Enti locali. Crisi economica e trasformazioni del governo locale
L’evoluzione recente del governo locale si presenta profondamente contrassegnata da misure indotte dalla crisi economica. Misure che, sotto la spinta di urgenze reiterate, incidono non solo sui flussi di risorse disponibili, ma sugli stessi assetti strutturali degli enti locali. Così, a più riprese, il dibattito e gli interventi del legislatore vanno toccando questioni istituzionali complesse e delicate, come quelle legate alle dimensioni dei comuni ed alle loro forme associative, o come quelle connesse al ruolo delle province. La revisione organica dell’ordinamento delle autonomie, richiesta dalla riforma del titolo V della Costituzione sin dal 2001, rimane così una prospettiva incerta.
La manovra economica approvata con d.l. 13.8.2011, n. 138, convertito nella l. n. 148/2011, ripropone la questione della riduzione dei costi. Le crisi economiche inducono ad interventi sulle pubbliche istituzioni che assumono una gamma assai variegata di forme, contenuti, effetti. In primo luogo, questi interventi si svolgono su un piano propriamente finanziario: stabilendo riduzioni dei fondi da trasferire a soggetti pubblici, aumentando le loro capacità di prelievo fiscale, fissando soglie alle spese. Accanto (o in seguito) ad interventi di questo tipo, peraltro, nelle fasi di crisi si sviluppano azioni volte ad incidere in termini strutturali sulle organizzazioni pubbliche; ridimensionando, accorpando, sopprimendo organi ed enti. In una prospettiva che spesso trascende ampiamente le logiche e gli obbiettivi di contrasto ad una crisi che si auspica temporanea. In effetti, in Italia nella fase recente sull’ordinamento delle autonomie si sono concretamente riverberati incisivi interventi motivati in relazione al ricorrente richiamo ad obbiettivi di «contenimento dei costi della politica» o, con qualche maggiore precisione, di «riduzione dei costi degli apparati istituzionali », particolarmente nel contesto di manovre economiche; interventi puntuali che spesso si aggiungono ed alternano, peraltro, ad altre disposizioni inserite in leggi «omnibus» di vario genere, dalle norme per l’adempimento degli obblighi europei («leggi comunitarie») alle misure di proroga di termini ed adempimenti («mille proroghe»), passando, anzitutto, per le reiterate manovre finanziarie. Interventi di questo tipo possono concernere, anzitutto, aspetti relativi ad indennità o rimborsi spese a titolari di cariche pubbliche, ma che non raramente si proiettano su profili ordinamentali, talora prefigurando e determinando cambiamenti strutturali, con effetti non facilmente reversibili sugli assetti delle istituzioni. In questa direzione, già si era mossa, particolarmente, la finanziaria per il 2010 (l. 23.12.2009, n. 191); che, nel disporre una significativa riduzione dei trasferimenti erariali agli enti locali posta in relazione con una serie di misure volte a garantire risparmi di spesa, prevedeva – oltre ad una riduzione del numero dei consiglieri e degli assessori comunali – la soppressione di una serie di istituti, organi, incarichi (dai consorzi di funzioni alle circoscrizioni di decentramento, dai difensori civici ai direttori generali, sino alle giunte nei comuni inferiori ai 3.000 abitanti) e la cessazione del concorso dello Stato al finanziamento delle comunità montane (un 30% del quale, peraltro, sarebbe stato assegnato ai comuni montani). Sui medesimi oggetti, del resto, il Governo interveniva a breve distanza (circa un mese) con decreto legge già nel gennaio 2010, con una nuova disciplina, per vari aspetti ampliata e nuovamente riscritta, nel marzo successivo, dalla Camera in sede di conversione (d.l. n. 2/2010, convertito in l. n. 42/2010). Nel loro insieme, queste ulteriori disposizioni rimodulavano ogni misura della finanziaria, in materia di governo locale; aggiungendo ulteriori interventi, a partire dalla soppressione delle autorità di ambito territoriale che una disciplina di qualche anno prima (d.lgs. n. 152/2006) aveva inteso costituire obbligatoriamente tra enti locali per gestire le competenze in materie rilevanti come il servizio idrico e la gestione dei rifiuti urbani. Ancora, nel maggio del 2010, un ulteriore decreto legge (n. 78, convertito, con modificazioni, nella l. n. 122) interveniva sui piccoli comuni, vincolandoli all’esercizio obbligatoriamente associato delle funzioni; poneva limiti alla costituzione di società, vietandola per comuni inferiori a 30.000 abitanti; sopprimeva l’Agenzia per la gestione dei segretari comunali. Così, si è intervenuti con misure di abolizione o ridimensionamento su alcuni istituti ed organi che avevano caratterizzato, nella stagione delle riforme degli anni ’90, le prospettive di un’amministrazione locale più partecipata (si pensi, ad esempio, ai difensori civici), più vicina ai cittadini (anche grazie alle forme di decentramento urbano), più efficiente (in particolare, arruolando competenze manageriali attraverso la figura del direttore generale). Da ultimo, sui temi che riguardano gli assetti delle autonomie è intervenuta la manovra economica approvata con il d.l. 13.8.2011, n.138; convertita – con rilevanti modificazioni – nella l. n. 148/2011. Nell’ambito di questa manovra, nuove misure per la riduzione dei costi della rappresentanza di comuni e province, anzitutto ridimensionano ulteriormente e significativamente il numero dei membri dei consigli1; ma soprattutto, le misure approvate o proposte, e il dibattito – talora assai vivace – che le ha accompagnate hanno coinvolto elementi di fondo del nostro sistema di governo locale, nella fisionomia definita nel corso di una lunga e consolidata tradizione: a partire dalle questioni relative ai piccoli comuni, da un lato, e dalla presenza del livello provinciale, dall’altro.
Le questioni più importanti investono le sorti dei piccoli comuni e delle province.
2.1 Comuni di minori dimensioni ed esercizio associato delle funzioni
In Italia, i comuni si presentano particolarmente numerosi ed eterogenei; con una diffusa presenza di enti dalle dimensioni piccole o piccolissime; mostrando evidenti aspetti di inadeguatezza economica, organizzativa e funzionale. I comuni italiani sono oggi 8.094; di questi 7.467 sono inferiori a 15.000 abitanti, mentre circa 2.000 (per la precisione 1970) di abitanti ne hanno meno di mille. Nel nostro Paese, la questione degli assetti territoriali dei comuni è al centro di un ricorrente dibattito; talora perseguendo ipotesi di un riordino territoriale che aggregasse i comuni minori in nuovi enti dalle dimensioni adeguate, seguendo la via già adottata in vari Paesi europei, dalla Germania alla Gran Bretagna, dal Belgio ai Paesi scandinavi; senza conseguire, peraltro, alcun risultato significativo. Così, in varie fasi, la soluzione ai problemi posti dalle piccole dimensioni dei comuni è stata ricercata, piuttosto che sul piano strutturale – vale a dire, appunto mediante le fusioni –, su quello funzionale, attraverso forme di cooperazione e associazione che consentano ai comuni minori di operare comunque con dimensioni (finanziarie, organizzative, territoriali) adeguate alle funzioni. Nella fase recente, la prospettiva di affrontare i problemi dei piccoli comuni puntando su forme associative, chiamate ad esercitare per questi enti – anche in via obbligatoria – la gran parte delle funzioni comunali, è stata ripresa dal legislatore: particolarmente nel d.l. 31.5.2010, n. 78 (art. 14, co. 31); ove si stabiliva in 5.000 abitanti (o, in alternativa, nel quadruplo del numero degli abitanti del comune demograficamente più piccolo tra quelli associati) il limite demografico minimo per l’esercizio obbligatoriamente associato delle funzioni fondamentali, così come definite – in via transitoria – dalla legge sul «federalismo fiscale» (art. 21, co. 3, l. n. 42/2009), secondo un processo incrementale, da completarsi comunque, con riguardo a tutte le sei funzioni previste dalla legge – amministrazione generale, polizia municipale, istruzione, viabilità e trasporti, territorio e ambiente, servizi sociali – entro il 2013. Disciplina , questa, di non agevole attuazione; ma ora ribadita dalla «manovra estiva» del luglio 2011 (art. 16 d.l. 13.8.2011, n. 138), che, anzi, ha inteso rincarare la misura, anticipandone la scadenza (stabilita ora entro il 2012), e raddoppiando la soglia demografica per l’esercizio associato delle funzioni, elevata a 10.000 abitanti. Limite, questo, peraltro derogabile «con delibera della Giunta regionale», secondo il testo originario del decreto legge; corretto, su questo punto, attribuendo il potere genericamente «alla regione», considerata l’evidente illegittimità costituzionale per ingerenza in un ambito (la individuazione di competenze di organi regionali) certamente riservato allo statuto ed alle altre fonti di autonomia regionale. Ma le perplessità di ordine costituzionale toccano in termini ben più rilevanti la disciplina relativa alla «riduzione dei costi relativi alla rappresentanza politica dei comuni» (art. 16). Anche se vengono superati, nella versione finale, rilevanti motivi di perplessità costituzionale in relazione alla disciplina stabilita per i comuni sino a 1.000 abitanti; per i quali il decreto legge, sopprimendo ogni organo collegiale, riduceva drasticamente l’organizzazione di governo al solo sindaco; mentre tutte le funzioni amministrative sarebbero state esercitate obbligatoriamente in forma associata con analoghi comuni contermini, tramite una nuova forma associativa, l’«unione municipale». Forma davvero peculiare, essendo dotata di organi composti esclusivamente dai sindaci dei comuni associati. La disciplina del procedimento per la costituzione dell’unione veniva demandata ad un regolamento governativo; mentre, a garantire l’effettivo rispetto dell’obbligo di costituire l’unione municipale, veniva riconosciuto al prefetto il potere di nominare – decorso inutilmente il termine assegnato per adempiere – un commissario ad acta. In questi termini, il d.l. n. 138 pareva travalicare sotto vari profili i principi costituzionali: anzitutto, nel riparto di competenze tra Stato e regioni, considerato che la disciplina delle forme associative tra comuni non rientra nella riserva di legge statale stabilita dalla lett. p) dell’art. 117, co. 2, Cost., spettando dunque alla competenza residuale delle regioni (C. cost., sent. 24.6.2005, n. 244; 23.12.2005, n. 456; 1.12.2006, n. 397; 24.7.2009, n. 237; 28.1.2010, n. 27); che la potestà legislativa regionale si estende alla previsione di controlli sostitutivi, nell’ambito delle proprie competenze (sent. 27.1.2004, n. 43); che è parimenti escluso che la potestà regolamentare dello Stato possa estendersi al di là delle materie di legislazione esclusiva (art. 117, co. 6, Cost.). Ma soprattutto, il sistema delineato, concentrando l’organizzazione di governo in un solo organo monocratico, e conferendo l’esercizio dell’insieme delle funzioni comunali ad un livello associativo composto esclusivamente da sindaci (che, tra l’altro, in varie situazioni sarebbero tutti della medesima provenienza politica, con assenza di ogni dinamica tra maggioranza e opposizione), sembrava violare i più basilari principi di pluralismo democratico, che ispirano tutto il nostro disegno costituzionale, così come quello della Carta europea delle autonomie locali. A breve distanza dall’emanazione del decreto legge, tuttavia, lo stesso Governo interveniva sul testo, con un proprio emendamento2, destinato, non senza ulteriori modifiche, ad essere recepito nel testo finale della legge di conversione; mutando una gran parte dei contenuti del d.l. n. 138, anche e particolarmente in materia di piccoli comuni e forme associative. A proposito dei quali, nel confermare l’opzione per l’esercizio associato delle funzioni (obbligatoria per tutte le funzioni e per tutti i servizi per i comuni fino a 1.000 abitanti, e per le funzioni fondamentali per i comuni tra i 1.000 e i 5.000 abitanti; mentre le deroghe ai limiti demografici sono ora demandati, genericamente, alla regione), si elimina la figura della «unione municipale». Così, l’esercizio associato rimane affidato alle unioni di comuni, istituto ben noto in base alla disciplina contenuta nel t.u.e.l. (art. 32). In realtà, rispetto a quella disciplina, le disposizioni della legge di conversione introducono novità non trascurabili: tra l’altro, prevedendo che i rapporti con i comuni – particolarmente in relazione alla partecipazione dei consigli comunali alla predisposizione del bilancio dell’unione – si svolgono secondo precisi procedimenti, da definirsi ad opera di un regolamento governativo (co. 1-4); che l’istituzione – riservata pienamente, nella disciplina del t.u.e.l., a deliberazioni dei comuni interessati – sia ora deliberata dalla regione, sulla base delle proposte presentate dai comuni (co. 8); che il consiglio dell’unione, chiamato ad eleggere il presidente tra i propri componenti, sia composto, in prima applicazione, dal sindaco e da due consiglieri (di cui uno di opposizione) per ciascun comune, anche se «la legge dello Stato può stabilire che l’elezione avvenga a suffragio universale e diretto» (co. 10-11); che ai consigli dei comuni ricompresi nell’unione spettino ora esclusivamente poteri di indirizzo nei confronti del consiglio dell’unione (co. 9), mentre i sindaci conservano i poteri di ufficiale di governo (co. 12). Quanto all’organizzazione dei comuni, scompare, nella legge di conversione, l’eliminazione di consigli (ora composti da 6 membri) per i comuni inferiori a 1.000 abitanti, comunque privi di assessori; mentre, per i comuni inferiori a 15.000 abitanti si precisa che le riunioni del consiglio – che secondo il decreto legge avrebbero dovuto svolgersi «esclusivamente in orario serale, salvo casi straordinari di eccezionale gravità, adeguatamente motivata nell’atto di convocazione» – «si tengono preferibilmente in un arco temporale non coincidente con l’orario di lavoro dei partecipanti» (co. 19). In questo quadro, del resto, emerge con forza il ruolo del Ministero dell’interno e dei prefetti: è il primo, ad esempio, a valutare se possano essere esentati dall’obbligo di aderire ad una unione i comuni minori che, esercitando le funzioni mediante convenzione, abbiano conseguito «significativi livelli di efficacia ed efficienza» e ad approvare, con decreto del ministro, l’elenco dei comuni obbligati e di quelli esentati dalla prescrizione di necessario esercizio tramite unione (co. 16); mentre sono i prefetti ad accertare se i comuni hanno conseguito gli obbiettivi di riduzione delle spese previsti dall’art. 2, co. 186, lett. e), l. n. 191/2009, e dall’art.14, co. 32, d.l. n. 78/2010, provvedendo, se del caso, ad assegnare un termine perentorio, scaduto il quale si provvede al controllo sostitutivo da parte del Governo (co. 28). In questi termini, nel reimpostare con straordinaria celerità una disciplina complessa su temi così delicati, e nel correggere alcuni tratti contestati della originaria versione, si conferma la problematicità dell’impostazione adottata: anzitutto nella puntuale disciplina di forme associative tra comuni, al di fuori delle competenze riconosciute allo Stato dall’art. 117 Cost., come si è accennato; con ulteriori elementi di perplessità, laddove si introducono nuove ipotesi di intervento regolamentare del Governo, ancora in materia estranea alle competenze esclusive dello Stato (come avviene per il procedimento amministrativo- contabile previsto dal co. 4); oppure si interviene in materia propria dell’autonomia statutaria e regolamentare, sino ad occuparsi della fascia oraria in cui devono svolgersi le riunioni dei consigli (co. 19). Ad analoghe perplessità, del resto, potrebbero prestarsi disposizioni di difficile congruenza e attuazione (si pensi agli indirizzi dei singoli consigli comunali nei confronti dell’unione previsti dal co. 9, di incerto valore giuridico sulle deliberazioni da assumere da parte degli organi dell’unione, e con inevitabili possibilità di diversità e contrasti di contenuti); o disposizioni nelle quali una legge ordinaria, nel definire una determinata disciplina (in particolare, in materia di elezione degli organi dell’unione), prescrive che un’altra legge ordinaria «può stabilire » soluzioni diverse, di cui si delineano – inutilmente e vanamente – i contenuti.
2.2 La questione delle province
Le proposte di abolizione della provincia sono risalenti, in Italia, e cicliche: con fasi di accentuata vivacità, particolarmente nel periodo in cui (alla fine degli anni ’60) si preparava l’istituzione delle regioni ordinarie, o quando (nella prima metà degli anni ’70) queste parvero – tramite comprensori, circondari, ed altre forme - puntare su livelli intermedi alternativi. Nei fatti, peraltro, queste contestazioni non hanno arrestato le tendenze ad incrementare il numero delle province stesse: sia in qualche regione a statuto speciale (e particolarmente in Sardegna, dove una legge regionale del 2001 ha istituito 4 nuove province), sia nel restante territorio nazionale (dove nel 2004 sono state istituite le province di Monza e della Brianza, di Fermo, di Barletta-Andria-Trani); raggiungendo – per la prima volta nella storia nazionale – il considerevole traguardo di 110. Negli ultimi anni, diffusamente, nella penetrante campagna polemica nei confronti dei cd. «costi della politica», le province sono state indicate – in realtà, non raramente in termini prevenuti e superficiali – come emblematico esempio di spreco e di inutilità. Queste tendenze hanno portato più volte, nel dibattito, a proposte di soppressione: talora cancellando integralmente la provincia, talora concentrandosi sulle province di dimensioni più ridotte, considerate strutturalmente del tutto inadeguate e pletoriche. Su quest’ultimo piano si è collocato, da ultimo, il d.l. n.138; il cui art.15 recava l’eloquente titolo Soppressione di province e dimezzamento dei consiglieri e assessori. Aprendosi con l’annuncio di interventi più ambiziosi («in attesa della complessiva revisione della disciplina costituzionale del livello di governo provinciale»), e nel contesto di misure di drastico ridimensionamento degli organi della generalità delle province, l’articolo disponeva la soppressione delle province minori, qui definite come quelle la cui popolazione non raggiunge i 300.000 abitanti o la cui superficie sia inferiore a 3.000 chilometri quadrati. In concreto, ai presupposti previsti per la soppressione avrebbero corrisposto, a quanto risulta, 22 province (rispetto alle 37 prefigurate nelle prime versioni del decreto). Allo scopo di pervenire al nuovo disegno della mappa provinciale, si prevedeva che i «comuni del territorio della circoscrizione delle province soppresse» esercitassero, entro il termine accennato, «l’iniziativa di cui all’art. 133 Cost. al fine di essere aggregati ad un’altra provincia all’interno del territorio regionale, nel rispetto del principio di continuità territoriale». Ove, poi, l’iniziativa non venisse esercitata, le funzioni esercitate dalle province soppresse sarebbero state trasferite alle regioni, che avrebbero potuto attribuirle, anche in parte, alle province limitrofe a quelle soppresse, «delimitando l’area di competenza di ciascuna di queste ultime». In questi termini, il decreto delineava un percorso incostituzionale e, al tempo stesso, inapplicabile. Un percorso certamente distante dal procedimento stabilito dall’art. 133 Cost., ove l’iniziativa dei comuni ha precisamente per oggetto l’eventuale mutamento delle circoscrizioni o l’istituzione di nuove province; mentre nel decreto, l’iniziativa, veniva esercitata da comuni – rientranti in province di cui già si assumeva come disposta la soppressione («delle province soppresse») in realtà al di fuori da ogni procedura – semplicemente per optare per una diversa provincia, cui essere aggregati. Del resto, ove questa iniziativa non venisse esercitata, si sarebbe prodotta un’anomala situazione di assenza del livello della provincia, le cui funzioni – trasferite alla regione – sarebbero state in definitiva esercitate dai comuni stessi oppure da una provincia limitrofa. Creando situazioni dense di stridenti contraddizioni: quella tra l’eterogeneità e la frammentazione dei comuni e l’attribuzione di funzioni di area vasta, ad esempio, che pone questioni di fondo sulla forma o modalità che possa consentire l’esercizio di funzioni di questo tipo anche in enti minori; oppure quella tra la natura di una provincia, ente esponenziale di una collettività territoriale, e l’affidamento di funzioni nei confronti di altre popolazioni ed altri territori. In sostanza, si ipotizzava «la presenza nell’ordinamento di comuni non più ricompresi in alcuna provincia, ma – omisso medio – solo nella regione, un’ipotesi basata su una lettura del riferimento alle province – di cui all’art. 114 Cost. – analogo a quello relativo alle città metropolitane, enti necessari ma che non necessariamente devono coprire tutto il territorio nazionale»3. Lettura, questa, del tutto anomala del disegno delle autonomie, che sostanzialmente avrebbe degradato a scelta liberamente esercitabile dalla legge ordinaria dello Stato la stessa presenza o meno di un livello intermedio. Che una linea di questo tipo sia compatibile con le vigenti disposizioni costituzionali è lecito dubitare; ed è dubbio che, a quanto pare, si è posto anche in sede governativa, se già a pochi giorni dall’approvazione del decreto del 13 agosto, un comunicato della presidenza del Consiglio annunciava che il tema sarà rinviato ad una futura revisione della Costituzione, nell’ambito della quale si avanza ora una proposta diversa, tendendo ad una «soppressione delle province quali enti statali e conferimento alle regioni delle relative competenze ordinamentali ». Di tutto questo, comunque, si discuterà in altra sede; mentre la legge di conversione si limita a prevedere la soppressione di tutte le disposizioni che, nel d.l. n.138, concernevano la soppressione di province, fermo restando il solo comma che prevede il dimezzamento del numero dei consiglieri.
In un contesto fortemente segnato dalla crisi economica, dunque, le decisioni sugli assetti delle istituzioni tendono a sfuggire agli ordinari processi decisionali che accompagnano – o dovrebbero accompagnare – ogni riordino istituzionale: l’elaborazione dei testi si concentra in tempi assai rapidi in riservate sedi governative (o meglio: ministeriali), il confronto con i rappresentanti dei soggetti coinvolti si riduce ad un passaggio formale (che per lo più lascia inalterati i reciproci dissensi), il procedimento di discussione e di approvazione in Parlamento viene ristretto in termini accelerati e sommari, la posizione delle forze politiche appare condizionata dalle logiche complessive di adesione o contrasto alla manovra ben più che dall’esame dei singoli contenuti, lo stesso dibattito tra studiosi, esperti e commentatori si presenta confuso e approssimativo. In ogni fase e per ogni aspetto, del resto, gli obbiettivi di contenimento dei costi prevalgono nettamente su quelli di buon andamento delle amministrazioni (in tutta l’ampiezza di significati che l’espressione può assumere, in base all’art. 97 Cost.); e le logiche istituzionali (e spesso le stesse preoccupazioni costituzionali) risultano del tutto secondarie e recessive rispetto a quelle economiche. Questa considerazione assume particolare valenza precisamente in relazione ai processi di riforma che, a partire dagli anni ’90, hanno riguardato le autonomie, confluendo nel testo unico adottato con il d.lgs. n. 267/2000; un corpo normativo che tendeva alla organicità ed alla stabilizzazione dell’ordinamento, ma i cui contenuti venivano radicalmente messi in discussione dal nuovo quadro costituzionale definito, l’anno successivo, con l’approvazione della riforma del titolo V. Questa fondamentale opera di adeguamento, peraltro, è tuttora inattuata; mentre i singoli elementi che compongono il sistema vengono di volta in volta messi in discussione, rivisti, trasformati, soppressi in base a tempi, metodi e logiche condizionati dal contingente mutare delle circostanze e dalle emergenze, anzitutto economiche. Con effetti assai incisivi, sulla disciplina. Anche sulla stessa formulazione, oltre che sui contenuti, delle disposizioni; a proposito della quale colpisce la verbosa e confusa complessità. E certamente impressiona il fatto che, dopo anni di studi (e sperimentazioni) in materia di tecniche normative, better regulation, drafting, AIR, VIR, ecc., – studi che hanno conseguito, in Italia, livelli particolarmente avanzati –, ancora il legislatore statale offra dimostrazioni così improvvide nel trattare questioni di grande rilievo sociale, economico ed istituzionale con interventi aggrovigliati, sconnessi, estemporanei, disordinati. Destinati, ove venissero effettivamente attuati (circostanza, questa, che non può certo essere assunta come scontata, anche tenendo conto delle esperienze recenti)4 a sollevare gravose difficoltà interpretative ed operative ad amministratori, commentatori, giudici. Ma l’elemento più rilevante è costituito certamente dal rapporto di queste discipline con le disposizioni della Costituzione. Il cui ruolo si presenta profondamente svalutato, talora semplicemente ignorando il problema, talora in una esplicita ed enfatizzata prospettiva di revisione di queste disposizioni: che – «in attesa» o «in anticipazione» delle modifiche costituzionali – giustificatamente si prestano a deroghe e violazioni. In questo contesto, si colloca la considerazione che ispira queste tendenze normative (e, particolarmente, gli interventi inseriti nelle recenti manovre economiche) nei confronti del sistema delle autonomie; sistema che sembra configurarsi in termini sensibilmente diversi da quelli sanciti dal titolo V della Costituzione, talora anche rispetto alle disposizioni precedenti a quelle approvate con la riforma costituzionale del 2001. Così, divengono ipotizzabili – e possibili – interventi che in effetti incidono su tratti di fondo del sistema, gravando sugli equilibri della democrazia locale, sull’autonomia statutaria e organizzativa degli enti, sulle competenze legislative regionali, sui rapporti tra centro e periferia, con un recupero significativo di ruolo e poteri a vantaggio degli apparati dello Stato. A fronte di uno scenario di questo tipo, si presenta necessario, a mio avviso, non solo rivedere significativamente i contenuti precisi di una manovra affrettata e – quanto meno sotto un profilo istituzionale – improvvida, ma troncare con nettezza la tendenza che ha complessivamente e pesantemente segnato le vicende degli anni recenti: rinunciando ad ogni tentazione di riformare le istituzioni come conseguenza o effetto collaterale del contenimento e della riduzione della spesa pubblica, per passare ad una prospettiva inversa di contenimento e riduzione della spesa come elemento di un organico, coerente e realistico processo di riforma delle istituzioni locali.
1 In base all’art. 16 della legge, ora i consigli comunali sono composti, oltre che dal sindaco, da 6 consiglieri nei comuni sino a 3.000 abitanti (cui è attribuito un numero massimo di assessori pari a 2, mentre i comuni sino a 1.000 abitanti vengono privati della giunta); da 7 consiglieri (con un numero massimo di assessori non superiore a 3) nei comuni sino a 5.000; da 10 consiglieri (con una giunta non superiore a 4 assessori) nei comuni sino a 10.000 abitanti. In base all’art. 15, del resto, il numero dei consiglieri e degli assessori è ridotto della metà.
2 Emendamento al d.d.l. n. 2887, presentato al Senato l’ 1.9.2011.
3 In questi termini esplica i contenuti del decreto legge il Servizio Studi del Senato, nel Dossier XVI legislatura, Disegno di legge A.S. n. 2887, «Conversione in legge del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, recante ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo», vol. I, Sintesi e schede di lettura, agosto 2011, n. 305/1, 253.
4 Significativamente, il principale quotidiano economico italiano, Il sole-24 ore, ha seguito le varie fasi della manovra con una classificazione dei vari interventi non solo sulla base dei presumibili effetti sulla spesa, ma anche sulla facilità di attuazione – sulla «fattibilità» – delle misure previste; facilità che, precisamente nelle materie di cui ci si occupa in questa sede, viene spesso valutata come «scarsa».