Abstract
Lo scritto sottopone ad analisi l’evoluzione istituzionale e legislativa della Provincia e della Città metropolitana, a partire dall’unificazione nazionale del Regno di Italia del 1865 fino alla recente legge del 7 aprile 2014, n. 56, contenente “Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni”. Quest’ultima disciplina ha trasformato la Provincia e la Città metropolitana da enti rappresentativi delle collettività locali in enti di area vasta, precisandone le nuove funzioni. Viene inoltre fissata nel 1° gennaio 2015 la data a partire dalla quale le Città metropolitane indicate nella legge subentreranno alle Province omonime. La modifica legislativa rinvia espressamente alla riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, che – animata da esigenze di contenimento della spesa pubblica e da ragioni di semplificazione del sistema di governo multilivello – intenderebbe eliminare la Provincia dal novero degli enti costitutivi della Repubblica.
L’ambiguità istituzionale delle Province rappresenta un tratto costante dell’intera storia amministrativa post-unitaria. Le Province costituiscono, infatti, la più fedele applicazione del sistema amministrativo accentrato, tipico del modello napoleonico; delle Province è stato più volte sottolineato il carattere “artificiale” in quanto, a differenza dei Comuni, storicamente legati a preesistenti comunità naturali, le prime vennero istituite dalla legislazione sabauda per facilitare lo svolgimento delle funzioni governative nelle circoscrizioni locali. La stessa delimitazione delle Province risulta conseguente ad una geometrica ripartizione del territorio nazionale, congeniale alla razionalità cartesiana del disegno francese e volta a stabilire collegamenti successivi tra le popolazioni e l’organo governativo ad esse preposto (intendente o prefetto) (Petracchi, A, Le origini dell’ordinamento comunale e provinciale italiano, Venezia, 1962, II, 153; Berti, G., Amministrazione comunale e provinciale, Padova, 1994, 240). Estremamente attuale appare oggi la definizione della Provincia contenuta nella Relazione che il 23 ottobre 1859 il Ministro Rattazzi presentò al Re in accompagnamento al progetto della legge comunale e provinciale, nella quale emerge come la prima fosse intesa «essenzialmente come una grande associazione di Comuni destinata a provvedere alla tutela dei diritti di ciascuno di essi, ed alla gestione degli interessi morali e materiali che hanno collettivamente fra loro» (Relazione riportata da Berti, G., Amministrazione comunale e provinciale, cit., 199, nota 87). Nozione che trovava conferma nella natura dei suoi organi che apparivano contraddistinti da una duplice funzione: organi di governo nei confronti della popolazione e organi della popolazione rispetto al Governo. L’incertezza sulla natura della Provincia si è protratta fino ai lavori dell’Assemblea costituente, nella quale emerse chiaramente come il dibattito sull’autonomia fosse stato condizionato dall’impostazione regionalista e dalla consolidata vocazione municipalista dello Stato italiano, con la conseguenza di non aver superato le ambiguità insite nel livello provinciale. Più esattamente, dagli stessi lavori dell’Assemblea costituente emergevano due possibili modelli istituzionali riferibili alle Province, che oggi appaiono estremamente significativi in relazione alle recentissime modifiche legislative che le hanno trasformate: da una parte, si auspicava l’eliminazione della Provincia intesa quale «ente autarchico territoriale» in favore della possibile costituzione di consorzi tra Comuni; dall’altra parte, invece, si prospettava la configurazione di un ente pubblico di area vasta, costituente un’articolazione territoriale dello Stato e volto principalmente ad esercitare una funzione di controllo governativo uniformante sull’amministrazione comunale. Come è noto, pur prevalendo formalmente l’indirizzo che mirava a considerare la Provincia come ente autonomo, non mancarono incertezze e ripensamenti, imputabili alla volontà di non equiparare integralmente le Province agli altri enti autonomi della Repubblica (ed in particolare ai Comuni), come si evince, ad esempio, dall’articolo 133 Cost., che individua competenza legislativa e vincoli procedimentali differenziati a seconda che si debba procedere all’istituzione di nuove Province o Comuni, o alla modificazione di circoscrizioni provinciali o comunali: mentre infatti il mutamento delle circoscrizioni provinciali e l’istituzione di nuove Province sono riservate a leggi della Repubblica, su iniziativa dei Comuni, sentita la stessa Regione, l’istituzione di nuovi Comuni e la modificazione delle loro circoscrizioni o denominazioni può essere fatta con legge regionale sentite le popolazioni interessate. La competenza legislativa statale, nel caso delle Province, sottolinea il loro essere un’articolazione organizzativa dello Stato, mentre l’obbligo di ascoltare le popolazioni interessate, per i Comuni, recupera il legame con il territorio e le collettività locali, confermando la componente comunitaria dell’amministrazione comunale. Incertezza sulle sorti delle Province sono emerse nuovamente con l’istituzione delle Regioni nel 1970, quando si affacciò nuovamente la prospettiva di sopprimerle; più esattamente, alcune leggi regionali provarono ad introdurre, senza risultati positivi, la figura dei comprensori, quali soggetti di natura associativa che avrebbero dovuto svolgere la duplice funzione di raccordo intercomunale e di strumento per consentire la partecipazione dei Comuni alla programmazione economica delle Regioni (Pototsching, U., Due esperienze di avanguardia in tema di comprensori, in Le Regioni, 1973, 330 ss.). Il fallimento dell’esperienza dei comprensori regionali, unitamente alla longevità delle Province, consente di sottolineare alcune incongruenze del sistema delle autonomie locali italiane – in particolare delle Province – emerse dalla recente ricerca di moduli organizzativi che, al pari dell’idea ispiratrice della costituzione dei comprensori, si prefiggono l’obiettivo di affidare lo svolgimento di funzioni amministrative ad enti per i quali non appare necessaria una specifica e diretta legittimazione democratica; in altri termini, viene in risalto il carattere non necessariamente politico e rappresentativo delle Province. Negli ultimi anni – ma il fenomeno non è recentissimo nella legislazione (si pensi ai consorzi di bonifica e ai bacini idrografici nella l. 18.5.1989, n. 183) – si è cercato di individuare in settori differenti ambiti geografici ottimali per l’espletamento di determinate funzioni, che non sempre possono essere proficuamente affidate agli enti locali. I tratti comuni alla creazione di queste nuove figure organizzative possono essere sintetizzati in un elemento positivo ed in uno negativo: da un lato, l’afferire allo svolgimento di funzioni definibili genericamente di «area vasta», e dall’altro, la difficoltà di rinvenire una perfetta coincidenza territoriale tra lo svolgimento ottimale della funzione in un determinato ambito geografico e l’ente politico titolare della stessa (Regioni, Province, Comuni). Sfasatura territoriale in parte responsabile del successo delle Province quali enti competenti per lo svolgimento di funzioni che eccedono il territorio comunale, ma rispetto alle quali non è richiesta la medesima copertura democratica prevista per quelle svolte a livello comunale (Bin., R., Il nodo delle Province, in Le Regioni, 2012, 899 ss.). In questa prospettiva, che sottolinea a contrario la specificità delle funzioni attribuite al livello comunale, deve essere colto l’attuale processo di riordino delle Province, che solleva una serie di questioni teoriche particolarmente delicate, in parte già risolte dalla sentenza C. cost. 3.7.2013, n. 220.
Con l’art. 23 del d.l. 6.12.2011, n. 201 (conv. con modificazioni nella l. 22.12.2011, n. 214) è stato avviato un percorso legislativo di riforma delle Province ritenuto incostituzionale dalla Consulta, ma del quale appare necessario fissare i passaggi più significativi. La Corte, più che entrare nel merito dei contenuti delle norme impugnate, si è pronunciata prevalentemente sulla legittimità del ricorso allo strumento normativo del decreto legge al fine di effettuare una riforma – che incide sull’ordinamento degli enti locali e sulla loro conformazione territoriale – priva nei necessarî presupposti emergenziali, che soli giustificano il ricorso alla decretazione d’urgenza. A partire dal citato d.l. n. 201/2011 è iniziata la progressiva delineazione delle Province come enti funzionali di area vasta, sia pure in un disegno disciplinare ancora fortemente settoriale. L’art. 23, co. 14, aveva effettuato due modificazioni sostanziali: lo svuotamento delle funzioni tradizionalmente svolte dalle Province, con la previsione del loro contestuale trasferimento ai Comuni, ed il riconoscimento in capo alle stesse delle sole funzioni di indirizzo e coordinamento delle attività dei Comuni. Il decreto, nell’intento di far fronte alle richieste europee di riduzione dei costi della politica ai fini della sostenibilità della finanza pubblica (Lettera firmata da J.C. Trichet e M. Draghi del 5.8.2011 rivolta al Governo italiano; Raccomandazione del monitoring team della BCE del 29.4.2012), interveniva anche sulla composizione degli organi della Provincia, attraverso l’eliminazione della Giunta e la previsione di un numero massimo di consiglieri, non più eletti direttamente ma scelti dagli organi elettivi dei Comuni ricadenti nel territorio della Provincia. Le carenze più macroscopiche ascritte all’art. 23 erano state in parte superate dal più sistematico riordino delle Province disposto dagli artt. 17 e 18 del d.l. 6.7.2012, n. 95 (convertito, con modificazioni, nella l. 7.8.2012, n. 135), le cui norme miravano a dare più completa attuazione alla riforma del Titolo V soprattutto attraverso la complementare e combinata individuazione delle già descritte funzioni fondamentali dei Comuni e delle Province, le quali ultime non risultavano più circoscritte alla programmazione ed al coordinamento. L’art. 17, d.l. n. 95/2012, infatti, aveva ristabilito un nucleo essenziale di funzioni delle Province, mantenendo tuttavia ferma la disciplina dei loro organi, stabilita dall’art. 23, d.l. n. 201/2011. L’articolo 18, invece, aveva previsto la soppressione di alcune Province (Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria) disponendo a partire dal 1.1.2014 la contestuale istituzione delle relative Città metropolitane. Quest’ultima disposizione forniva già risposta positiva all’interrogativo circa il carattere alternativo o meno delle Province e delle Città metropolitane rispetto al dettato dell’articolo 114 Cost. novellato, qualificandole entrambe come enti di area vasta, oltre che di secondo livello, e “reciprocamente alternativi” (Pizzetti, F., La nuova normativa in materia di enti territoriali: una grande riforma, cit., 25; Bin, R., Il nodo delle Province, cit., 904 ss.). La nuova disciplina delle Province complessivamente ricavabile dagli artt. 17 e 18, d.l. n. 95/2012, sia pur presentando alcune distinzioni rispetto ai contenuti dell’art. 23, d.l. n. 201/2011, confermava la concezione della Provincia quale ente di area vasta, della quale viene ulteriormente sottolineato il ruolo di raccordo rispetto ai Comuni facenti parte del suo territorio, con la conseguenza che la Provincia non sarebbe più un ente rappresentativo di comunità ma un ente di secondo grado. Aspetti questi ultimi che si desumono più chiaramente da alcuni elementi inequivoci: l’art. 17 procedeva ad individuare le funzioni delle Province, in modo connesso rispetto all’identificazione delle funzioni fondamentali dei Comuni (art. 19, d.l. n. 95/2012), secondo un’elencazione che, non esaurendosi con quelle di programmazione/coordinamento, riconosceva alle Province alcune funzioni gestorie, capaci di confermarne la natura di enti predisposti al miglior espletamento di funzioni e servizî, che insistono sul territorio dei Comuni che la costituiscono. La circostanza che le Province fossero state sottoposte a riordino secondo criterî demografici e territoriali (già individuati in base alla delibera del Consiglio dei ministri emanata il 20.7.2012 ex art. 17, co. 2, d.l. n. 95/2012) se da una parte evidenziava la volontà del Governo di continuare a cogliere nelle Province un’articolazione organizzativa statale ancora assimilabile alla figura della «Provincia-Stato» (Bin, R., Il nodo delle Province, cit., 907) – in evidente violazione del disposto costituzionale (articolo 133, I comma, Cost.) che pretende un’iniziativa dal basso (dai Comuni) per le modifiche delle circoscrizioni provinciali –, d’altra parte sembrerebbe avallare la tesi, già autorevolmente sostenuta, della non parificazione tra gli enti autonomi che compongono la Repubblica ex art. 114 Cost., tratteggiando un nuovo volto della Provincia che ne sottolinea un legame indiretto con la popolazione ed il territorio, diversamente da quanto accade per gli enti definiti propriamente comunitarî. In questo quadro emergerebbe dal disegno legislativo complessivo l’intento di definire le Province non già come enti rappresentativi delle collettività locali, bensì come enti che avrebbero il compito precipuo di coordinare le funzioni riferibili ai singoli contesti istituzionali comunali (urbanistica, trasporti) e di svolgere alcuni servizî in ambito sovra-comunale (rifiuti, strade, edilizia scolastica); si tratterebbe pertanto di funzioni che le Province svolgerebbero avendo come referenti istituzionali i Comuni compresi nel loro territorio (cfr. Relazione finale della Commissione per le riforme costituzionali, cit., 24). In questo senso appaiono condivisibili le argomentazioni della Corte costituzionale espresse nella sentenza n. 220/2013, che richiama il menzionato art. 133, I comma, Cost. quale disposizione che àncora le modificazioni delle circoscrizioni provinciali ad un procedimento legislativo rinforzato; scelta di modificazione degli assetti territoriali delle Province che non può essere il «portato di decisioni politiche imposte dall’alto», bensì «il frutto di iniziative nascenti dalle popolazioni interessate, tramite i loro più immediati enti esponenziali». Si pongono così le premesse teoriche per l’attuale riforma del sistema delle autonomie locali, che lega le Province ai Comuni, considerando le prime quali enti funzionali e i secondi quali enti esponenziali; interpretazione questa, che si pone altresì in sintonia con la qualificazione delle Province come enti di secondo livello, per i quali sembrerebbe compatibile anche la forma di elezione indiretta dei suoi organi, già prevista dai decreti ritenuti incostituzionali dalla Consulta (art. 23, d.l. n. 201/2011 e art. 17, d.l. n. 95/2012), in conformità alla loro natura di enti non già immediatamente rappresentativi delle collettività locali, bensì degli organi comunali da queste ultime direttamente eletti (Pizzetti, F., La nuova normativa in materia di enti territoriali: una grande riforma, cit., 29 ss.).
L’attesa pronuncia della Corte costituzionale fornisce risposta ai profili di illegittimità costituzionale sollevati dalle Regioni in ordine al processo di riordino delle Province; profili che – come già accennato – hanno spinto la Consulta a concentrarsi non tanto sui contenuti della riforma quanto piuttosto sulla scelta del decreto legge quale strumento normativo adeguato. Quanto al primo aspetto, la Corte rileva una incongruenza logica e giuridica rispetto al dettato costituzionale nell’aver fatto ricorso alla decretazione d’urgenza per introdurre un’innovativa disciplina “ordinamentale” di un ente locale territoriale, la Provincia, la cui esistenza è prevista e garantita dalle norme costituzionali, e la cui riforma risulta ormai annunciata da un dibattito politico e dottrinale radicato nel tempo. L’obiettivo delle norme contestate (art. 23, d.l. n. 201/2011 e artt. 17 e 18, d.l. n. 95/2012) era quello di introdurre una disciplina stabile e duratura attraverso la costruzione di una nuova architettura istituzionale, i cui effettivi esiti di contenimento della spesa pubblica appaiono, peraltro, di non agevole quantificazione. Il decreto legge, per sua natura rivolto a «dare risposte normative rapide a situazioni bisognose di essere regolate in modo adatto a fronteggiare le sopravvenute e urgenti necessità», non risulta compatibile – osserva la Consulta – ad introdurre una riforma che dovrebbe produrre effetti stabili e di lungo periodo. Mancano dunque quelle ragioni dell’urgenza del provvedere che giustificano un dibattito parlamentare costretto nei limiti stabiliti dal secondo e terzo comma dell’art. 77 Cost. (C. cost., 3.7.2013, n. 220). Ulteriore segnale di contraddizione e di utilizzo improprio del decreto legge viene rinvenuto dalla Corte nella sospensione dell’efficacia di alcune delle norme fino al dicembre 2013 effettuata dallo stesso legislatore (art. 1, co. 115, l. n. 228/2012), determinando così l’interrogativo paradossale se «l’urgenza del provvedere […] sia meglio soddisfatta dall’immediata applicazione delle norme dello stesso decreto oppure, al contrario, dal differimento nel tempo della loro efficacia operativa». Il venire meno dell’immediatezza degli effetti, quale tratto saliente e giustificativo dell’utilizzo del decreto legge, fornisce ulteriore conferma dell’inadeguatezza di questo strumento per realizzare una riforma organica e di sistema degli enti locali. La Corte, sia pur non giungendo alla conclusione esplicita della necessità di una norma costituzionale per riformare l’ordinamento degli enti locali – tranne l’ipotesi in cui si intenda procedere alla soppressione di uno degli enti previsti dall’art. 114 Cost. – ribadisce l’inadeguatezza del decreto legge per introdurre «nuovi assetti ordinamentali» dal contenuto non meramente organizzativo. Da ultimo, come già anticipato, la Consulta, nella medesima linea logica, ritiene lo strumento del decreto legge inadeguato a modificare l’ordinamento delle autonomie locali, in quanto in violazione dei vincoli procedimentali rinforzati imposti dalla Costituzione nell’iter legislativo avente ad oggetto il mutamento delle circoscrizioni provinciali o l’istituzione di nuove Province (art. 133, co. 1, Cost.); più in particolare, secondo un percorso argomentativo già impiegato dalla dottrina, i presupposti di necessità e di urgenza sui quali riposa la legittimità del ricorso alla decretazione d’urgenza non appaiono conciliabili con le iniziative dei Comuni ed i pareri delle Regioni, che non si ricollegano a situazioni contraddistinte dall’urgenza del provvedere, ma costituiscono la registrazione di bisogni ed interessi emersi nel tempo dal tessuto sociale delle realtà locali.
Con l’emanazione della l. 7.4.2014, n. 56 trova conferma il contenuto sostanziale dei decreti ritenuti costituzionalmente illegittimi; la normativa costituisce, infatti, il tentativo di anticipare a livello di legislazione ordinaria – secondo una possibilità non esclusa dalla sentenza della Corte costituzionale – una sistematica riforma dell’ordinamento degli enti locali e quindi i probabili esiti della futura, ed annunciata, riforma della carta fondamentale. L’intervento legislativo si caratterizza per la provvisorietà della disciplina, pervasa di contenuti transitori, sia rispetto alla riallocazione delle funzioni tra i nuovi enti di area vasta (Province e Città metropolitane), sia rispetto ai tempi e ai meccanismi procedurali che dovranno scandire l’attuazione della riforma. Per quanto riguarda direttamente le Province, queste ultime resterebbero temporaneamente come enti di area vasta, titolari prevalentemente di funzioni di coordinamento e di indirizzo essenziale (pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, tutela e valorizzazione dell’ambiente, pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, programmazione provinciale della rete scolastica), e più limitatamente di compiti gestionali (gestione dell’edilizia scolastica, esercizio – d’intesa con i Comuni – delle funzioni di predisposizione dei documenti di gara, di stazione appaltante, di monitoraggio dei contratti di servizio) a differenza di quanto veniva disposto dall’art. 17, d.l. n. 95/2012. La legge parifica Stato e Regioni per quanto concerne la definizione delle forme e delle modalità di riordino delle funzioni gestorie prima svolte dalle Province, con eventuale loro trasferimento ai Comuni, qualora siano venute meno le esigenze del loro svolgimento unitario, o con l’assunzione da parte delle Regioni, allorché tali esigenze persistano. Viene prevista una diversificata competenza statale o regionale circa la determinazione della data a partire dalla quale le funzioni prima svolte dalle Province, e poi trasferite, potranno essere esercitate dall’ente subentrante; tale data è determinata con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri – che tra l’altro è competente, su proposta del Ministro dell’interno e del Ministro per gli affari regionali di concerto con i Ministri per la semplificazione e la pubblica amministrazione e dell’economia e delle finanze, a stabilire, previa intesa in sede di Conferenza unificata, i criteri generali per l’individuazione dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative connesse all’esercizio delle funzioni che devono essere trasferite – per le funzioni di competenza statale ovvero è stabilita dalla regione per le funzioni di competenza regionale. Ne deriva una profonda trasformazione della natura delle Province (che da un lato accentua la loro funzione di mero raccordo rispetto ai compiti affidati ai singoli Comuni ed alle Unioni di Comuni, e dall’altro sottolinea la loro carenza di rappresentatività diretta della collettività locale), che rivela l’intendimento di eliminarle, con successiva legge costituzionale, dal novero degli enti territoriali necessarî di cui all’art. 114 Cost. Profilo quest’ultimo oggetto di approfondimento critico da parte della dottrina, che si è interrogata circa l’esistenza di possibili enti territoriali originari che la Costituzione si limiterebbe a riconoscere, e che pertanto non potrebbero essere eliminati dall’elenco dell’articolo 114 Cost., neppure attraverso una riforma costituzionale (Staiano S., Le autonomie locali in tempi di recessione:emergenza e lacerazione del sistema, in www.federalismi.it; Padula C., Quale futuro per le Province ? Riflessioni sui vincoli costituzionali in materia di Province, in Le Regioni, 2013, 361 ss.). Fortemente dibattuta risulta la questione riguardante l’elezione indiretta degli organi della nuova Provincia, oggetto di opinioni antitetiche da parte della dottrina, divisa tra chi avrebbe preferito continuare a qualificare la Provincia quale ente territoriale rappresentativo (i cui organi debbano essere direttamente nominati), e chi, invece, forse in modo più condivisibile, ritiene l’investitura indiretta in linea con i compiti e le funzioni tradizionalmente svolte dalle Province, oltre che non incompatibile con il principio democratico (Bassanini, F., Sulla riforma delle istituzioni locali e sulla legittimità costituzionale della elezione in secondo grado degli organi delle nuove Province, in Astrid Rassegna, 2013, n. 19, 4; Caretti, P., Sui rilievi di incostituzionalità dell’introduzione di meccanismi di elezione indiretta negli organi di governo locale, in Astrid Rassegna, 2013, n. 19, 2, 3).
Nella storia della mancata attuazione delle norme costituzionali un ruolo significativo è giocato dalla questione dell’istituzione delle Città metropolitane. All’affermazione indiscussa di una regolamentazione internazionale, o globale, dei sistemi economici si contrappone il radicamento dell’attività economica e finanziaria a livello delle grandi città, fenomeno che ha spinto la dottrina più sensibile non solo a rievocare la necessità di una disciplina del mercato in ambito locale, ma anche ad intravedere un “diritto alla città” non ancora esplicitamente codificato, quale somma di una serie di prestazioni (qualità dei servizi pubblici, livelli adeguati di urbanizzazione, salubrità dell’ambiente urbano) che dovrebbero essere garantite agli abitanti delle città (Auby, J.B., Droit de la Ville, Du fonctionnement juridique des villes au droit à la Ville, Paris, 2013, 276 ss.). Sotto l’influenza di altri Stati europei nei quali già esisteva da tempo una disciplina differenziata ed evoluta delle città – caratterizzate da specifiche esigenze di coordinamento dei servizî e dei trasporti, di pianificazione ed uso del territorio – anche il nostro legislatore nazionale aveva previsto con la l. n. 142/1990 la figura delle aree metropolitane: queste ultime, disciplinate all’art. 19, venivano individuate in alcuni Comuni di maggiori dimensioni (Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli), unitamente ad altri Comuni i cui insediamenti presentassero con i primi rapporti di stretta integrazione in ordine alle attività economiche, ai servizî essenziali alla vita sociale, nonché alle relazioni culturali ed alle caratteristiche territoriali. L’insuccesso delle aree metropolitane sembrerebbe imputabile ai contenuti della disciplina di cui al citato art. 19 della l. n. 142/1990, che affidava alle Regioni, sentiti i Comuni e le Province interessate, il compito di procedere alla delimitazione territoriale di ciascuna area metropolitana. Alla mancata effettiva istituzione delle città metropolitane fa da pendant la loro costante menzione, sia nei successivi interventi legislativi (si v. gli artt. 22 e 23, t.u.e.l., ovvero la normativa in materia di federalismo fiscale) che nel testo costituzionale novellato del 2001: l’art. 114 Cost., aggiunge all’elenco degli enti territoriali che costituiscono la Repubblica anche le Città metropolitane. Tuttavia, le potenzialità prescrittive insite nella previsione costituzionale sono rimaste a tutt’oggi lettera morta (Pizzetti, F., La nuova normativa in materia di enti territoriali: una grande riforma, cit., 34 ss.). Una prima disciplina più puntuale delle Città metropolitane era stata introdotta dall’art. 18 d.l. n. 95/2012, poi dichiarato anch’esso incostituzionale dalla citata sentenza della C. cost. n. 220/2013, alla quale si rinvia per i medesimi profili di illegittimità già esaminati per le Province in relazione all’art. 17 del medesimo decreto legge. Il merito della riforma risiedeva essenzialmente nell’aver previsto una più stringente disciplina, secondo modalità che affidavano non più alla Regione bensì alla legge dello Stato l’identificazione territoriale delle Province e delle Città metropolitane; in base allo stesso articolo 18 doveva essere la legge stessa a prevedere il “trapasso” dalla Provincia alla Città metropolitana. Veniva così ad instaurarsi una correlazione necessaria tra trasformazione/eliminazione delle Province e assunzione delle nuove funzioni di governo dell’area metropolitana da parte delle Città metropolitane, qualificate anch’esse come enti di secondo livello, con funzioni di coordinamento delle attività economiche, sociali e produttive svolte dai Comuni che ne fanno parte, ma anche con delicate funzioni gestorie (Pizzetti, F., La nuova normativa in materia di enti territoriali: una grande riforma, cit., 40 ss.). Nella medesima direzione dell’art. 18, d.l. n. 95/2012 si colloca la disciplina contenuta nella l. n. 56/2014 che, tuttavia, avrebbe l’ambizione di regolare in modo più esplicito alcuni profili disciplinari funzionali ad agevolare la prossima riforma costituzionale del titolo V. Alla conferma della qualificazione delle Città metropolitane (Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli, Reggio Calabria) come enti territoriali di area vasta segue una più incisiva precisazione delle loro funzioni, in un’ottica di più chiara distinzione rispetto a quelle che resterebbero in capo alle nuove Province. La Città metropolitana si caratterizza dunque come ente di governo metropolitano, che non si limita, a differenza delle Province, a svolgere funzioni di prevalente coordinamento, ma del quale vengono potenziate le funzioni di cura dello sviluppo strategico del territorio metropolitano, con il riconoscimento di compiti di promozione e gestione integrata dei servizî, delle infrastrutture e delle reti di comunicazione; alla Città metropolitana viene inoltre attribuita la cura delle relazioni istituzionali afferenti al proprio livello, con l’obiettivo di inserirla nella rete delle aree metropolitane europee. Non sono mancati, tuttavia, rilievi critici soprattutto in ordine ai criteri di individuazione del territorio della Città metropolitana, che – già secondo la disciplina dell’art. 17 del decreto legge n. 95/2012, così come nel testo della legge n. 56 del 2014 – si fondano sulla automatica coincidenza con il territorio della Provincia omonima. Coincidenza che tuttavia non sembrerebbe del tutto rispettosa dell’esigenza – evidenziata anche in studi accurati sulle caratteristiche della conurbazione sul territorio nazionale (cfr. Studio dell’Istituto Censis del novembre 2013; Castelnovi, M., a cura di, Il riordino territoriale dello Stato, riflessioni e proposte della geografia italiana, Roma, 2013) – di determinare il territorio della Città metropolitana non già secondo aprioristici automatismi, bensì in applicazione di canoni fondati sull’oggettiva identificabilità di realtà socio-economico-culturali omogenee. La questione della coincidenza, anche quale risposta ai profili di maggiore perplessità evidenziati dalla sentenza della C. cost. n. 220/2013 in ordine alla perimetrazione dall’alto delle nuove geometrie istituzionali, viene in parte risolta dalla possibilità riconosciuta ai comuni, compresi i comuni capoluoghi delle province limitrofe, ai sensi dell’articolo 133, I comma, Cost., di prendere iniziativa per la modifica delle circoscrizioni provinciali limitrofe e per l’adesione alla città metropolitana. Proposta di modifica subordinata al parere positivo della Regione interessata e a un procedimento di intesa, promosso dal Governo, tra i comuni interessati e la Regione, nelle ipotesi in cui quest’ultima abbia espresso parere contrario (art. 1, co. 6, l. n. 56/2014).
Aspetto quest’ultimo che risulterebbe più rispettoso del legame tra popolazione e territorio, nonché dello spirito della riforma, in linea con il sistema francese delle autonomie locali fondato su di una rete istituzionale intercomunale (Auby, J.B.-Auby, J.F.-Rozen, N., Droit des collectivités locales, Paris, 2009, 174 ss.). Incertezze residuano anche relativamente alle modalità di elezione degli organi della Città metropolitana, che, ferme restando le competenze della legge statale in materia elettorale, risultano espressione del carattere anfibio del prototipo: da un lato, infatti, la fisionomia associativa (dei comuni dell’area urbana) risulterebbe maggiormente coerente con l’elezione indiretta degli organi, mentre dall’altro alla funzione di organo di governo autonomo sarebbe più confacente l’elezione a suffragio universale del sindaco e del consiglio metropolitano (che possono essere previste dallo Statuto a condizione di aver previamente articolato il comune capoluogo in più Comuni distinti). Ragioni di incertezza che deriverebbero anche dallo scarto tra le fattezze giuridiche che le Città metropolitane dovrebbero assumere in sintonia con il quadro europeo e la configurazione che sembrerebbe loro derivare dall’attuale disciplina legislativa (e dalla futura riforma costituzionale), non sempre compatibile con i tratti distintivi di un ente politico.
La l. n. 56/2014 individua nel 1.1.2015 la data nella quale le città metropolitane subentreranno alle province omonime, succedendo ad esse in tutti i rapporti attivi e passivi, e ne eserciteranno le funzioni; alla predetta data il sindaco del comune capoluogo assumerà le funzioni di sindaco metropolitano e la città metropolitana opererà con proprio statuto e propri organi, così iniziando ad esercitare le sue nuove funzioni. La legge, infine, cerca di definire in modo graduale il subentro delle Città metropolitane alle Province, attraverso una serie di passaggi temporalmente scanditi: il presidente e la giunta provinciale, in carica alla data di entrata in vigore della legge, restano in carica a titolo gratuito fino al 31.12.2014 per l’ordinaria amministrazione (nei limiti di quanto disposto per la gestione provvisoria degli enti locali dall’art. 163, co. 2, t.u.e.l.) e per gli atti urgenti e improrogabili; il presidente assume fino a tale data anche le funzioni del consiglio provinciale; ove all’entrata in vigore della legge la provincia sia commissariata, il commissariamento è prorogato fino al 31.12.2014; entro il 30.9.2014 si svolgono le elezioni del consiglio metropolitano, indette dal sindaco del comune capoluogo, e si insediano il consiglio metropolitano e la conferenza metropolitana; entro il 31.12.2014 il consiglio metropolitano approva lo statuto.
Il quadro legislativo relativo alla riforma degli enti locali, con l’emanazione della l. n. 56/2014, appare giunto ad una sistemazione più compiuta. Ancora incerta appare la sorte del disegno di legge costituzionale volto, tra gli altri obiettivi, ad eliminare definitivamente le Province dall’elenco degli enti costitutivi della Repubblica italiana. Diversamente dal progetto presentato dal precedente Governo Letta il disegno di legge di revisione costituzionale presentato dal nuovo Esecutivo avrebbe ad oggetto contestualmente il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la riforma del Titolo V della Costituzione. Mentre le Province verrebbero eliminate nella prospettiva di semplificare e rendere più ordinato il sistema di governo multilivello, diversa risulterebbe invece la sorte della Città metropolitana, alla quale nella Costituzione modificata spetterebbe non solo la funzione di coordinamento dei Comuni che ne fanno parte, ma anche il difficile compito di promuovere il rilancio dello sviluppo economico urbano; ruolo quest’ultimo rispetto al quale risulta evidente la parziale inadeguatezza della sua configurazione quale ente di area vasta, politicamente più debole rispetto ad un ente territoriale direttamente rappresentativo. Il disegno di revisione costituzionale prevedrebbe, inoltre, la sottoposizione degli enti di area vasta ad un più penetrante indirizzo statale, in quanto la definizione delle loro funzioni e delle modalità del loro finanziamento sarebbe oggetto di una competenza legislativa statale più invasiva rispetto a quella oggi prevista dall’art. 117, co. 2, lett. p), Cost.
Nonostante la precarietà del quadro costituzionale, allo stato attuale sembra possibile fermare alcune brevi considerazioni, che mirano a cogliere il senso e la direzione che, in una prospettiva diacronica, sembrerebbe accomunare i tentativi di riforma del sistema degli enti locali (Pizzetti F., La riforma Delrio tra superabili problemi di costituzionalità e concreti obiettivi di modernizzazione e flessibilizzazione del sistema degli enti territoriali, in Forum Astrid, Riforma delle Province, 11.11.2013). Da un lato, emerge con evidenza l’obiettivo di ridisegnare gli enti locali secondo il principio costituzionale della differenziazione; dall’altro, si ricava l’intendimento di ridimensionare gli enti ritenuti espressione diretta delle collettività locali, facendoli coincidere sostanzialmente con i Comuni, quali manifestazione dell’amministrazione di prossimità; profili tra loro non disgiungibili, in quanto è nel medesimo articolo 118 Cost. che si ritrova la proclamazione della primazia dei Comuni nello svolgimento della funzione amministrativa e l’affermazione del principio di differenziazione quale canone ulteriore per rendere effettivo il principio di sussidiarietà.
Alla definizione legislativa delle funzioni fondamentali dei Comuni segue una disciplina puntuale delle forme associative che costituiscono una conferma dell’esigenza costituzionale di diversificare le modalità di esercizio delle funzioni in considerazione delle specifiche dimensioni demografiche, territoriali, sociali. Il processo di riordino delle Province, temporaneamente volto alla loro riconfigurazione quali enti di area vasta, appare anch’esso dettato dall’opportunità di creare un ente che riesca meglio a coordinare e programmare le diversità delle singole realtà comunali; in particolare, ponendo l’accento sulla capacità affidata alla Provincia di svolgere un’attività di raccordo rispetto agli ambiti funzionali riservati ai Comuni, secondo fattezze geografiche proporzionate anche rispetto ai contesti delle differenti situazioni regionali e concretamente determinate secondo procedimenti rispettosi di quelle previsioni costituzionali che conferiscono ai Comuni, ed alle sue popolazioni, un rilievo specifico nella configurazione del territorio (comunale e provinciale). In tale prospettiva, la Provincia non sarebbe più una creazione artificiale, frutto di un astratto e matematico disegno organizzativo di impronta statale, bensì diverrebbe una «unità amministrativa strumentale rispetto a più ordinamenti» (Berti G., Amministrazione comunale e provinciale, cit., 199; Benvenuti, F., La Provincia nell’ordinamento costituzionale, cit., 175). L’evocata maturazione della distinzione tra Stato-ordinamento e Stato-persona quale approdo cruciale per la definizione dell’autonomia locale costituirebbe, nuovamente, la soluzione interpretativa per ovviare alle critiche ciclicamente rivolte al carattere non naturale delle Province. La Provincia non darebbe vita ad un ordinamento diverso dai singoli Comuni che la compongono, ma – secondo un modello teorico già autorevolmente prospettato, quale è quello del consorzio (volontario, obbligatorio, o costituito per legge) – avrebbe lo scopo specifico di svolgere attività riferibili ai diversi ordinamenti comunali (Berti, G., Amministrazione e comunale, cit., 200 ss.; Benvenuti, F., La provincia nell’ordinamento costituzionale, in Benvenuti, F., Amministrazione pubblica. Autonomie locali, a cura di E. Rotelli, Milano, 2010, 173 ss.; Miele, G., Il nuovo ordinamento costituzionale in Sicilia, in Riv. trim. dir. pubbl., 1956, 278 ss). La natura, dunque, di ente di secondo livello costituirebbe un elemento in linea con l’elezione indiretta dei suoi organi, non ammissibile, invece, per gli enti direttamente rappresentativi (C. cost. n. 96/1968). In questo modo, la Provincia non sarebbe più una variante predefinita a livello statale ed espressione di decentramento organizzativo, bensì una conseguenza delle esigenze di coordinamento nascenti dai livelli comunali; apparirebbe, pertanto, auspicabile anche una parallela riforma dell’amministrazione periferica dello Stato. Diverso scenario si prospetterebbe all’esito dell’eventuale e successivo progetto costituzionale di eliminazione delle Province e di ridistribuzione delle relative funzioni.
La medesima prospettiva di differenziazione si estende alle Città metropolitane. Le specifiche discipline che le prevedono, al di là dei loro contenuti puntuali, appaiono l’attuazione dell’esigenza – già autorevolmente avvertita – di separare i comuni urbani da quelli rurali con il riconoscimento in capo ai primi di più intensi poteri normativi (statutari e regolamentari), oltreché amministrativi. La disciplina specifica della Città metropolitana, anche sulla scia di raffinati insegnamenti d’oltralpe, appare dunque costituire un’applicazione ulteriore del principio di differenziazione, contribuendo così a suggellare l’abbandono del geometrico uniformismo dei modelli di conio napoleonico, in vista di un più articolato sistema territoriale a rete di tipo comune-centrico. Troverebbe così consacrazione quel disegno ascendente già pensato dal legislatore costituzionale del 2001, in attuazione della forza prescrittiva inscritta nell’art. 5 Cost., che vede nel Comune la cellula elementare dell’organizzazione territoriale, espressione piena di democrazia locale, secondo una tradizione storica e politica perfettamente coerente con la vocazione municipalista del nostro Paese.
L. 20.3.1865, n. 2248 (allegato A); l. 8.6.1990, n. 142; d.lgs.18.8.2000, n. 267; d.l. 31.5.2010, n. 78 convertito con modificazioni nella l. 30.7.2010, n. 122; d.l. 3.8.2011, n. 138 convertito con modificazioni nella l. 14.9.2011, n. 148; d.l. 6.12.2011, n. 201 convertito con modificazioni nella l. 22.12.2011, n. 214; d.l. 6.7.2012, n. 95 convertito con modificazioni nella l. 7.8.2012, n. 135; l. 7.4.2014, n. 56; Carta europea delle autonomie locali (firmata a Strasburgo il 15.10.1985 e ratificata in Italia con l. 30.12.1989, n. 439).
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