BEARZOT, Enzo
Nacque a Joannis, frazione di Ajello del Friuli (Gorizia), il 26 settembre 1927, da Egidio, funzionario e poi direttore di banca a Cervignano, ed Elvira, casalinga.
Secondogenito, preceduto dalla sorella Elma, di tre anni più grande, dopo le scuole elementari ad Ajello, frequentò e superò il ginnasio al collegio salesiano San Luigi di Gorizia e quindi con profitto, nello stesso istituto, anche il liceo classico senza tuttavia conseguire la maturità perché, come lui stesso raccontò più volte, ai tumulti bellici e post-bellici che flagellarono quelle terre, si sommarono i primi successi calcistici che presero poco alla volta il sopravvento.
La passione per il calcio e poi gli inizi di carriera furono, come spesso accadeva a quei tempi, ostacolati dalla famiglia. Il padre Egidio, in particolare, sognava di farne un medico e non approvò mai la scelta del figlio di dedicarsi allo sport trascurando gli studi. Paradossalmente, fu un torneo studentesco in cui Bearzot difendeva i colori del liceo a deciderne la sorte. Un osservatore del Pro Gorizia, allora militante in serie B, lo ingaggiò per una partita amichevole a Verona ponendolo poi sotto contratto. Agli esordi nella squadra locale dell’Aiello seguirono così due stagioni in serie B a Gorizia, nel 1946-47 e 1947-48, con il contemporaneo quanto vano tentativo di proseguire anche negli studi. Si arrese definitivamente nell’estate del ’48 allorché il Pro Gorizia lo cedette all’Inter, sua squadra del cuore fin dall’infanzia.
Nel suo primo settembre milanese, uscito dal pensionato di via Amedei dove condivideva una camera con il compagno di squadra Benito Lorenzi, alla fermata di corso Italia del tram numero 3 conobbe una bella ragazza diciassettenne, Luisa Crippa, segretaria di studio di un celebre avvocato con cui, nell’estate del 1951, si unì in matrimonio nella chiesa di San Calimero a Porta Romana.
Bearzot esordì in maglia nerazzurra il 21 novembre 1948, Inter-Livorno 3-1, con la maglia numero 5. Peccato che quella maglia fosse stata indossata a rovescio, con il numero 5 sul petto anziché sulla schiena: tale era l’emozione del debuttante nel vestire la divisa di Aldo Campatelli, suo idolo di gioventù che quel giorno aveva dovuto sostituire perché infortunato. Nelle tre stagioni interiste Bearzot non ebbe molte occasioni di mettersi in luce. La squadra si piazzò due volte al secondo posto e una al terzo, ma il giovane friulano non totalizzò che 19 presenze complessive, prima da difensore centrale (compresa una a Novara in marcatura sulla leggenda Silvio Piola) poi da mediano. Da qui, nell’estate del ’51, la decisione della società milanese di cederlo al Catania, in serie B. Per Bearzot una delusione cocente, che lo portò a un passo dalla conclusione anticipata della carriera: e si rivelò invece una svolta, se è vero che le tre stagioni catanesi culminarono nella primavera del ’54 nella prima, storica promozione della società etnea in serie A. Nel corso di quei tre anni Bearzot indossò la maglia rossoazzurra in 95 partite: segnò anche 4 gol, i primi della sua carriera professionistica. Nell’estate del 1954, conclusi i lunghi festeggiamenti per la promozione, passò al Torino dove si affermò come punto di forza del centrocampo nel ruolo di laterale destro. Giocò due stagioni da titolare, con Annibale Frossi allenatore che lo volle, anzi lo pretese con sé quando, nell’estate 1956, assunse la guida tecnica dell’Inter. Per Bearzot una grande rivincita, 27 presenze con la maglia numero 4 che aveva nel frattempo indossato anche nella sua unica partita disputata in Nazionale, a Budapest, 0-2 con la grande Ungheria capitanata da Ferenc Puskás. Ma a fine campionato chiese e ottenne dalla società nerazzurra di poter tornare al Torino che era diventata ormai la sua seconda pelle. Indossando la fascia di capitano, in maglia granata disputò altri 7 campionati, compreso quello di serie B della stagione 1959-60. E se fu l’avventura da commissario tecnico a consegnarlo alla storia del calcio italiano e mondiale, la lunga militanza in maglia granata rimase nel bilancio dei suoi ultimi anni il ricordo cui più era affezionato. Si ritirò nell’estate del 1964, a quasi 37 anni di età, dopo aver disputato complessivamente 422 partite, 251 in serie A e 171 in serie B. Oltre a 4 presenze in maglia azzurra, quella ricordata di Budapest nella Nazionale maggiore e altre 3 in Nazionale B, contro Turchia, Egitto e Francia. Proprio contro l’Egitto al Cairo, il 16 dicembre 1955, segnò il suo unico gol in Nazionale.
Già nella sua ultima stagione agonistica, 1963-64, Bearzot cominciò a muovere i primi passi da allenatore. A causa di una lunga serie di infortuni giocò infatti soltanto due partite: e da capitano non giocatore si mise a disposizione del responsabile tecnico, che era, nientemeno, Nereo Rocco. Il Paròn, triestino doc che gli uomini li pesava al primo sguardo, capì di potersi fidare di quel friulano onesto e testardo. E sinché rimase alla guida del Torino, estate 1967, affiancò al suo storico vice Marino Bergamasco l’ex-capitano Bearzot. Fu in quelle tre stagioni che il futuro commissario tecnico campione del mondo prima capì e poi affinò la cultura dell’ambiente e del gruppo che rappresentava per Rocco il primo dei valori fondanti di una squadra: e che divenne il cavallo di battaglia di Bearzot nei momenti più difficili della sua lunga avventura azzurra.
Proprio l’essere cresciuto alla scuola di Rocco fu per il presidente federale Artemio Franchi, di gran lunga il miglior dirigente della storia del calcio italiano, il parametro che gli suggerì l’assunzione di Bearzot nei ranghi federali. Prima ne testò per qualche mese le capacità, tecniche e umane, in una società di provincia, il Prato. Poi, ottenute le risposte che cercava, gli affidò la responsabilità dell’Under 23, che era allora più di oggi (con un limite d'età da tempo fissato a 21 anni) il serbatoio della Nazionale maggiore. L’incarico prevedeva anche una diretta partecipazione e collaborazione al lavoro del commissario tecnico che era all’epoca Ferruccio Valcareggi: in particolare in occasione dei grandi appuntamenti, campionati del mondo e campionato d’Europa. Bearzot crebbe dunque all’ombra di Valcareggi prendendo parte attivamente al Mondiale messicano del 1970, alle qualificazioni per gli Europei del ’72 e infine al Mondiale tedesco del ’74. Sia come assistente e co-preparatore sul campo, sia come osservatore dei futuri avversari dell’Italia.
Dopo il fallimento azzurro a Monaco ’74, Valcareggi fu costretto a cedere la panchina azzurra a un altro grande vecchio del calcio italiano, Fulvio Bernardini, con Bearzot vice-allenatore. Dopo meno di un anno, il 26 giugno 1975 Bernardini venne nominato direttore generale delle squadre nazionali e Bearzot allenatore. In realtà, sin da Italia-Finlandia 0-0 all’Olimpico di Roma il 27 settembre del '75, la guida tecnica era interamente affidata a Bearzot mentre quello di Bernardini era un ruolo di garante-supervisore: ma formalmente la strana coppia sopravvisse per ben due stagioni, sino al giugno del 1977 quando, a qualficazione per i mondiali d’Argentina 1978 raggiunta, Enzo Bearzot fu finalmente nominato commissario tecnico.
In quel lungo interregno, in quella fase di – teorica – cogestione, Bearzot impresse la svolta che sarebbe culminata poi nella vittoria di Madrid del 1982. Mentre Fulvio Bernardini, per rifondare la Nazionale, era partito infatti dalla ricerca dei “piedi buoni”, dunque dalla tecnica innanzitutto, Bearzot puntò decisamente sulla grande lezione che in quegli anni la grande Olanda di Rinus Michels e del fenomeno Johan Cruijff stava impartendo al resto del mondo. Dunque l’eclettismo come primo parametro di valutazione: la capacità, cioè, di saper interpretare possibilmente più ruoli, ma in ogni caso funzioni diverse nell’ambito di una stessa partita. Caratteristiche che erano sempre appartenute, entro certi limiti, ai centrocampisti. Ma che con l’avvento dell’Ajax prima, e della Nazionale olandese poi, si erano estese ai difensori, che dovevano saper anche attaccare, e agli attaccanti che dovevano saper difendere o quantomeno coprire le avanzate dei difensori. L’Olanda applicava questo nuovo tipo di calcio in maniera più aggressiva e totale, grazie al modulo a zona, a un pressing ininterrotto, alla tattica del fuorigioco sistematico. Bearzot, come altri tecnici, si accontentò di adottarne i principi base, puntando soprattutto sulla versatilità dei giocatori da selezionare: ma bastò quella svolta tutto sommato moderata per dare alla Nazionale italiana un’impronta più moderna, senza stravolgere tradizioni e caratteristiche che facevano parte del dna individuale e collettivo del calcio di casa nostra. La miglior riprova arrivò dalla vittoria nel girone di qualificazione al Mondiale argentino che comprendeva anche l’Inghilterra, allora potenza calcistica di sicuro spessore. Gli inglesi infatti furono eliminati non nel doppio confronto diretto che persero a Roma e vinsero a Wembley con identico punteggio: ma per la differenza reti nelle altre partite del girone, con Finlandia e Lussemburgo, in cui grazie anche alla freschezza del nuovo modulo gli attaccanti azzurri furono assai più prolifici dei britannici. Curioso comunque che a distanza di oltre due anni dal debutto sulla panchina azzurra gli annuari registrino come prima partita da responsabile unico quella persa in amichevole a Berlino dalla Germania ovest nell’ottobre del ’77. Subito dopo, in quell’autunno, l’Italia fu sconfitta 0-2 a Londra ma si qualificò ugualmente ai Mondiali dell’anno successivo in Argentina battendo in casa la Finlandia con cinque reti di scarto e il Lussemburgo con tre.
Del Mondiale argentino rimane, a distanza di tanti anni, il ricordo di un’Italia fresca e brillante, a tratti anche spettacolare, che si spense però strada facendo. L’esatto contrario di quello spagnolo, quattro anni più tardi, in cui a un avvio stentato, e in certe fasi penoso, fece riscontro la grande cavalcata finale culminata nel trionfo sulla Germania al Bernabéu. E sì che l’esordio a Mar del Plata, venerdì 2 giugno 1978, fu davvero raggelante. La Francia batté il calcio d’inizio e andò in gol dopo meno di un minuto grazie a un’azione sviluppatasi in velocità sulla sinistra, proprio davanti alla nostra panchina. Bearzot schiacciò sotto il tallone la prima di tante sigarette poiché la pipa era di là da venire, e si alzò ad applaudire il gol di Lacombe: di là dal fair-play, quel gesto probabilmente contribuì ad attutire lo choc dei suoi giocatori. Fatto sta che prima Rossi e poi Zaccarelli ribaltarono il risultato, e nella successiva partita con l’Ungheria il 3-1 firmato da Rossi, Bettega e Benetti sancì il passaggio al turno successivo. Mancava però la partita con gli argentini padroni di casa, che metteva in palio oltre al prestigio anche la supremazia nel girone. Gli azzurri la vinsero per 1-0 con un magnifico gol di Bettega, giocandola con tutti i titolari nonostante alla vigilia si fosse parlato di un ampio turn-over.
Spiegò poi Bearzot che sin dal momento del sorteggio lui e il suo collega César Luis Menotti si erano accordati, in caso di qualificazione già ottenuta, per una sfida alla pari: o i titolari da ambo le parti, oppure le riserve per gli uni e per gli altri. Saputo che Menotti, padrone di casa, aveva optato per la squadra-tipo, Bearzot semplicemente si adeguò: ma è vero che con uno sforzo in meno nelle gambe, il calo con Olanda e Brasile nella parte finale del torneo sarebbe stato come minimo meno vistoso. L’Italia comunque proseguì pareggiando con la Germania dopo aver colpito tre pali, batté a fatica l’Austria con un gol del solito Paolo Rossi, andò ancora in vantaggio nel primo tempo della semifinale con l’Olanda grazie a un’autorete, ma si arrese nella ripresa ai gol di Brandts e Haan e, tre giorni più tardi, a quelli di Nelinho e Dirceu, dopo il vantaggio iniziale di Franco Causio, nella finale per il terzo posto con il Brasile. Curiosamente, anzi incredibilmente, quei quattro amarissimi gol furono tutti ottenuti con tiri da lontano in cui alla prodezza balistica si sommava la responsabilità del portiere. In quei giorni la carriera azzurra di Dino Zoff, che aveva 36 anni, parve davvero al capolinea. Ovviamente non per Bearzot che gli ridiede maglia e fascia di capitano sin dalla prima amichevole settembrina con la Bulgaria: e lo confermò come portiere titolare, capitano, e primo scudiero per altre sei stagioni.
Fu comunque un buon Mondiale che lasciò più di un rimpianto. Non altrettanto il successivo Campionato europeo disputato in Italia nel giugno 1980 cui gli azzurri si presentarono da favoriti. Ma il clima era stato nel frattempo guastato dallo scandalo scommesse che, oltre a privare Bearzot di attaccanti del calibro di Rossi e Bruno Giordano, prima processati e poi squalificati, aveva avvelenato i rapporti tra il club-Italia e la stampa, con forti ripercussioni sull’opinione pubblica. Bearzot, come sempre, difendeva a spada tratta i suoi giocatori: e i suoi incontri con la stampa specializzata divenivano via via più infuocati. Si arrivò in più di una circostanza a sfiorare lo scontro fisico: che tecnicamente ci fu, sia pur in misura più blanda di come fu raccontato, quando Bearzot tornando dall’allenamento in un ritiro romano reagì alla folla urlante e in particolare a una tifosa che invocava la convocazione dell’interista Beccalossi lasciandole andare un buffetto non proprio affettuoso. Con i nervi a fior di pelle l’Italia pareggiò al debutto milanese con la Spagna, batté l’Inghilterra a Torino con un gol di Tardelli, tornò a pareggiare a Roma con il Belgio e si dovette rassegnare alla finale per il terzo posto che perse ai rigori con la Cecoslovacchia. Con tutte le attenuanti del caso, un esito abbastanza inglorioso.
I due anni successivi furono semplicemente infernali. Bearzot riuscì a pilotare gli azzurri alla qualficazione mondiale, in un girone che comprendeva Jugoslavia, Danimarca, Grecia e Lussemburgo. Ma il livello di scontro si alzò ancora e non di poco. Nei confronti del commissario tecnico una parte significativa della stampa cosiddetta specializzata, in particolare la romana, scelse la strada dell’insulto. E le cose peggiorarono ulteriormente quando Rai 3 varò Il Processo del lunedì che adottò, fin dai suoi esordi, la politica dell’avvelenamento dei pozzi. All’indomani di puntate dedicate alla Nazionale, sui muri e i marciapiedi di via Washington a Milano, dove allora Bearzot abitava, comparivano puntualmente scritte minacciose: e di insulti e minacce era piena la segreteria telefonica dietro cui il commissario tecnico cercava di proteggersi, cambiando oltretutto numero ogni mese. Il linciaggio, ovviamente documentabile dalle collezioni dei giornali e, più tardi, dalle registrazioni televisive, andò avanti in crescendo rossiniano dalla primavera dell’80 al 29 giugno ’82, giorno di Italia-Argentina 2-1 al Mondiale spagnolo. Lì rallentò sino alla vigilia di Italia-Brasile, sei giorni più tardi, per poi trasformarsi già prima della finale di Madrid nel più gigantesco e insieme patetico salto sul carro del vincitore della storia dello sport italiano.
Quel mondiale si aprì con tre consecutivi pareggi nel girone eliminatorio di Vigo, contro Polonia, Perù e Camerun. Ma già nei giorni precedenti la sede del ritiro di Pontevedra, uno storico Parador chiamato La Casa del Barón, era sede di quotidiane battaglie tra giocatori e cronisti: cui nella saletta con camino che ospitava gli incontri con Bearzot assistevano sempre più sbalorditi i padri nobili della spedizione mediatica al Mondiale, Giovanni Arpino, Gianni Brera, Oreste del Buono, Mario Soldati. Sino a che la squadra non chiese ufficialmente a Bearzot di troncare i rapporti con la stampa, che da lì alla fine del torneo continuarono, istituzionalmente, solo attraverso il commissario tecnico e il capitano Zoff. La qualificazione ottenuta per il rotto della cuffia, con tanto di critiche anche da parte del presidente federale Federico Sordillo e di altri dirigenti, costrinse l’Italia a un secondo girone con Argentina e Brasile, due fra le principali favorite. In partenza per Barcellona, dove allo stadio Sarriá si sarebbero disputate le due partite decisive, nel coro di de profundis che faceva da sfondo alla spedizione, Bearzot lanciò non un proclama, non era nel suo stile, ma un preciso avviso ai naviganti: «Fisicamente stiamo bene grazie al fresco di Vigo. Mentalmente anche meglio perché contro squadre più forti non c’è mai la paura del fallimento». Ci fu chi invocò ancora una volta l’esonero immediato del commissario tecnico per perdita definitiva del senso della realtà. Partì invece, dal secondo tempo di Italia-Argentina, la più straordinaria cavalcata della storia del calcio italiano. Gli azzurri sconfissero dapprima i campioni del mondo uscenti con i gol di Tardelli e Cabrini, poi il favoritissimo Brasile con una tripletta del redivivo Paolo Rossi. Altri due gol di Rossi piegarono in semifinale la Polonia, e la sera dell’11 luglio al Santiago Bernabéu di Madrid l’Italia batté 3-1 in finale la Germania con le firme di Rossi, Tardelli e Altobelli. «Fate voi le domande» – disse gelidamente Bearzot ai cronisti nella sua prima conferenza stampa da campione del mondo – «O non vi è rimasto più nulla da dire?».
Confermato a furor di popolo per altri quattro anni, Bearzot commise a quel punto l’errore, poi ampiamente riconosciuto negli anni a venire, di non rinnovare la squadra. Tentò qualche innesto, per la verità, ma gli fece velo la gratitudine per quelli che non smise mai di chiamare “i miei ragazzi”. Così, dopo aver mancato la qualificazione agli Europei di Francia ’84, si presentò al Mondiale di Messico 1986 per difendere il titolo con una Nazionale in cui i reduci erano logori e le reclute non abbastanza mature. L’Italia superò il girone eliminatorio pareggiando con Bulgaria e Argentina e battendo la Corea del Sud: ma si arrese sin dagli ottavi alla Francia di Platini. Quel 17 giugno dell’86 si chiuse così la lunga avventura azzurra, e insieme la carriera, di Enzo Bearzot alla guida della Nazionale. Il bilancio, comprensivo dei due anni di cogestione con Fulvio Bernardini, è di 104 partite, con 51 vittorie, 28 pareggi e 25 sconfitte.
Nominato direttore delle squadre nazionali, Bearzot mantenne la carica per il quadriennio successivo sino al Mondiale del ’90 disputato in Italia. Rifiutando tutte le proposte che gli giunsero, in particolare dall’Inghilterra, per assumere la guida tecnica di un club: «Ho avuto l’onore di allenare per oltre 10 anni l’Italia» – era il suo mantra – «Oltre non si può andare».
Accettò ancora, perché sotto la scorza ruvida era pur sempre un sentimentale, il ruolo di ambasciatore del calcio italiano nel mondo che l’allora presidente federale Antonio Matarrese gli offrì nell’autunno del ’90. Ma una volta resosi conto che trattavasi di carica puramente decorativa, senza nemmeno le credenziali presso la Fédération internationale de Football Association (FIFA), scelse di abbandonare definitivamente la partita. «Da ora in poi» – promise a se stesso prima ancora che ai latori di più o meno improbabili promesse di rilancio nel mondo del pallone – «penserò soltanto a risarcire la famiglia di tutte le mie assenze». Mantenne la parola sino all’ultimo giorno, con la sola eccezione di un breve periodo alla presidenza del Settore tecnico di Coverciano. Ma le attenzioni e le premure delle sue ultime stagioni furono tutte per la moglie, per i figli Cinzia e Glauco, per gli adorati nipoti Rodolfo, Livia e Giulia con i quali trascorreva le estati tra il mare di Lignano e le Dolomiti di Auronzo. Rodolfo adolescente era anche l’unica persona al mondo ancora in grado di trascinarlo a San Siro.
Bearzot morì nella sua casa di via Crivelli la mattina del 21 dicembre 2010. È sepolto nel cimitero di Paderno d’Adda, accanto alla moglie Luisa che lo ha raggiunto quattro anni più tardi.
F. Mentana, Bearzot, Milano 1986; G. Garanzini, Il romanzo del Vecio, Milano 1997.