ENZO (Enzio, Enrico) di Svevia, re di Sardegna
Nacque, forse a Cremona, nella prima metà del sec. XIII; figlio naturale dell'imperatore Federico II di Svevia, che lo legittimò e creò cavaliere nel 1238. Di lui non si sa nulla di preciso sino al suo ingresso nella vita pubblica, avvenuto appunto nel 1238.
Secondo testimonianze tarde di alcuni storici, quali Leandro Alberti e il Ghirardacci, E. non aveva ancora venticinque anni quando fu fatto prigioniero nel 1249 alla Fossalta: ciò presupporrebbe che egli fosse nato nel 1224. Contro questa convinzione si sono espressi altri storici più recenti, quali l'Huillard-Bréholles e il Blasius, i quali hanno ritenuto del tutto improbabile che Federico II nominasse suo figlio legato generale in Italia nel 1239 se questi avesse avuto a quell'epoca appena 15 anni: da parte di costoro si è dunque preferito spostarne la data di nascita verso il 1220. Per la verità, non ci sono ulteriori elementi per poter essere più precisi, se non forse il fatto che ben difficilmente E., quando sposò nel 1238 Adelasia di Torres, già ultratrentenne, poteva avere meno di 16 anni. Presupporre una data di nascita nel 1222 concilierebbe forse tutte le possibili contestazioni.
Ugualmente impossibile è stabilire con certezza l'identità della madre di Enzo. Dimostrate da tempo del tutto erronee le testimonianze di Giovanni di Victring e del continuatore di Martino di Troppau che egli fosse figlio di Bianca Lanza (figlia della sorella del marchese di Monferrato e madre certa di un altro figlio illegittimo di Federico II, Manfredi), c'è chi ritiene, sulla scorta di Tommaso Tosco e del continuatore di Guglielmo di Tiro, che fosse figlio di una tedesca e chi preferisce invece dar credito a Riccobaldo da Ferrara e a Francesco Pipino che ci riferiscono che la madre di E. era una cremonese. Per la prima ipotesi stanno il nome stesso di E. e il fatto che egli conoscesse il tedesco; per la seconda il fatto che E. nel suo testamento ricorda come sorella carissima una certa Caterina da Marano, di cui ci restano pochissime notizie, tra le quali è però di un certo interesse il fatto che essa si sposò a Cremona nel 1247 con Giacomo Del Carretto. E. fu creato cavaliere dal padre proprio a Cremona e fece poi di questa città un punto di riferimento costante in tutti i suoi spostamenti. Ci sono dunque molti elementi per poter ipotizzare che egli sia nato proprio a Cremona (da madre tedesca o italiana resta incerto) e qui abbia trascorso la sua fanciullezza. Più tardi il padre dovette prenderlo con sé nel Regno in quanto E. ricorda con molta nostalgia, in una sua canzone, le terre della Puglia e della Capitanata, che deve aver visto certamente prima del 1238, perché più tardi non ebbe modo di ritornarvi.
Di E. le testimonianze contemporanee sono unanimi nel descrivere la bellezza del corpo e il valore e l'audacia nelle armi. Fra' Salimbene da Parma lo descrive biondo, di media statura, di animo valente, di gran cuore e di umore gaio, di mente sveglia e fantasiosa, in guerra molto audace anche se forse troppo spericolato. Daniele da Cremona (Daniele Deloc), che tradusse per E. in francese due trattati latini di falconeria (a loro volta tradotti dall'arabo e dal persiano), conferma questa descrizione, esaltando E. per "sa grande cortoisie, sa noble valor" (cfr. Frati). Per il Kantorowicz fu, dei figli di Federico II, il più somigliante al padre, e proprio per questo il suo prediletto. Certamente meno colto del padre, egli era nondimeno incline alle arti e fu anche un non disprezzabile poeta.
Nell'ottobre 1238 E., dopo essere stato creato cavaliere, s'imbarcava per la Sardegna con una scorta di gentiluomini per sposare Adelasia, giudicessa di Torres o Logudoro, vedova di Ubaldo Visconti, giudice di Gallura.
La Sardegna, già dominio bizantino, era a quel tempo suddivisa in quattro Giudicati o regni indipendenti (Cagliari, Torres, Gallura e Arborea). Sull'isola avevano cercato, comunque, dopo il Mille, d'imporre la loro alta sovranità sia l'Impero sia il Papato. Già nel 1074 Gregorio VII era riuscito ad ottenere il pagamento di un censo annuo, a titolo di vassallaggio, dai re dei quattro Giudicati sardi, ma nel 1164 Federico I aveva, a sua volta, incoronato Barisone I, giudice d'Arborea, rex Sardiniae. Di fatto la realtà istituzionale sarda non cambiò sino ai primi decenni del XIII secolo, quando più pressanti si fecero i tentativi di ottenere un controllo, non formale ma effettivo, sull'isola da parte di Pisa, in ciò fieramente contrastata da Genova. Un pisano, Ubaldo Visconti, divenne giudice di Gallura e nel 1222 anche marito di Adelasia, figlia di Mariano di Lacon-Gunale, giudice di Torres o Logudoro.
Morto Mariano e dopo cinque anni anche suo figlio quindicenne Barisone III, trucidato in una rivolta, Adelasia fu riconosciuta dalla "corona de logu" nel 1236 giudicessa di Torres e il marito poté così unire il governo del Torres e della Gallura. Nel 1237 il papa Gregorio IX inviò in Sardegna il suo legato per ottenere il giuramento di vassallaggio e di fedeltà dai re sardi. Lo ottenne da Pietro d'Arborea e anche da Adelasia e Ubaldo per quanto riguardava il Giudicato di Torres, ma non per la Gallura la cui alta signoria Ubaldo aveva gia in precedenza riconosciuto a Pisa. Ma all'inizio del 1238 Ubaldo morì lasciando per testamento la Gallura a suo cugino Giovanni ancora minorenne. Il papa non volle riconoscere il testamento e si affrettò anzi ad inviare disposizioni in Sardegna perché Adelasia, riconosciuta come gratia Dei regina turritana et gallurensis, passasse a nuove nozze con persona gradita alla S. Sede e in grado di conservare il dominio sui due Giudicati. Tale persona veniva, successivamente, individuata nel nobile pisano Guelfo de' Porcari. Nel Giudicato di Torres forti però erano anche gli interessi genovesi e soprattutto quelli della famiglia ghibellina dei Doria. I Doria, imparentati con Adelasia, ritennero pericoloso per i loro interessi nell'isola il matrimonio caldeggiato dal pontefice ed ebbero l'idea di recarsi in Lombardia per suggerire a Federico II, di cui erano fedelissimi sostenitori, un matrimonio tra Adelasia ed E., cosa che avrebbe di fatto portato buona parte della Sardegna sotto il controllo dell'Impero. Federico II, colta l'importanza politica dell'operazione - che apriva peraltro un nuovo fronte di contrasto nella sua lotta ormai più che decennale con la Chiesa - mandò subito in Sardegna suoi ambasciatori presso Adelasia per proporle E. come marito e Adelasia, pur avendo quasi il doppio degli anni di E., lusingata dall'offerta, accettò. Al pontefice non restò che scomunicare i due sposi e lanciare, l'anno successivo, l'anatema contro Federico II per essersi attribuita la sovranità della Sardegna.
Dopo le nozze E., divenuto di fatto rex Turrium et Gallurae, si stabilì a Sassari in un palazzo che anche più tardi sarà conosciuto come la domus domini regis Henthii. Ma in Sardegna restò soltanto pochi mesi. Nel luglio 1239 fu richiamato dal padre in Lombardia a reggere l'ufficio di legato generale in Italia: lasciò a rappresentarlo nell'isola vicari o luogotenenti, tra cui sono testimoniati un certo Calcerario, Riccardo Manospello, Corrado di Trinchi e Ugolino Della Gherardesca. Adelasia frattanto, abbandonata dal marito, estromessa dal potere ed angustiata forse dalla scomunica, si piegò sino quasi a umiliarsi al pontefice Innocenzo IV, il quale diede incarico all'arcivescovo d'Arborea di toglierle nel 1243 la scomunica e poi di concederle nel 1245 anche l'annullamento del matrimonio sul pretesto di nullità, per essere lo sposo uno scomunicato.
Malgrado una certa tradizione sorta sul filone dei commentatori danteschi voglia Adelasia sposata, a questo punto, con il "barattiere" Michele Zanche (Inf., XXII, 88-89), una cronaca sarda ci testimonia invece che essa visse mestamente i suoi ultimi anni di vita nel castello di Goceano, dove morì dopo il 1255, senza lasciare eredi: sembra infatti da escludere del tutto che l'Elena figlia di E. che andò sposa al conte di Donoratico Guelfo Della Gherardesca possa essere figlia di Adelasia.
Nel decennio che va dal luglio 1239 al maggio 1249 E., vero braccio destro del padre, fu tra i principali protagonisti dello scontro che infuriava nell'Italia centrosettentrionale tra l'Impero, i Comuni e il Papato. Il 25 luglio 1239 venne nominato "Sacri Imperii totius Italiae legatus generalis" con ampi poteri politici e militari sui vari podestà e vicari (perlopiù pugliesi) a cui Federico II aveva affidato i nuovi distretti territoriali in cui aveva suddiviso in precedenza il Regnum Italiae. Ma l'azione di E. fu in effetti, più che politica, militare. Nel settembre del 1239 invase la Marca d'Ancona che l'Impero rivendicava di diritto e che era stata occupata da Innocenzo III durante la minorità di Federico II. Molte città della Marca gli si sottomisero senza opporre resistenza: così Iesi, Macerata ed Osimo, a cui E. aveva promesso alcuni privilegi economici. Il papa rispose all'invasione della Marca riscomunicando E. e togliendo ad Osimo il seggio vescovile.
L'anno successivo E. fu a fianco del padre dapprima a Foligno e poi all'assedio di Ravenna. Caduta questa città, le truppe imperiali si posero in agosto all'assedio di Faenza, la quale doveva però resistere ben otto mesi. Ad E. fu dato incarico di reclutare rinforzi, per cui si recò prima in Lombardia e poi in Toscana. Gregorio IX frattanto, preoccupato per come si stavano mettendo le cose, aveva convocato per la Pasqua del 1241 un concilio a Roma, che avrebbe dovuto decretare la deposizione di Federico II. Fu affidato alle navi genovesi il compito di trasportare nel Lazio i cardinali francesi e inglesi. Conosciuta questa decisione, E. si recò subito a Pisa e qui fece predisporre in gran fretta una flotta che si mise in mare in attesa di intercettare le galee genovesi. Il 3 maggio 1241 la flotta pisana, a cui si era aggiunta quella siciliana, attaccò, tra l'isola del Giglio e Montecristo, le sovraccariche galee genovesi catturando quasi tutti i cardinali oltre a un centinaio di alti prelati e a un ricchissimo bottino. E., che aveva atteso l'esito dello scontro a Pisa, qui ebbe in consegna i cardinali che dapprima fece rinchiudere nel castello di San Miniato e poi trasferire in carcere nei castelli pugliesi.
Si portò poi in Romagna poiché, ormai caduta Faenza, sembrava prossima l'occasione per un attacco decisivo alla strenua Bologna. A Ravenna cadde ammalato e venne curato dai monaci di S. Maria in Porto, che egli poi ricevette per gratitudine sotto la speciale protezione imperiale. Nel 1242, essendosi bloccata per la morte di Gregorio IX la marcia di Federico II su Roma, E. si impegnò prevalentemente in azioni di saccheggio e devastazione nei territori dei Comuni guelfi lombardi: fece scorrerie nel Milanese, assediò e prese il castello piacentino di Roncarello, distrusse Treviglio e altre località sulla sinistra dell'Adda sino a quando, ferito ad una coscia da un dardo nei pressi di Palazzolo, nel Bresciano, non fu costretto a ritirarsi a Cremona. Nel 1243 proseguì le sue campagne in Lombardia: dapprima andò contro Vercelli e poi, unitosi alle milizie di Manfredi Lancia, puntò su Savona assediata dai Genovesi. Avendo costoro abbandonato l'assedio, E. avanzò su Lodi e poi su Milano. Giunto a Melegnano, provocò i Milanesi a un combattimento in campo aperto; avendo i Milanesi rifiutato, si recò a Pavia e poi nel Vercellese e infine di nuovo a Cremona. Nel 1244, unitosi di nuovo a Manfredi Lancia e a capo di una nutritissima cavalleria e delle milizie comunali cremonesi con il loro carroccio, E. puntò su Piacenza e bruciò alcune località prossime alla città, compreso l'ospedale di S. Spirito, ma essendoglisi fatto incontro un forte esercito della Lega lombarda preferì ripiegare prudentemente su Cremona.
Nel 1245 il nuovo papa Innocenzo IV, il genovese Sinibaldo Fieschi, riuscì a convocare a Lione un concilio che il 7 luglio dichiarò Federico II deposto, sciogliendo i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà e bandendo contro di lui una crociata. Anche E. venne, in quell'occasione, per l'ennesima volta scomunicato. Federico II, per risollevare le sorti dell'Impero, decise allora di attaccare direttamente Milano a capo di un forte esercito composto di cavalieri tedeschi, pugliesi e toscani, di truppe feudali guidate dal marchese di Monferrato, Opizzo Malaspina, e dal marchese Lancia e delle truppe comunali di Parma, Reggio, Cremona, Lodi, Bergamo, Pavia, Asti, Tortona e Alessandria coi rispettivi carrocci. Il piano prevedeva un attacco concentrico muovendo dal Ticino e dall'Adda: E. ebbe il compito di muovere dall'Adda con le truppe di Cremona, Parma, Reggio e Bergamo. Pur ostacolato da un canale artificiale fatto costruire dai Milanesi, riuscì infine ad attraversarlo e a venire a battaglia, l'8 novembre, coi Milanesi a Gorgonzola. L'esito fu felice per le sue truppe, ma E., spintosi audacemente troppo avanti, fu catturato da un drappello di nemici capeggiati da Simone di Locarno e subito rinchiuso nel campanile di Gorgonzola. Il sopraggiungere delle truppe imperiali convinse pero i Milanesi a liberarlo, non prima però di avergli fatto giurare di ritirare il suo esercito e di abbandonare la campagna in atto, cosa che fece subito dopo anche Federico II. Nel gennaio 1246 E. ottenne dal padre l'investitura della Lunigiana e della Garfagnana. Cacciò da Parma la fazione guelfa di Bernardo Rossi e compì poi scorrerie nel Piacentino e nel Piemonte per impedire che truppe mercenarie inviate dal papa - che ancora si trovava a Lione - venissero in aiuto dei Comuni aderenti alla Lega.
Nel marzo 1247 rientrò a Cremona per assistere alle nozze della sorella Caterina e si diede poi a saccheggiare il Bresciano ponendo l'assedio al castello di Quinzano. Qui si trovava quando gli giunse nel giugno la notizia che Parma si era ribellata mettendo in crisi tutto lo scacchiere militare ghibellino ed in pericolo il transito verso il Sud attraverso il passo della Cisa, oltre alla sicurezza della stessa Cremona ormai completamente circondata da città tutte guelfe. E. corse subito ad assediare Parma, ma commise forse l'errore di non attaccare subito la città, ben presto sovvenuta di armati inviati da tutte le città della Lega. Quando giunsero, nel luglio, anche le truppe imperiali di Federico II attaccare la città era ormai divenuta operazione impossibile e fu quindi deciso di prenderla per fame. Fu allora che Federico II decise che, una volta conquistata Parma, l'avrebbe distrutta dalle fondamenta costringendo gli abitanti ad andare ad abitare la nuova città che egli si mise a costruire in gran fretta tra Parma e Fidenza e a cui diede il nome augurale di Vittoria. Ad E. frattanto fu affidato il compito di battere le strade che portavano a Parma per impedire rinforzi di armati o rifornimenti di vettovaglie agli assediati. Egli si recò quindi dapprima con Ezzelino da Romano sui confini del Bolognese, dove però il castello modenese di Bazzano era già stato preso e distrutto dai nemici, e poi in Lunigiana e in Garfagnana per domare alcune rivolte e infine prese quartiere presso Brescello per controllare il corso del Po ed impedire l'avvicinamento di truppe mantovane e ferraresi. Passò così tutto l'inverno, ma la mattina del 18 febbr. 1248, mentre Federico II si era recato a caccia col suo seguito, i Parmensi uscirono in massa dalla città e, sorprendendo gli assedianti, distrussero Vittoria, impadronendosi dello stesso tesoro imperiale. La clamorosa e inaspettata disfatta fu un colpo fatale e decisivo per i piani di Federico II e a nulla valse il fatto che egli si ripresentasse dopo appena quattro giorni con un esercito davanti alla città di Parma. E. frattanto si spostava a Cremona, dove veniva nominato podestà, col compito strategico di mantenere sotto controllo la forte posizione che occupava sul Po.
Nel 1249 E. sposava a Cremona una nipote di Ezzelino da Romano di cui non ci è stato tramandato il nome. Nel febbraio assediò il castello di Rolo nel Reggiano, che si era ribellato, ed, occupatolo, fece impiccare circa cento difensori. Nel maggio i Bolognesi, rafforzati dalle milizie pontificie del cardinale O. Ubaldini e da quelle ferraresi del marchese Azzo d'Este, decisero di muovere, al comando del loro podestà, il bresciano Filippo degli Ugoni, contro Modena che si manteneva ostinatamente fedele all'Impero. Giunto al fiume Panaro, l'esercito bolognese dovette fermarsi per consentire la costruzione di un nuovo ponte che permettesse un passaggio più agevole anche ai carriaggi. E., che si trovava a Cremona, prontamente avvertito, raccolse la sua guardia tedesca con i cavalieri cremonesi e reggiani e si precipitò a Modena e da qui mosse subito, con le fanterie modenesi, verso il Panaro. Vi giunse alle 3 del pomeriggio del 26 maggio e cominciò ad attaccare i guastatori bolognesi intenti a far legna per la costruzione del ponte. Le grida di costoro spinsero i Bolognesi ad attraversare in massa e precipitosamente il fiume, mentre i loro squadroni di cavalleria, con ampio movimento avvolgente, sorprendevano ai fianchi l'esercito imperiale stanco e disorganizzato. E. ordinò la ritirata, ma rimase a proteggere la retroguardia con i suoi cavalieri tedeschi. Un rallentamento alla ritirata avvenne alla Fossalta a causa di un torrente ingrossato dalle acque: da qui verso Modena la ritirata si trasformò in rotta disastrosa. Lo stesso E., giunto in località San Lazzaro, alle porte di Modena, fu rovesciato da cavallo e venne ben presto catturato. Alla fine della giornata i Bolognesi trionfanti si accorsero di aver fatti prigionieri, oltre al re, ben 1.200 fanti e 400 cavalieri, fra i quali Buoso da Dovara, condottiero dei Cremonesi, Marino da Eboli, podestà di Reggio, Corrado conte di Solimburgo, Antolino dell'Andito, Gerardo Pio, Tommaso da Gorzano e molti altri nobili ghibellini. E. fu dai Bolognesi dapprima rinchiuso, sino al 17 agosto, nella rocca di Castelfranco e poi in quella di Anzola sino al 24 agosto, giorno in cui venne condotto trionfalmente a Bologna e rinchiuso in quel palazzo nuovo che il Comune aveva costruito nel 1245 e che da allora si cominciò a chiamare "palazzo di re Enzo".
Con lui furono imprigionati Marino da Eboli, Corrado di Solimburgo, Buoso da Dovara e Antolino dell'Andito, mentre tutti gli altri prigionieri - tra cui, oltre ai modenesi e ai cremonesi, erano friulani, lombardi, ferraresi, reggiani e molti tedeschi di Spira, Ulma e Colonia - vennero distribuiti in varie carceri private, poste nei quattro quartieri cittadini. Per costoro iniziò molto presto l'abituale operazione di riscatto, cosicché non era passato neppure un anno che nelle carceri bolognesi restavano poco più di 300 prigionieri, di cui diversi fuggirono nell'aprile 1253. Federico II scrisse diverse lettere ai Bolognesi perché suo figlio venisse liberato, alternando le lusinghe alle minacce, ma i Bolognesi, orgogliosissimi della loro preda, decisero di tenere E. prigioniero sino alla morte, quale segno tangibile del proprio orgoglio municipale, ben altrimenti significativo della lupa dei Romani o del leone dei Fiorentini. E così il giorno seguente l'ingresso di E. a Bologna si radunò il Consiglio comunale per deliberare che il giovane re mai e a nessun patto potesse essere rilasciato, ma dovesse vivere prigioniero sino alla fine dei suoi giorni, provveduto a pubbliche spese e con servitù consona al suo rango. Una riformagione del 9 genn. 1252 veniva poi a regolamentare la custodia del prigioniero: si stabiliva che sedici custodi dell'età di almeno trent'anni dovessero provvedere alla sua guardia e rinnovarsi a turno ogni quindici giorni ricevendo un compenso di due soldi al giorno da pagarsi da parte del re. Negli statuti del 1259 si abbassava l'età dei custodi a venticinque anni; si stabiliva inoltre che il compenso fosse anticipato dal Comune, ma poi rimborsato dal re ogni tre mesi, e che nessuno potesse rivolgere la parola ad E. senza la presenza dei custodi. Negli statuti del 1262 si stabiliva che nessuna guardia potesse giocare a zara né a qualunque altro gioco col re, né rivolgergli la parola. Il servizio di custodia diventava gratuito (segno questo innegabile dell'impoverimento progressivo di E.), ma nessuno a ciò destinato poteva sottrarsi, pena una multa, al suo ufficio. Negli statuti del 1263, infine, si ordinava, per rendere più tollerabile ad E. la sua prigionia, che egli fosse liberato dalla compagnia ormai intollerabile del tedesco Corrado di Solimburgo, forse nel frattempo impazzito.
E. rimase prigioniero a Bologna dall'agosto 1249 sino al marzo del 1272, cioè sino alla morte. La sua prigionia, dapprima probabilmente molto rigida, si dovette fare man mano più confortante sino a rasentare la semilibertà. Risulta infatti che egli non solo ebbe sempre servi e paggi al suo servizio, ma che godette anche della compagnia e dell'amicizia di alcuni nobili bolognesi e che gli fu permesso anche di mantenere contatti con l'estemo, come dimostrano alcune lettere da lui scambiate con Buoso da Dovara (che era stato liberato nel 1251) fra il 1258 e il 1263 e che ancora conservano il sigillo personale di E., cioè un leone rampante. Ciò non toglie che pian piano s'affievolisse in E., in una lenta agonia, ogni speranza di essere liberato, visto il tragico destino che sembrava accanirsi contro la sua casata: il padre era morto nel 1250, il fratello Corrado nel 1254, il fratello Manfredi veniva sconfitto e ucciso a Benevento nel 1266, il nipote Corradino era catturato e giustiziato dopo la battaglia di Tagliacozzo nel 1268.
Ai primi del 1272 E. si ammalò e fu preso in cura da diversi medici, tra i quali uno di sua fiducia, Eliseo da Siena, che egli volle fosse ricompensato con la cospicua somma di 100 lire di bolognini. Ma ogni cura fu inutile: morì il 14 marzo di quell'anno.
Il suo corpo fu imbalsamato e, rivestito di abiti regali, fu sepolto, con solenni onoranze a spese del Comune di Bologna, nella chiesa del convento di S. Domenico. Sulla tomba, una lastra di marmo rosso, fu posta un'iscrizione dettata, pare, dal prestigioso maestro d'ars notarie Rolandino Passaggeri e conservataci nel cod. 182 della Biblioteca universitaria di Bologna: Temporacurrebant Christi nativa potentis / tunc duo cum decies septem cum mille ducentis / dum pia Caesarei proles cineratur in arca / ista Friderici maluit quem sternere parca. / Rex erat et comptos pressit diademate crines / Hentius atque poli meruit mens tendere fines. Il sepolcro originale fu poi restaurato in varie occasioni (1490, 1586, 1690) e infine completamente rifatto nel 1731 in occasione di un radicale restauro di tutta la chiesa.
Nel suo testamento del 6 marzo 1272 (con due codicilli del giorno successivo) a cui presenziò come testimone anche il trovatore provenzale Lucchetto Gattilusio da Genova, in quel semestre podestà a Bologna, E. ricorda alcuni amici bolognesi a cui affida le sue carte e le sue poesie e anche molti servi e artigiani che avevano lavorato per lui: così il paggio Guglielmino da Parma, i cuochi Marco e Giovanni, il sarto Iacopino da Pavia, il calzolaio Pietro da Reggio, il servo Benedetto Pugliese ed altri. Alla sorella Caterina da Marano che, rimasta vedova nel 1268, si era trasferita da Cremona a Bologna per essergli di conforto, lascia 2.000 lire e altre 500 al convento delle suore della Misericordia che l'avevano onorevolmente ospitata. Sue eredi sono nominate le tre figlie naturali: Elena, Maddalena e Costanza. Alle ultime due E. assegna in dote mille oncie d'oro per ciascuna, raccomandandole poi al cugino Alfonso X, re di Castiglia, perché provveda a maritarle onorevolmente. Ad Elena, già da parecchi anni moglie di Guelfo Della Gherardesca di Donoratico (figlio del famoso "conte Ugolino") e madre di Enrico ed Ugolino, lascia i suoi diritti sul Regno di Sardegna, in Lunigiana, Garfagnana e Versilia, con l'onere però di pagare una serie di legati per un totale di oltre 5.300 lire di bolognini. Al cugino re di Castiglia e al nipote Federico langravio di Turingia lascia poi i suoi diritti - altrettanto vacui dei precedenti - sui Regni di Sicilia, Gerusalemme ed Arles, con l'obbligo anche qui di pagare una serie di legati del valore complessivo di 3.000 oncie d'oro. I suoi eredi, in effetti, non li pagheranno mai.
E., nel tempo della sua prigionia, si dilettò di scrivere poesie secondo i canoni della scuola poetica siciliana. Di lui i codici ci hanno conservato però solo due canzoni e un sonetto. Nella canzone Amor mi fa sovente è, nel finale, un malinconico struggente saluto alle sue care terre lontane: "Va canzonetta mia / ... / salutami Toscana / in cui regna tutta cortesia, e vanne in Puglia piana / la magna Capitana là dove lo mio core è notte e dia". Nella canzone S'eo trovasse pïetanza il dolore del prigioniero si rivela invece in tutta la sua disperata angoscia, mentre nel sonetto Tempo vene ke sale ki discende sembra prevalere un senso di sana rassegnazione: la fortuna gira e mentre oggi sembra arriderci domani può voltarci le spalle per cui èdelle persone sagge e prudenti non farsi trovare mai del tutto impreparati. C'è chi ha sostenuto che fu proprio re E. a introdurre a Bologna lo spirito e le forme di quella poesia aulica che ebbe poi imitatori nei poeti locali Fabruzzo Lambertazzi e Guido Guinizzelli.
La pietosa vicenda umana del giovane sovrano, così valoroso e così sfortunato, e soprattutto la sua lunga prigionia durata quasi ventitré anni non potevano non suscitare l'interesse dei contemporanei, dando adito al formarsi di una vera e propria "leggenda di re Enzo", che andò poi man mano dilatandosi e arricchendosi nel corso dei tempi. Sostanzialmente due sono i filoni di questa leggenda: il primo, d'ispirazione ghibellina, tendente a dimostrare la presunta durezza con cui i Bolognesi avrebbero trattato il loro regale prigioniero; il secondo, d'ispirazione guelfa e bolognese, tendente a dimostrare non solo l'esatto contrario - cioè l'onorevole deferenza e amabilità con cui E. era trattato nella sua comoda e prestigiosa prigione - ma anche ad esaltare il municipalismo locale che concentrava proprio nella figura del re prigioniero sia i fasti gloriosi dell'età comunale, sia le presunte nobili origini della famiglia signorile dei Bentivoglio.
Le cronache più antiche danno, in verità, pochissimi particolari sulla battaglia della Fossalta, ma pian piano queste notizie si arricchirono sino a riportare i nomi dei valorosi che avevano personalmente catturato il re o a dare una descrizione particolareggiatissima della coreografica sfilata che avrebbe accompagnato E. nella sua traduzione in città. Si sostenne che Federico II avrebbe offerto per il riscatto del figlio un cerchio d'argento così largo da cingere le mura di Bologna, mentre in altre cronache, ancora successive, si parla addirittura di un cerchio d'oro. Si pretese che il re fosse rinchiuso di notte in una gabbia di legno e di ferro sollevata sino al soffitto del grande salone in cui era custodito. Altri sostennero che venisse incatenato con ceppi e catene d'oro. Per alcuni la sua povertà era tale che avrebbe persino sofferto la fame. Fra' Salimbene narra, ad esempio, che un giorno i custodi di E. si rifiutarono di dargli da mangiare; allora frate Albertino da Verona, celebre predicatore francescano, non riuscendo a smuoverli dal loro intento, propose loro di giocare a dadi. Se avesse vinto lui E. avrebbe avuto da mangiare ciò che voleva. Giocò e vinse. Ma Iacopo da Acqui riporta invece che il Comune passava quotidianamente al prigioniero pane, vino, frutta e una torta fatta delle cose che più gli piacevano e che aveva al suo servizio cinque servitori tra cui due cuochi.
Una tarda cronaca del Quattrocento ci presenta invece un E. in semilibertà discorrere amabilmente con i patrizi bolognesi sotto il portico del palazzo comunale. Qui avrebbe notato una giovane ed attraente contadina di nome Lucia di Viadagola. Ogni volta che costei passava il re le diceva: "Anima mia, ben ti voglio". Pietro degli Asinelli, amicissimo di E., si sarebbe dato da fare per far incontrare i due e finì che la giovane contadina "se ingravidò et partorì uno putto maschio et poseli nome Bentivoglio, del quale ne discende la nobile casa di Bentivoglio". Il racconto è ovviamente del tutto fantasioso e fu creato presumibilmente da chi intendeva adulare il signore di Bologna trovandogli qualche stilla di sangue imperiale nelle vene. Resta però il fatto che E. ebbe tre figlie, di cui almeno due concepite sicuramente mentre era prigioniero a Bologna. Molto diffusa, ma anche questa quattrocentesca, è la leggenda del tentativo di fuga messo in opera dal re. Doveva fuggire nascosto in una "brenta" (grosso e robusto recipiente vinario sistemato sul dorso, come le gerle, dai facchini che portavano il vino nelle case), ma da una finestra una donna vide la bionda chioma di E. mal coperta da un drappo e si mise a gridare e così la fuga fallì. Questa leggenda trasse probabilmente spunto da un fatto analogo e documentato che aveva visto un detenuto comune fuggire appunto con la complicità di un brentatore. Leggendari infine sono anche i particolari della sua sepoltura. Possiamo credere ai funerali solenni voluti e pagati dal Comune perché ce ne parla il contemporaneo Pietro Cantinelli e forse anche che il corpo venisse imbalsamato perché ce lo riferisce sempre il contemporaneo fra' Salimbene de Adam, ma del tutto fantasiose, perché narrate solo in epoca tarda, sono le notizie che E. venisse seppellito con un diadema d'oro e d'argento e pietre preziose in testa, uno scettro d'oro in mano e al fianco una spada.
Tutte queste leggende confluirono comunque più tardi in numerosi drammi e componimenti poetici ispirati dalla fine miseranda e commovente del biondo sovrano. Tra queste ricorderemo: la tragedia Enzio scritta nel Settecento dal padre gesuita Simone Maria Poggi; Il re Enzio in campo, tragicommedia scritta nel 1735 da Domenico Maria Creta, Ilreprigioniero, dramma anonimo rappresentato nel 1831; ma soprattutto l'opera di Giovanni Pascoli, il quale pubblicò nel 1908 tre Canzoni di reEnzio (del Carroccio, del Paradiso, dell'Olifante), preannunciandone altre tre (dello Studio, del Cor gentile, di Biancofiore) che la morte gli impedì però di portare a termine.
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