol. II, 405 ss; Id., L’“Ordinamento giuridico” di Santi Romano, il diritto dei privati e il diritto dell’amministrazione, in Dir. amm., 2011, 241 ss.). Relazione biunivoca tra territorio e comunità ivi stanziata, indice di misurazione dell’autonomia spettante agli enti locali, che la recente ondata di riforme legislative, e in prospettiva forse anche costituzionali, sembrerebbe parzialmente interrompere, quale conseguenza di fenomeni più ampi che trascendono le singole sedi politiche nazionali, in quanto connessi a ragioni di natura spiccatamente economica e più precisamente finanziaria.
Non è certamente una novità che l’esercizio effettivo della funzione amministrativa a livello locale (prima di tutto comunale e poi provinciale) fosse strettamente subordinato alla capacità finanziaria dell’ente locale. Se infatti la prima legge sull’autonomia locale n. 2248 del 20 marzo 1865 (allegato A) distingueva tra funzioni proprie e funzioni delegate, già il testo unico del 1934 (R.d. 3.3.1934, n. 383, art. 90, e successivi regolamenti di esecuzione) introduceva il diverso criterio delle spese obbligatorie e di quelle facoltative, stabilendo un nesso imprescindibile tra titolarità di risorse economiche e svolgimento delle funzioni amministrative. Secondo questo schema classificatorio, volto ad incasellare in «fini istituzionali precostituiti» l’autonomia della quale il Comune più ampiamente avrebbe potuto disporre (Berti, G., Amministrazione comunale e provinciale, Padova, 1994, 269; sull’originaria personalità privatistica del Comune alla quale successivamente si aggiunge, stemperandola, quella pubblicistica si rinvia per tutti a Romano S., Il Comune, cit., passim),venivano considerate doverose le attività riconducibili alle cosiddette spese obbligatorie (legislativamente previste) in quanto rispondenti all’utilità pubblica locale, mentre erano ritenute discrezionali le attività ascrivibili alle cosiddette spese facoltative (lasciate alla discrezionale valutazione dell’amministrazione locale), rispetto alle quali il Comune poteva stabilire di assumere ulteriori funzioni, segnando così la contrapposizione tra attività di diritto pubblico ed attività di diritto privato: la prima, espressione del potere imperativo; la seconda, esercizio delle originaria capacità privatistica del Comune, quale consorzio tra privati (Aimo, P., Stato e poteri locali in Italia (1848-1995), Roma, 2004). Non è un caso che la prima legge ordinaria che si è preoccupata di individuare positivamente le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Province (di cui all’art. 117, co. 2 , lett. p, Cost.) avesse ad oggetto il cosiddetto “federalismo fiscale”. La crisi economica che ha travolto gli Stati europei successivamente alla vicenda del fallimento della Lehmann Brothers ha prodotto delle conseguenze tangibili sulla sovranità degli Stati nazionali facenti parte dell’Unione europea, costretti ad adeguarsi a vincoli finanziari imposti dalle nuove regole europee sulla finanza pubblica, finanche con la modifica dei propri ordinamenti costituzionali (Napolitano, G., a cura di, Uscire dalla crisi, Bologna, 2011; Perez, R., Il Trattato di Bruxelles e il Fiscal compact, in Giorn. dir. amm., 2012, 468 ss.; Ciolli, I., I Paesi dell’eurozona e i vincoli di bilancio. Quando l’emergenza economica fa saltare gli strumenti normativi ordinari, in AIC, 2012; Scaccia, G., La giustiziabilità della regola del pareggio di bilancio, in AIC, 2012; Vandelli, L., Sovranità e federalismo interno: l’autonomia territoriale all’epoca della crisi, in Le Regioni, 2012, 845 ss., spec. 857 ss. ) Si registra come linea di tendenza un’interdipendenza tra scelte di politica economica e finanziaria, a livello europeo e nazionale, e riforme del sistema delle autonomie locali, sottoposte successivamente al 2010 ad un’ondata di interventi legislativi che, guidati da ragioni di contenimento della spesa pubblica e di riduzione dei costi della politica, non sempre risultano rispettosi del pluralismo istituzionale e della democrazia rappresentativa, parti integranti del patrimonio di valori custoditi dalla nostra Carta costituzionale. Interventi normativi che si caratterizzano per un evidente torsione verso discipline accentrate del sistema delle autonomie locali, in stridente contrasto con il favor per il decentramento e la regolamentazione territorialmente diversificata degli assetti locali (anche regionale), che aveva animato le riforme costituzionali e legislative dello scorso decennio (Vandelli, L., Sovranità e federalismo interno: l’autonomia territoriale all’epoca della crisi, in Le Regioni, cit., 864 ss.; Pizzetti, F., La nuova normativa in materia di enti territoriali: una grande riforma, in Pizzetti, F.-Rughetti, A., Il nuovo sistema degli enti territoriali dopo le recenti riforme, Santarcangelo di Romagna, 2012, 17 ss.) L’effetto più percepibile di questi progetti di riforma sembrerebbe consistere nella negazione della titolarità di una competenza generale, amministrativa ma anche normativa, in capo agli enti locali, che si correli direttamente alla loro capacità – storicamente consolidata e positivamente ribadita anche nella Carta europea delle autonomie locali (firmata a Strasburgo il 15.10.1985 e ratificata in Italia con l. 30.12.1989 n. 439) – di soddisfare tutti gli interessi radicati nel territorio, con una conseguente diluizione o sbiadimento del ruolo decisivo che per questi enti ha sempre svolto il territorio in funzione diversificante.
Il Comune costituisce una cellula organizzativa radicata nell’esperienza giuridica amministrativa del nostro paese, storicamente connotato, a differenza di altri ordinamenti nazionali, da venature spiccatamente municipaliste. La valorizzazione dell’autonomia comunale è stata portata a compimento con la riforma del titolo V della Costituzione, che ne ha ampliato le competenze amministrative in base all’articolo 118, I comma, Cost. e regolamentari, in base all’articolo 117, co. 4, Cost., che individua le seconde nella «disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni […] attribuite»; formulazione quest’ultima nella quale la dottrina non ha esitato ad intravedere la configurazione di una riserva di regolamento. Sul piano dell’esercizio della funzione amministrativa, il Comune è ritenuto l’ente politico privilegiato nello svolgimento delle diverse tipologie di funzioni, che, a seconda della materia alle quali afferiscono, dovrebbero essere allocate con legge statale o regionale sulla base dei principî di sussidiarietà, differenziazione, adeguatezza. La scelta dell’ente comunale quale livello di governo favorito nella soddisfazione degli interessi generali delle collettività locali ha tuttavia mostrato elementi di criticità soprattutto in relazione al numero eccessivo di Comuni presenti sul territorio nazionale ed alle loro dimensioni, geografiche e demografiche, fortemente differenziate, con conseguente incapacità di alcuni tra i Comuni più piccoli di far fronte alle esigenze essenziali delle loro comunità, a causa della scarsezza delle risorse finanziarie disponibili. D’altra parte, l’opportunità di distinguere tra diversi tipi di Comuni, contraddistinti da morfologie organizzative non livellabili – “Comuni urbani e rurali” contrapposizione ancora elementare ma paradigmatica delle successive e più articolate diversificazioni che avrebbero poi contraddistinto le specifiche realtà economiche dei contesti comunali contemporanei – era stata acutamente suggerita da autorevole dottrina (Romano, S. Il Comune, cit., 16 ) non perfettamente concorde con quel disegno di realizzare l’uniformità dei modelli, di matrice napoleonica, poi prevalsa e mantenuta anche nel nostro sistema costituzionale. Due profili più significativi devono essere analizzati nelle recenti modifiche che hanno riguardato gli enti locali, e soprattutto i Comuni, volte al completamento legislativo della riforma costituzionale del 2001: l’individuazione delle funzioni fondamentali e la regolamentazione più stringente e puntuale del fenomeno dell’associazionismo obbligatorio tra Comuni. Aspetti che, entrambi, evidenziano la difficile separazione di competenze tra legislatore statale e legislatore regionale nella perimetrazione dell’autonomia degli enti locali, soprattutto se costruita in base al criterio della materia; difficoltà, tempestivamente intravista dalla dottrina (Romano, Alb., Note sui caratteri della legislazione nello “Stato delle autonomie”, in Le Regioni, 1981, 660 ss.) e denunciata di recente anche dalla Commissione per le riforme costituzionali, ormai convinta dell’inidoneità del concetto di materia a districare il groviglio delle competenze legislative tra Stato e Regioni (Commissione per le riforme costituzionali, Relazione finale, Roma 17 settembre, 2013, pubblicata su www.federalismi.it). La questione dell’individuazione delle funzioni fondamentali, nonostante esplicite previsioni legislative, non sembra ancora aver raggiunto risultati definitivi. Denominatore comune negli interventi legislativi aventi ad oggetto la riforma degli enti locali è il carattere emergenziale e frammentato delle misure di volta in volta stabilite, che solleva problemi di coordinamento e di raccordo tra disposizioni non sempre lineari in quanto volte per lo più a risolvere questioni in un’ottica di settore (federalismo fiscale, riduzioni dei costi della politica) nella quale è carente una programmazione sistematica coerente. Come già osservato, la prima legge statale che ha predisposto un elenco “provvisorio” di funzioni fondamentali dei Comuni, con l’aspirazione di quantificare i possibili finanziamenti da destinare alle attività amministrative di questi ultimi, è stata la cd. “legge delega sul federalismo fiscale” (l. 5.5.2009, n. 42); l’intenzione del legislatore non era tanto quello di identificare, in ossequio al dettato costituzionale, un nucleo di funzioni necessarie e caratterizzanti il livello territoriale comunale, quanto piuttosto quello di stabilire il cosiddetto “fabbisogno standard” degli enti locali in evidente superamento del criterio della spesa storica, precedentemente utilizzato per le determinazioni di natura finanziaria. Nel medesimo contesto di stabilizzazione finanziaria e di incentivazione della competitività economica si colloca il d.l. 31.5.2010, n. 78 (conv. con modificazioni nella l. 30.7.2010, n. 122), che all’art. 14, co. 27, rinviava all’art. 21, co. 3, della richiamata l. 5.5.2009 n. 42 sul federalismo fiscale per l’identificazione delle funzioni fondamentali, in attesa dell’emanazione di una successiva disposizione statale che le avrebbe dovute individuare, in via definitiva, in base all’articolo 117, co. 2, lett. p), Cost. A partire da questo testo legislativo viene adottata una tecnica di regolamentazione che resterà costante nelle disposizioni volte a disciplinare l’assetto del governo locale: l’identificazione, qui ancora per rinvio, delle funzioni fondamentali e la contestuale previsione di forme di associazionismo obbligatorio tra Comuni di dimensioni demografiche modeste; profilo quest’ultimo fonte di evidenti incertezze interpretative, soprattutto in relazione all’esatta ripartizione delle competenze legislative Stato-Regioni in un ambito – la disciplina delle forme associative tra Comuni – che, come chiarito anche dalla giurisprudenza costituzionale, non appare correttamente riconducibile alla competenza statale prevista dall’articolo 117, co. 2, Cost., lett. p). Secondo l’indicata tendenza, il citato decreto legislativo n. 78/2010, infatti, dopo aver rinviato ad altra norma (sul federalismo fiscale) ai fini della considerazione delle funzioni ritenute – sia pur in via ancora provvisoria – fondamentali, procede al successivo comma 28 del medesimo articolo 14 a stabilire i criterî, di natura demografica, in presenza dei quali procedere al relativo esercizio obbligatorio in forma associata (mediante unione di comuni o convenzione).
Nella medesima prospettiva, volta ad assicurare il conseguimento degli obiettivi ed il coordinamento della finanza pubblica, unitamente a finalità di contenimento delle spese degli enti territoriali e di migliore svolgimento delle funzioni amministrative, si colloca il d.l. 13.8.2011, n. 138 (conv. con modificazioni nella l. 14.9.2011, n. 148), che introduce ulteriori disposizioni dirette a stabilire nuove soluzioni organizzative per lo svolgimento delle funzioni amministrative dei Comuni.
Da un lato, nella versione originaria dell’art. 16, d.l. n. 138/2011, in applicazione di un criterio demografico quantitativamente inferiore rispetto a quello indicato nel menzionato d.l. n. 78/2010, veniva prevista la costituzione obbligatoria dell’Unione municipale (figura non contemplata dal Testo unico sull’ordinamento degli enti locali, di cui al d.lgs. n. 267/2000), quale unica modalità associativa, tra Comuni contermini con popolazione pari o inferiore a 1000 abitanti. La disciplina dell’Unione municipale, dopo essere stata dapprima modificata dal d.l. n. 95/2012, è stata poi definitivamente eliminata dalla l. n. 56/2014, che in relazione ai piccoli comuni (con popolazione fino a 3000 abitanti o con popolazione superiore a 3000 abitanti e fino a 10000) contiene disposizioni dettagliate sulla composizione del consiglio comunale, stabilendo un numero massimo di consiglieri e di assessori (art. 1, co. 135, lett. a).
Dall’altro lato, all’art. 3 bis, d.l. n. 138/2011, per favorire la creazione di mercati concorrenziali – anche a discapito della vocazione municipalista che ha storicamente contraddistinto la titolarità di alcune funzioni a livello comunale – venivano invitate le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano ad organizzare lo svolgimento dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica in ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei, funzionali alla massimizzazione dell’efficienza del servizio. Viene così ad essere legislativamente richiamata anche per lo svolgimento delle funzioni amministrative locali la figura del cosiddetto ATO (ambito territoriale ottimale) – utilizzato dalla disciplina in materia ambientale relativa al servizio idrico integrato ed alla gestione dei rifiuti urbani (artt. 147 e 196, co. 1, lett. g) del d.lgs. 3.4.2006 n. 152) – che, legato al parametro dell’efficienza nella prestazione di alcuni servizi, sembrerebbe surrettiziamente eludere il riferimento al territorio quale criterio prevalente di imputazione agli enti locali della titolarità pubblica dei servizi di interesse generale. Una più organica disciplina del governo locale sembra trovarsi nel d.l. 6.7.2012, n. 95 sulla cd. “Spending Review” (conv. con modificazioni nella l. 7.8.2012, n. 135) che, sia pure direttamente volto ad un ridimensionamento della spesa pubblica dettato dalla condizione di crisi economica del Paese, supera il carattere di frammentarietà ed episodicità che aveva contrassegnato i precedenti interventi normativi. Alcuni profili disegnati dalle norme precedenti vengono innovati e precisati: più in particolare, l’art. 19 del citato d.l. n. 95/2012 contiene delle modificazioni sia in ordine all’individuazione delle funzioni fondamentali, non più contraddistinte dall’attributo della provvisorietà, sia in relazione alle modalità di esercizio associato di servizî e funzioni comunali. Il menzionato decreto legge non solo conferisce il crisma della definitività all’elenco delle funzioni fondamentali, ma consente anche di abbandonare la connotazione prevalentemente servente che quella elencazione aveva svolto, nella legge sul federalismo fiscale, rispetto al calcolo dei costi e fabbisogni standard dei Comuni. Ne deriva una duplice ricaduta: in primo luogo, le voci di spesa non dovranno più essere conteggiate sulla base delle funzioni fondamentali temporaneamente indicate all’art. 21, l. n. 42/2009 (cfr. art. 3, d.lgs. n. 261/2010 contenente disposizioni in materia di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard di Comuni, Città metropolitane e province); in secondo luogo, la nuova elencazione prevista dall’art. 19, d.l. sulla “Spending Review” costituisce un riferimento normativo generale che, sia pur originato dall’esigenza di contenere il disavanzo pubblico, risulta dotato di una portata non esclusivamente settoriale e diventa imprescindibile anche per la successiva regolamentazione delle forme dell’associazionismo intercomunale (Meloni, G., Le funzioni fondamentali dei Comuni, in Il nuovo sistema degli enti territoriali dopo le recenti riforme, cit., 95 ss. e spec. 102 ss; Massa, M., [D. L. n. 95 del 2012] Funzioni fondamentali dei comuni ed esercizio associato di funzioni e servizi: altre novità del decreto-legge sulla c.d. spending review, in www.dirittiregionali.org, 16.7.2012). Più precisamente, si stabilisce una stretta correlazione tra scelta di identificare le funzioni fondamentali secondo uno schema uniforme per tutti i Comuni e regolamentazione più stringente delle forme associative; in altri termini, il d.l. n. 95/2012 sembra rendere compiuto un disegno legislativo già avviato dai testi legislativi precedenti – sia pur secondo modalità improvvisate e dettate dall’urgenza – orientato alla progressiva codificazione dell’obbligatorietà di figure di associazionismo tra Comuni quale risposta alla mancata considerazione della differenziazione territoriale, ai fini dell’individuazione delle funzioni fondamentali. L’elencazione delle funzioni fondamentali contenuta nel menzionato articolo 19 non è tuttavia esente da critiche e da dubbi interpretavi, imputabili alla particolare tecnica legislativa impiegata, che nel consegnare un elenco apparentemente esaustivo delle funzioni fondamentali – modellato anche sui trasferimenti (ai Comuni) di funzioni e servizi già effettuati dalla precedente legislazione statale e regionale – si contraddistingue tuttavia per fondarsi su generici “ambiti funzionali” rendendo ineliminabile l’opportunità di un successivo intervento statale o regionale, a seconda della materia nella quale l’ambito ricade, di ulteriore e più specifica disciplina della funzione. Non viene così eliminato il pendolo tra le competenze legislative statali e regionali relative alla concreta allocazione delle puntuali funzioni amministrative, questione che già aveva alimentato un nutrito contenzioso di fronte alla Corte costituzionale in attuazione dell’articolo 118 Cost.; segnale che costituisce più in generale il riflesso e la conferma dell’inidoneità del concetto di materia a risolvere il riparto fra competenze legislative consacrato nell’articolo 117 Cost. A tale proposito, viene visto con favore il recupero, ricavabile tra le righe della citata relazione finale della Commissione per le riforme costituzionali (presentata il 13.9.2013), dei concetti di “tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica”, di “interesse nazionale”, che avrebbero il pregio di superare quella frammentazione delle competenze legislative, basata sull’incerto criterio della materia, in favore del diverso parametro fondato sul livello degli interessi, quale indice di graduazione del differente spessore di pubblicità insito in questioni che variamente investono i differenti ambiti di governo (Romano, Alb., Introduzione in Mazzarolli, L.-Pericu, G.-Romano, Alb.-Roversi Monaco, F.A.-Scoca, F.G, a cura di, Diritto amministrativo, Bologna, 2006, 50 ss.). Alcune considerazioni sul nuovo profilo istituzionale dei Comuni disegnato dall’articolo 19 si rendono necessarie: si registra innanzitutto una forte eterogeneità nella tecnica legislativa di descrizione delle funzioni fondamentali; alcune risultano indicate in modo generico, altre invece vengono individuate in modo più puntuale e dettagliato, quasi ad evitare ulteriori e potenziali ingerenze da parte del legislatore regionale. Non del tutto chiarita poi risulta la relazione tra funzioni fondamentali e funzioni proprie, così come ricostruibile a seguito dell’avvenuta identificazione delle prime; dall’analisi dell’articolo 19 restano infatti tagliate fuori alcune delle funzioni che storicamente sono sempre state svolte a livello comunale, ad esempio quelle relative alla disciplina delle attività economiche (commercio su aree pubbliche, impianti di distribuzione del carburante) e dei servizi culturali. Del resto, il dibattito vivace che aveva impegnato la dottrina all’indomani della riforma del titolo V della Costituzione aveva già colto nelle funzioni fondamentali il ruolo precipuo di scolpire lo scheletro organizzativo e funzionale degli enti locali senza tuttavia escludere per i Comuni la facoltà di assumere discrezionalmente ulteriori funzioni per la soddisfazione di esigenze, sociali ed economiche, legate alle specificità territoriali. Nella medesima prospettiva ricostruttiva, allora, neanche i più recenti tentativi legislativi hanno dato prova di riuscire ad anticipare ed esaurire a priori gli interessi o gli ambiti materiali affidati alle cure degli enti locali, rievocandone così quella tradizionale definizione che ha sempre evidenziato, quale loro cifra più significativa, la vocazione ad interpretare e gestire, quindi amministrare, la generalità degli interessi radicati nel territorio (Schmidt-Aßmann, E., Kommunalrecht, in Schmidt-Aßmann, E.-Schoch, F., a cura di, Besonderes Verwaltungsrecht, Berlin, 2008, 21 ss.). A tale proposito, se la riserva di legge statale contenuta nell’articolo 117, co. 2, lett. p), Cost. veniva autorevolmente interpretata – all’indomani della modifica della carta costituzionale nel 2001 – quale esclusione delle Regioni dall’intervento regolatorio rispetto ad una sfera, quella dell’autonomia locale, ritenuta costituzionalmente riservata, non si comprende perché adesso dovrebbe essere nuovamente evocato un ruolo del legislatore regionale nell’ulteriore perimetrazione di funzioni altre rispetto a quelle tassativamente rimesse al legislatore statale. Un’ingerenza siffatta costituirebbe un evidente vulnus rispetto alla generale capacità di autodeterminarsi storicamente riconosciuta ai Comuni, oggi anche quale proiezione del principio di sussidiarietà, che affida loro un’effettiva funzione di integrazione sociale non surrogabile da parte delle Regioni. Peraltro, uno sguardo alla definizione costituzionale prevista dagli altri sistemi europei, unitamente ai contenuti prescrittivi già cristallizzati più in generale dalla Carta europea dell’autonomia locale nel 1985, consente di scorgere il medesimo accento posto sulla relazione che, in una prospettiva di apertura, lega gli enti locali alla cura della generalità degli affari e degli interessi radicati ed emergenti a livello locale (art. 3, Carta europea dell’autonomia locale stipulata a Strasburgo il 15.10.1985: «Per autonomia locale, s’intende il diritto e la capacità effettiva, per le collettività locali, di regolamentare e amministrare nell’ambito della legge, sotto la loro responsabilità, e a favore delle popolazioni, una parte importante degli affari pubblici»; l’art. 4, co. 2 della stessa Carta europea nel precisare la portata dell’autonomia locale stabilisce: «Le collettività locali hanno, nell’ambito della legge, ogni più ampia facoltà di prendere iniziative proprie per qualsiasi questione che non esuli dalla loro competenza o sia assegnata ad un’altra autorità»; l’art. 28, co. 2, della Legge fondamentale tedesca di Bonn del 1949 recita: «Ai comuni deve essere garantito il diritto di regolare, sotto la propria responsabilità, tutti gli affari della comunità locale nell’ambito delle leggi», sottolineato nostro; nel sistema francese l’esigenza di razionalizzare la sovrapposizione delle competenze amministrative ai diversi livelli di governo aveva indotto a sopprimere la clausola della competenza generale per i Dipartimenti delle Regioni in base all’art. 73 della l. 16.12.2010, n. 1563: tale orientamento sembrerebbe di nuovo in fase di superamento con l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri in data 10.4.2013 del Projet de loi de modernisation de l’action publique territoriale e d’affirmation des métropoles dove viene previsto il reinserimento della clausola di generalità per favorire la capacità di azione di alcune collettività territoriali a vantaggio della generalità dei cittadini). Lo spazio che il legislatore sembra, più o meno consapevolmente, lasciare alle cosiddette funzioni “proprie” – desumibile dalla non esaustività delle funzioni definite come “fondamentali” rispetto ai compiti che storicamente hanno svolto e continuano a svolgere i Comuni quali interpreti del benessere sociale ed economico delle collettività locali – costituisce garanzia e presidio per l’esplicazione dell’autonomia normativa ed amministrativa degli enti locali; autonomia che le contingenze economiche e politiche sono tenute a rispettare in quanto parte essenziale della trama di valori già contenuti nelle norme della Costituzione (art. 5 Cost.).
L’esaminata identificazione delle funzioni fondamentali dei Comuni, come in parte anticipato, non può essere concettualmente scissa dalla disciplina finale delle forme associative tra Comuni desumibile dal medesimo art. 19, del citato d.l. n. 95/2012 (Falcon, G., La crisi e l’ordinamento costituzionale, in Le Regioni, 2012, 9 ss; Vandelli, L., Sovranità e federalismo interno: l’autonomia territoriale all’epoca della crisi, cit., 864 ss; Pizzetti, F., La nuova normativa in materia di enti territoriali: una grande riforma, cit., 56 ss.; Bilancia, P., L’associazionismo obbligatorio dei Comuni nelle più recenti evoluzioni legislative, in www.federalismi.it; Tondi Della Mura, V., La riforma delle Unioni di Comuni fra “ingegneria” e “approssimazione” istituzionali, in www.federalismi.it.), del quale sono stati abrogati alcuni commi dalla muova disposizione n. 56 del 7.4.2014 sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni.
All’intento costituzionalmente previsto di non distinguere tra Comuni sul piano delle dimensioni geografiche e demografiche e delle specificità economico-sociali segue una regolamentazione minuziosa di forme obbligatorie di associazionismo, che perseguono l’obiettivo di garantire l’effettivo svolgimento delle funzioni fondamentali da parte dei Comuni di dimensioni più ridotte. L’elemento più vistoso, che innova rispetto alle precedenti discipline legislative dell’Unione di Comuni è, come già segnalato, quello della obbligatorietà. Già infatti la l. n. 142/1990, all’art. 26, disciplinava l’Unione di Comuni contermini appartenenti alla stessa Provincia e aventi ciascuno popolazione non superiore a 5.000 abitanti, per l’esercizio di una pluralità di funzioni e servizi. Il fallimento di questo modello associativo è risultato prevalentemente imputabile al carattere temporaneo della menzionata formula organizzativa destinata, nella disciplina del 1990, alla successiva e obbligatoria fusione tra Comuni; esito, quest’ultimo, avvertito come una minaccia per il mantenimento delle singole identità comunali.
A questo primo modello associativo, in un clima politico e legislativo preparatorio dei successivi interventi costituzionali di promozione e valorizzazione dell’autonomia territoriale, ha fatto seguito la previsione di forme introdotte dalla l. n. 265/1999 (art. 6, co. 5) poi codificate dal d.lgs. n. 267/2000 (art. 32, t.u.e.l.) e contraddistinte da flessibilità organizzativa, volontarietà e pluralità dei tipi associativi disciplinati. Le forme piuttosto disomogenee di Unioni formatesi negli anni successivi non sono riuscite a risolvere la questione della garanzia dello svolgimento delle funzioni fondamentali da parte dei piccoli Comuni; sebbene la riforma costituzionale del 2001 non si sia preoccupata di regolare direttamente il fenomeno dell’associazionismo, tuttavia, l’art. 118 Cost. introduce espressamente alcuni principi (differenziazione, adeguatezza, sussidiarietà) dai quali sarà possibile ricavare indicazioni positive, che consentiranno di scorgere nella forma associativa un possibile rimedio alle difficoltà gestorie dovute alle differenti disponibilità di risorse finanziarie e di dotazione di personale tra i Comuni italiani.
La crisi economica iniziata del 2008 ha costituito un impulso ulteriore a rivisitare la disciplina dell’associazionismo sia pur prevalentemente nell’ottica di razionalizzazione della spesa pubblica e di ridimensionamento del personale amministrativo. L’art. 19, d.l. n. 95/2012, nel tentare di ricondurre a sistema i precedenti interventi legislativi riguardanti l’associazionismo tra Comuni, riscrive alcune norme (in particolare, l’art. 14, d.l. n. 78/2010 e l’art. 16, d.l. n. 138/2011) oggetto di incertezze interpretative. I punti che vengono espressamente chiariti riguardano essenzialmente: i limiti demografici ed i tempi entro i quali i piccoli Comuni sono obbligati a ricorrere a forme associative, procedendo contestualmente alla loro tipizzazione; i poteri sostitutivi, in caso di inadempimento da parte dei Comuni di dimensioni tali da non potere garantire l’esercizio delle funzioni fondamentali; i poteri regionali, rispetto alla regolamentazione delle forme associative.
Quanto alle indicazioni demografiche, l’art. 19 prevede ipotesi differenti: il limite quantitativo a partire dal quale i Comuni sono tenuti, di regola, a svolgere in modo associato tutte le funzioni fondamentali riscritte dall’art. 19 – ad eccezione di quelle di competenza statale (lettera l), che danno conferma dell’ambivalente natura del Comune quale ente comunitario espressione della collettività locale e quale ente amministrativo manifestazione di decentramento – viene fissato nel numero di 5000 abitanti. Viene poi previsto un diverso limite, inferiore e coincidente con 3000 abitanti, se i Comuni appartengono o sono appartenuti a comunità montane; vengono, inoltre, individuate delle eccezioni all’esercizio obbligatorio delle funzioni secondo la modalità associata, per i Comuni il cui territorio coincide integralmente con quello di una o di più isole.
L’art. 19 (modificando l’art. 14, co. 31, del d.l. n. 78/2010) stabilisce in 10.000 abitanti il limite demografico minimo complessivo delle unioni e delle convenzioni, lasciando però aperta la possibilità che le singole Regioni prevedano un diverso limite demografico entro i tre mesi antecedenti alla scadenza del primo termine di esercizio associato obbligatorio, ai sensi dell’art. 14, co. 31-ter del d.l. n. 78/2010 (vedi infra). La recente l. 7.4.2014 n. 56, all’art. 1, co. 107, fissa in 3000 abitanti il limite demografico minimo per la costituzione delle unioni limitatamente ai comuni che appartengono o siano appartenuti a comunità montane, fermo restando che, in tal caso, le unioni devono essere formate da almeno tre comuni, e salvo diversi limiti e deroghe previsti dalla legislazione regionale.
Alle analizzate alternative demografiche, legislativamente previste, deve aggiungersi il potere riconosciuto in capo alle Regioni in base all’art. 19 (che ancora una volta innova sostituendola la disciplina già fissata all’art. 14, co. 30 del citato d.l. n. 78/2010) di individuare, nelle materie di cui all’art. 117, co. 3 e 4, Cost., previa concertazione con i Comuni interessati nell’ambito del Consiglio delle autonomie locali, «la dimensione territoriale ottimale e omogenea per area geografica per lo svolgimento, in forma obbligatoriamente associata da parte dei comuni delle funzioni fondamentali […] secondo i principi di efficacia, economicità, di efficienza e di riduzione delle spese […]». L’identificazione di un ambito territoriale ottimale nel quale svolgere le funzioni fondamentali comunali in forma associata se, da un lato, costituisce una proiezione/attuazione dei principî costituzionali di differenziazione e di adeguatezza evocati nell’articolo 118 Cost. per l’allocazione delle funzioni amministrative tra livelli di governo – oltre ad essere ispirato a formule organizzative impiegate anche in altre discipline (come, ad esempio, in materia ambientale, dove il d.lgs. 3.4.2006, n. 152, all’art. 64 già divideva il territorio nazionale in distretti idrografici, determinati con riferimento ad ambiti tendenzialmente omogenei di corsi d’acqua non coincidenti con i territori regionali) –, dall’altro, solleva delicati problemi teorici relativi alla difficoltà di conciliare il valore della rappresentatività delle collettività stanziate sul territorio, con quello della logica economica, permeato dalle diverse ragioni dell’efficienza e della riduzione della spesa pubblica, indifferenti rispetto al cosiddetto vincolo associativo, che tradizionalmente lega l’ente politico alle comunità locali.
Il quadro legislativo non appare lineare rispetto ai tempi di avvio dell’esercizio associato delle funzioni. Nell’art. 19, co. 1, punto d), d.l. n. 95/2012 si consente alle Regioni di stabilire un termine per l’esercizio delle funzioni fondamentali in forma associata che potrebbe anche non coincidere con quelli, previsti in due successivi scaglioni, indicati dallo stesso articolo 19; quest’ultimo alla lettera e) prevede, infatti, due termini entro i quali procedere alla costituzione delle forme associative (riversati nell’art. 14, co. 31-ter del d.l. n. 78/2010): entro il 1.1.2013 in relazione ad almeno tre delle funzioni fondamentali individuate; ed entro il 1.1.2014 con riguardo alle restanti funzioni fondamentali. Sul punto la l. n. 56/2014 nel dettare una disciplina più dettagliata delle forme associative non stabilisce ulteriori slittamenti, ma nelle disposizioni finali (art. 1, co. 149) prevede che il Ministero per gli affari regionali predisponga, entra sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge, appositi programmi di attività contenenti modalità operative e altre indicazioni dirette ad assicurare il rispetto dei tempi e la verifica dei risultati.
Segno della richiamata torsione verso forme di controllo accentrato è la previsione di poteri di sollecitazione ed invito ad adempiere in capo al Prefetto, nelle ipotesi in cui i Comuni non abbiano rispettato i menzionati termini per la costituzione delle forme associative, e quindi di poteri sostitutivi ex art. 8, l. 5.6.2003, n. 131. Dubbi residuano, tuttavia, rispetto ai tempi dell’esercizio dei menzionati poteri sostitutivi, in considerazione del possibile disallineamento rispetto alle scadenze legislativamente previste dovute all’eventuale fissazione da parte delle Regioni di termini differenti per l’avvio delle funzioni associate. Aspetto quest’ultimo che in qualche modo asseconda il rinnovato coinvolgimento regionale nella disciplina dell’autonomia locale in parziale controtendenza rispetto agli orientamenti maturati successivamente alla riforma costituzionale del 2001 assestati nel contenere ruoli fortemente pervasivi – come accadde all’indomani della prima legge sulle autonomie locali (l. n. 142/1990) – dei legislatori regionali.
La riforma dell’assetto locale operata con il d.l. n. 95/2012, in minima parte modificata dalla richiamata l. n. 56/2014, presenta contenuti complessivamente non sempre coerenti con la delineazione costituzionale dei confini tra competenze statali e regionali, nonché con l’effettiva garanzia dell’autonomia locale: da un lato, si registra una tendenza all’accentramento nella competenza statale di profili disciplinari ed ambiti prima ritenuti di competenza regionale (regolamentazione puntuale delle forme associative); dall’altro lato, emerge un ruolo del legislatore regionale a tratti poco rispettoso dell’autodeterminazione dei poteri locali.
Quanto al primo profilo, come è noto, la giurisprudenza costituzionale ha avallato la riconduzione della materia “coordinamento della finanza pubblica” – affidata alla potestà legislativa regionale concorrente dal vigente art. 117, co. 2, Cost. – alla competenza statale, a condizione che quest’ultima si limitasse a contenere disposizioni di principio. Si è aperto allora un varco interpretativo per cogliere nel coordinamento della finanza pubblica una “materia trasversale” capace anche di prevalere sulla competenza regionale residuale in quanto incline a ricomprendere la tutela di un interesse di livello nazionale. La Corte costituzionale ha riconosciuto la legittimità di leggi statali volte ad introdurre principî fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica, alla duplice condizione che «in primo luogo, […] si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della medesima, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente; in secondo luogo, […] non prevedano in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi» (C. cost., sentenze 17.7.2012, n. 193, 4.6.2012, n. 148 e 19.07.2011, n. 232, in www.cortecostituzionale.it).
La difficoltà di segnare il confine tra competenze statali e regionali appare ancor più delicata in relazione alla puntuale disciplina statale delle forme associative che, come è stato rilevato in recenti ricorsi presentati dalle Regioni dinanzi alla Corte costituzionale (con riguardo alla legittimità dell’art. 19, d.l. n. 95/2012, ritenuto lesivo dell’autonomia regionale e locale, in quanto conterrebbe una disciplina eccessivamente dettagliata dell’associazionismo comunale, che non lascerebbe alcun margine di scelta ai Comuni circa le modalità di attuazione), sembrerebbe utilizzare strumentalmente il richiamo all’esistenza di urgenti necessità di coordinamento finanziario per introdurre stabili riforme organizzative degli ordinamenti locali (cfr. i principi espressi da C. cost., 6.6.2012, n. 151, in www.cortecostituzionale.it). Difficoltà ermeneutiche che il disegno di legge di revisione della Costituzione (A.C. n. 1543) vorrebbe superare con la riscrittura di alcune delle materie affidate alla competenza esclusiva dello Stato e in particolare – con riferimento alla lettera p) dell’art. 117, co. 2 – con l’aggiunta del termine “ordinamento” (accanto a legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali dei Comuni), e con l’estensione della riserva di legge statale alla disciplina delle forme associative e dell’ordinamento degli enti di area vasta.
L’art. 19 del d.l. n. 95/2012 procede alla tipizzazione delle forme associative, sostanzialmente ricondotte alle figure dell’Unione e della Convenzione. All’interno di questa bipartizione tra modelli associativi, l’Unione assume a sua volta profili disciplinari differenziati, che consentono di individuare alcune figure particolari rispetto al modello che potremmo dire “generale”, già disciplinato dal citato art. 14, co. 28, d.l. n. 78/2010 (Comuni con popolazione fino a 5000 abitanti, o fino a 3000 se appartengono o sono appartenuti a comunità montane, con le eccezioni ivi previste), che ha ad oggetto lo svolgimento delle sole funzioni fondamentali in forma associata secondo le regole dell’articolo 32 t.u.e.l., così come novellato dallo stesso articolo 19. Quest’ultimo introduceva una dettagliata disciplina dell’organizzazione dell’Unione, che si estendeva dalla composizione degli organi (presidente, giunta e consiglio) – formati da amministratori in carica dei comuni associati, anche al fine di non incidere sui costi della politica – alle modalità di scelta del Presidente; disciplina minuziosa, che determinava una compressione dell’autonomia statutaria dell’Unione, così come prevista nel Testo unico del 2000; profilo quest’ultimo che è stato superato con l’emanazione della l. 7.4.2014 n. 56, che (abrogando i co. 4, 5, 6 dell’art. 19, d.l. n. 95/2012) restituisce una maggiore autonomia organizzativa allo Statuto dell’Unione (art. 1, comma 105).Viene inoltre stabilito come i Comuni che abbiano optato per l’Unione non possano svolgere singolarmente le funzioni affidate alla figura associativa della quale sono entrati a far parte, e come la medesima funzione non possa essere svolta da più di una forma associativa (art. 14, co. 29, d.l. n. 78/2010).
Tra le figure che si differenziano dal modello generale, viene prevista l’autonoma figura dell’Unione di comuni montani, qualora siano questi ultimi a costituirla in prevalenza, al fine di esercitare le specifiche competenze di tutela e di promozione della montagna attribuite in attuazione dell’art. 44 Cost. La figura dell’Unione speciale prevista in relazione allo svolgimento in forma associata delle funzione dei Comuni con popolazione fino a 1000 abitanti dall’art. 16, d.l. n. 138/2011 (poi modificato dal d.l. n. 95/2012) è stata abrogata dalla l. n. 56/2014 sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni.
La figura della Convenzione, in base alla disciplina contenuta nel decreto sulla Spending Review, appare come una forma associativa sfavorita in quanto contrassegnata dal carattere della temporaneità: la Convenzione, infatti, sottoposta in quanto compatibile alla disciplina dell’art. 30 t.u.e.l., ha una durata triennale; al termine di questo periodo, ove non sia dimostrato, da parte dei Comuni aderenti, il raggiungimento di significativi livelli di efficacia e di efficienza nella gestione (rispetto a parametri determinati con decreto del Ministero dell’interno, da adottare entro sei mesi, sentita la Conferenza Stato-Regioni) i Comuni interessati sono obbligati a svolgere le funzioni fondamentali ricorrendo alla forma associativa dell’Unione (art. 14, co. 31-bis, d.l. n. 78/2010). La Convenzione appare come un modello maggiormente flessibile destinato all’utilizzo per l’esercizio associato di alcune funzioni non solo tra singoli Comuni ma anche tra le stesse Unioni, potendo tale maggiore duttilità risultare più rispettosa dell’autonomia organizzativa comunale e delle eventuali, e precedenti, Unioni anche di dimensioni superiori ai limiti demografici tassativamente indicati dal d.l. n. 95/2012 (Mazzella, F., La gestione associativa di servizi e funzioni comunali, in Gazzetta amministrativa, 2011, 1, 117 ss.).
La recente legge n. 56/2014 fornisce una disciplina più sistematica delle Unioni di comuni, conferendo maggiore coerenza ad un istituto la cui regolamentazione costituisce il frutto di interventi normativi emanati in condizioni di emergenza finanziaria; nell’ottica del contenimento della spesa pubblica viene altresì prevista la gratuità di tutte le cariche dell’Unione. Più nel dettaglio, viene incentivato il ricorso all’istituto della fusione tra Comuni – innovando rispetto ai contenuti del testo unico degli enti locali – attraverso il riconoscimento di un trattamento più favorevole in ordine ai possibili spazi di indebitamento ed in ordine all’applicazione, in quanto compatibili, di norme di incentivazione e semplificazione. Dalla l. n. 56/2014 emerge come il ricorso alle forme associative tra Comuni verrebbe sganciato dalla presenza di determinati e tassativi presupposti demografici, al fine di agevolarne l’utilizzo, soprattutto per i Comuni di più piccole dimensioni (estese fino ad un limite di 5000 abitanti), in vista della maggiore efficienza nello svolgimento delle funzioni comunali.
L. 20.3.1865, n. 2248 (allegato A); l. 8.6.1990, n. 142; d.lgs.18.8.2000, n. 267; d.l. 31.5.2010 n. 78 convertito con modificazioni nella l. 30.7.2010, n. 122; d.l. 3.8.2011, n. 138 convertito con modificazioni nella l. 14.9.2011, n.148; d.l. 6.12.2011, n. 201 convertito con modificazioni nella l. 22.12.2011, n.214; d.l. 6.7.2012, n.95 convertito con modificazioni nella l. 7.8.2012, n.135; l. 7.4.2014, n. 56; Carta europea delle autonomie locali (firmata a Strasburgo il 15.10.1985 e ratificata in Italia con l. 30.12.1989, n. 439).
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