ENZO, RE DI TORRES E DI GALLURA, ATTIVITÀ POETICA
Della produzione poetica di E., "cantionum inventor", tra l'altro, nel ritratto che ce ne offre fra Salimbene da Parma, restano due canzoni, S'eo trovasse Pietanza e Amor mi fa sovente; un sonetto, Tempo vene che sale chi discende; e un frammento, probabilmente di canzone, Alegru cori, plenu. Un corpus non esteso ma tutto, per più ragioni, di consistente interesse.
Il frammento Alegru cori, plenu è riportato nelle minute delle carte Barbieri (Bb1, c. 55r) senza rubrica ma immediatamente dopo S'eo trovasse Pietanza, attribuita a re Enzo. L'interesse di questo testo (sette versi in tutto, due coppie di settenari a rima alterna seguiti da un altro settenario e da due endecasillabi, il primo dei quali legato dalla rima interna al verso precedente, ab ab, c(c)DD: potrebbe essere, ma senza alcuna certezza e senza corrispondenze apprezzabili nell'ambito della produzione siciliana, lo schema di un'intera stanza di canzone) sta tutto nella forma linguistica in cui ci è stato tràdito nelle carte Barbieri (prelevato, si sa, dal "Libro Siciliano"), presumibilmente molto vicina alla stesura originaria (come dimostrano le terminazioni atone, la rima perfetta placiri: muriri, ecc.); su cui di conseguenza spiccano ancor più le poche ma significative alterazioni concentrate nell'ultimo verso "ch'iu v'amo di buon cori e lialmenti", dove iu (cf. 3 eu), amo e buon contravvengono alle norme del vocalismo siciliano. Si vedrà che quella della lingua usata da E. è questione di non poco momento per la definizione dei limiti cronologici della Scuola e per la valutazione complessiva del "siciliano" in quanto lingua di cultura.
Il sonetto Tempo vene che sale chi discende, di trasmissione estesa ma tarda e ovunque molto scorretta, va ascritto senz'altro a E. nonostante l'attribuzione isolata a Guittone nel Barberiniano Latino 3953 (in effetti con un sonetto guittoniano, Qual omo si diletta in troppo dire, esso presenta parecchie affinità). Lo stato del testo, che impone all'editore numerosi e anche drastici emendamenti, non consente di chiarire in modo soddisfacente i rapporti tra i codici: per la ricostruzione occorre rifarsi, più che come manoscritto-base come indicativo punto di riferimento, al Vaticano 3214, intervenendo soprattutto ope ingenii e, più di rado, sulla base di suggerimenti estraibili dalle altre testimonianze. Si tratta del più celebre componimento siciliano di argomento non erotico, incentrato sul tema della fortuna a partire da un noto suggerimento biblico (Ecclesiaste III) di cui l'autore mantiene "suggestivamente l'andamento stilistico di litania, con l'allineamento anaforico di tutti i versi della fronte sulla parola tematica, il tempo dominatore di ogni vicenda umana" (Folena, 1965). Se ne veda a riprova la prima quartina: "Tempo vene che sale chi discende, / e tempo da parlare e da taciere, / e tempo d'ascoltare a chi imprende, / e tempo da minaccie non temere".
Amor mi fa sovente è una canzone (o canzonetta, secondo la non rara designazione dell'ultima stanza-congedo, coerente con la massiccia prevalenza di settenari) di cinque stanze singulars (con piedi e volte) di dodici versi ognuna, tutti settenari tranne l'ultimo di ciascuna volta, endecasillabo; senza concatenatio e senza combinatio. Riportata da un nutrito numero di manoscritti con attribuzione unanime, è completa delle ultime due stanze solo in L, c. 78r, che, all'analisi, si dimostra componente isolata di uno dei due rami della tradizione nonché linguisticamente più conservativo. È una canzone "di lontananza" di impianto piuttosto convenzionale, come dimostrano tra l'altro i numerosi riecheggiamenti (non organici) dai trovatori (cf. Fratta, 1996, pp. 23-24). Di qualche rilievo, in questa sede, la stanza-congedo: "Va', cansonetta mia, / e saluta messere, / dilli lo mal ch'i' aggio; / quelli che m'à 'n bailia / sì distretto mi tene / ch'eo viver non poraggio. / Salutami Toscana, / quella ched è sovrana / in cüi regna tutta cortezia: / e vanne in Puglia piana, / la magna Capitana, / là dov'è lo mio core nott' e dia". Il non comune addensarsi di riferimenti concreti e la nota vicenda della lunghissima prigionia del re (1249-1272), ha indotto a identificare in Federico II il "messere" a cui il componimento verrebbe inviato dal figlio prigioniero in Bologna ("lo mal ch'i' aggio", "m'à 'n bailia", "sì distretto mi tene"): risultandone dunque anche una possibilità precisa di datazione compresa tra il 1249, anno dell'inizio della cattività, e il 1250, anno della morte dell'imperatore. Più congrua al contesto pare una lettura attenta agli elementi tradizionali del genere, in cui "messere" sia inteso come "vocativo [sic!] maschile rivolto all'amata (come midonz in provenzale, senhor in antico portoghese)" (Contini, 1970) e il severo signore che tiene il poeta in prigionia non sia altri che Amore, descritto, secondo maniera, come carceriere e carnefice. Il che, si badi, non esclude peraltro l'eventualità di un più tenue riferimento a Federico, se il passo prevede, come sembra, che il poeta si dichiari costretto a stare lontano (verosimilmente nel Nord d'Italia) dalla Puglia, in cui risiede l'amata; e, inviando a lei il suo componimento, ne immagini il tragitto attraverso la Toscana e di ciò approfitti per rivolgere un omaggio indiretto, questo sì, all'imperatore (che si alluda o meno qui alla corte di Federico d'Antiochia, vicario imperiale, a Castiglione Aretino).
Ma è S'eo trovasse Pietanza il componimento di E. che ha attirato maggiormente l'attenzione degli studiosi. La canzone ha cinque stanze singulars di quattordici versi ciascuna, con due piedi di tre settenari e un endecasillabo, e sirma indivisa di quattro settenari e un endecasillabo finale, senza concatenatio e senza combinatio. Il primo e l'ultimo verso della sirma sono anarimi, cioè non rimano né all'interno della stanza né con sedi corrispondenti di altre stanze. Le strofe I-II e IV-V sono capfinidas. È un'energica canzone del registro disforico fittamente collegata ai modi della Scuola (specialmente a quelli di Guido delle Colonne), che influenzerà parecchio i rimatori della successiva generazione toscana (Chiaro, Dante da Maiano, Guittone, Cavalcanti: si ponga mente solo al bisticcio servire / diservire ai vv. 21-22, di ascendenza occitanica ma inaugurato probabilmente in Italia proprio da questo testo di E.). Ma, piuttosto che indugiare in considerazioni interne, varrà la pena sottolineare subito le ragioni che fanno di questa poesia, che usufruisce (come il resto della produzione dell'autore, tranne il frammento delle carte Barbieri) di un'ampia serie di testimonianze manoscritte, forse il caso più intricato, e intrigante, dell'intera tradizione siciliana. Solo una parte dei codici riporta il testo nella sua integrità, gli altri ne recano una versione ridotta alle prime tre stanze: e un'analisi attenta delle lezioni conferma in sostanza gli apparentamenti già suggeriti da questo primo e rilevante argomento di classificazione (redazione ridotta vs redazione integrale). Ne deriva un albero bi- o tripartito che diviene tri- o quadripartito se, come sembra, occorre assegnare valore di testimonianza indipendente alle carte Barbieri, o meglio al "Libro Siciliano" da cui il filologo cinquecentesco trasse le ultime due stanze nella loro veste originaria siciliana, dopo aver esemplato le prime tre dalla Giuntina o dal testo, già anticamente italianizzato, dello stesso "Libro Siciliano". Tale situazione implica: a) la possibilità di una doppia redazione (connessa, come si vedrà, alla disputa sull'attribuzione); b) la questione del rapporto tra (parziale) versione "siciliana" e versione in "lingua", che, dopo le dimostrazioni soprattutto di Monteverdi e Castellani, conferma il percorso 'naturale' dal testo siciliano originario, attestato dalla deposizione incompleta delle carte Barbieri, alla posteriore toscanizzazione. Conclusione quest'ultima rilevantissima per il problema capitale della "lingua usata dai siciliani", se è vero che si tratta di una poesia scritta con ogni probabilità a Bologna, da autore (autori?) fisicamente, biograficamente estranei all'isola e in data tarda. Insomma "la presenza dei vv. finali 43-70 in organica veste siciliana tra le carte Barbieri dimostra che l'autore [...], operando una simile scelta linguistica, conosce bene e apprezza i testi della Scuola nell'aspetto originario; a Bologna, in una fase successiva alla morte dell'imperatore (quando declinano le ragioni politiche di militanza o appartenenza), egli sceglie di scrivere in una lingua di cui subisce il fascino anche nei momenti finali e meno fulgidi della dinastia sveva, o forse addirittura dopo il crollo dinastico" (Coluccia, 2003). Intricatissima poi la questione dell'attribuzione, soprattutto per l'anomala frequenza delle doppie designazioni: tralasciando in questa sede la precisazione delle diverse rubriche di cui sono corredati i manoscritti e della distribuzione delle diverse attribuzioni nello stemma (coinvolti sono, oltre E., Semprebene da Bologna, un fantomatico Nascimbene e addirittura Guido Guinizzelli), basti considerare le soluzioni autorevolmente proposte: a) l'accoppiamento mittente-destinatario (secondo una celebre tesi, che si estende oltre il caso particolare, di Ernesto Monaci); b) l'accoppiamento dei partecipanti ad una tenzone (Santangelo, 1928); c) la coautorialità (Contini, 1952), che coinvolgerebbe ancora una volta Semprebene, come nel caso di Kome lo giorno di Percivalle Doria (v.). Tra l'altro, in questo caso, Semprebene sembra venir designato, come autore unico, dal solitamente autorevolissimo V, anche se, per mero trascorso, il codice vaticano reca Sernascimbene (non *Semprebene) dibologna. In una situazione come questa, qui molto concisamente riassunta, pare inopportuna qualsiasi rigida conclusione (astenendosi per esempio dal sovrapporre automaticamente doppia redazione e coautorialità, due fatti che, in linea di principio, non si implicano necessariamente), inquadrando la doppia designazione nell'ambito della dinamica di indirizzo e circolazione del testo che tanto sollecita, com'è noto, gli autori del tempo.
Fonti e Bibl.: i testi si citano secondo la lezione fermata nella nuova edizione critica e commentata in corso di allestimento da parte di vari autori per il Centro di studi filologici e linguistici siciliani; le rime di E. sono state curate da Corrado Calenda. I componimenti di E. sono compresi naturalmente nella raccolta complessiva di B. Panvini, Le rime della scuola siciliana, I, Firenze 1962-1964, pp. 215-221, 456-457, 661. S'eo trovasse Pietanza è edita in Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, I, Milano-Napoli 1960, pp. 155-159 e II, p. 816 (edizioni della stessa canzone erano anche nei contributi di Monteverdi e Panvini citati nella bibliografia critica). Di rilievo, soprattutto per la nota introduttiva e il commento, l'edizione di Amor mi fa sovente sempre a cura di G. Contini in Letteratura italiana delle Origini, Firenze 1970, pp. 53-56. Tra le edizioni complessive precedenti, ancora di qualche utilità può essere quella compresa (passim) in C. Riera, I Poeti siciliani di Casa Reale (Re Giovanni, Federico II, Re Enzo), Palermo 1934. Il sonetto Tempo vene è edito e commentato in G. Folena, Cultura e poesia dei siciliani, in Storia della letteratura italiana, I, Le origini e il Duecento, Milano 1965, p. 287. Importante l'edizione diplomatico-interpretativa compresa nelle Clpio (Concordanze della lingua poetica italiana delle origini), a cura di d'A.S. Avalle, I, Milano-Napoli 1992, passim (assente il frammento Alegru cori, plenu, non riportato nei canzonieri delle origini). Tra i più notevoli contributi filologici e critici, prevalentemente dedicati a S'eo trovasse Pietanza: S. Santangelo, Le tenzoni poetiche nella letteratura italiana delle origini, Genève 1928, pp. 23-24; S. Santangelo, Saggi critici, Modena 1951, pp. 246-247; G. Contini, Questioni attributive nell'ambito della lirica siciliana, in Atti del Convegno Internazionale di studi federiciani, Palermo 1952, pp. 367-395, in partic. pp. 389-391; S. Santangelo, Enzo prigioniero e poeta, ibid., pp. 427-433; B. Panvini, La canzone "S'eo trovasse Pietanza" del re Enzo, "Siculorum Gymnasium", 6, 1953, pp. 99-119; A. Monteverdi, Per una canzone di re Enzo, in Id., Studi e saggi sulla letteratura italiana dei primi secoli, Milano-Napoli 1954, pp. 59-100; G. Contini, Ancora sulla canzone "S'eo trovasse Pietanza", "Siculorum Gymnasium", 8, 1955, pp. 122-138; A.E. Quaglio, I poeti della "Magna Curia" siciliana, in Letteratura Italiana. Storia e testi, I, Il Duecento dalle origini a Dante, a cura di E. Pasquini-A.E. Quaglio, Bari 1970, pp. 169-240, in partic. pp. 223-231; F. Brambilla Ageno, L'edizione critica dei testi volgari, Padova 1975, pp. 257-258; M. Beretta Spampinato, La scuola poetica siciliana, in Storia della Sicilia, IV, Napoli 1980, pp. 387-425, in partic. pp. 407-409; C. Sanga, La rima trivocalica. La rima nell'antica poesia italiana e la lingua della Scuola poetica siciliana, Venezia 1992, pp. 204-205; A. Fratta, Le fonti provenzali dei poeti della scuola siciliana. I postillati del Torraca e altri contributi, Firenze 1996, pp. 23-25; C. Giunta, La poesia italiana nell'età di Dante. La linea Bonagiunta-Guinizzelli, Bologna 1998, pp. 163-171; S. Orlando, La poesia dei Siciliani e la lezione dei memoriali bolognesi, in Dai siciliani ai siculo-toscani. Lingua, metro e stile per la definizione del canone. Atti del Convegno (Lecce, 21-23 aprile 1998), a cura di R. Coluccia-R. Gualdo, Galatina 1998, pp. 29-38, in partic. pp. 33-36; G. Brunetti, Il libro di Giacomino e i canzonieri individuali: diffusione delle forme e tradizione della Scuola poetica siciliana, ibid., pp. 61-92, in partic. p. 88; A. Castellani, Grammatica storica della lingua italiana, I, Introduzione, Bologna 2000, pp. 494-497, 514; R. Coluccia, La tradizione della lirica italiana dei primi secoli, in Intorno al testo. Tipologie del corredo esegetico e soluzioni editoriali. Atti del Convegno di Urbino, 1-3 ottobre 2001, Roma 2003, pp. 101-142, in partic. pp. 129-131.