epanalessi
Figura retorica, appartenente al genere dell'amplificazione, e consistente nel ripetere (donde in latino il termine corrispondente di repetitio) una o più parole, preferibilmente separate da una locuzione o da un inciso, in modo da dare maggiore risalto alla ripetizione stessa (Quintiliano Inst. IX II 29). Ma Isidoro chiama e. la replicatio, da altri detta redditio, della medesima parola al principio e alla fine del verso (Etym. I XXXVI 11) e il modulo con cui si torna al discorso iniziale dopo una digressione (II XXI 36).
A parte la più semplice geminatio, che può contribuire all'ironia di una premurosa risposta (Non son colui, non son colui che credi, If XIX 62) o all'enfasi di un'invettiva (Ahi Pistoia, Pistoia..., XXV 10), la forma più tipica di e. si ritrova assai di rado nell'opera di Dante. In Rime LXVII 51 (Vanne, misera, fuor, vattene omai!), dove tuttavia compare con una variatio, l'e. mira a riprodurre l'enfasi del grido, come in Ep II 3 (Doleat ergo, doleat progenies) essa approfondisce il tono patetico. Nell'e. l'invettiva trova una sfumatura ironica anche in Pd VI 103 (Faccian li Ghibellin, faccian lor arte), mentre la concitazione di un intimo turbamento è espressa in Pd VII 10-11 (‛ Dille, dille! ' / fra me, ‛ dille ' dicea) dove alla prima geminatio succede la interiectio propria dell'e., approfondita dalla spezzatura del verso. V. anche Rima 14.
Altrove l'e. è ravvisabile nella ripetizione pleonastica, volutamente accentuata, di un vocabolo, che tuttavia ha la sua funzione logica. In If V 64-65 (Elena vedi... / ... e vedi 'l grande Achille) la ripetizione del verbo crea un chiasmo (v.), mentre in XXIII 142-143 (Io udi'... / ...tra' quali udi') i verbi sono invece allontanati, disposti all'inizio della frase e alla fine del verso, e in XXX 109-111 la ripetizione di l'avei (Quando tu andavi / al fuoco, non l'avei tu così presto; / ma sì e più l'avei quando coniavi) è sottolineata dalla medesima posizione della parola nel ritmo del verso. Ma gli ultimi due casi contribuiscono a dosare l'effetto comico.
All'e. va ricondotta anche la ripetizione dov'è palese l'intento di un'eloquente amplificazione, come in Pg XI 80 (l'onor d'Agobbio e l'onor di quell'arte), in Pd VI 44-45, dove l'e. riguarda il pleonastico ripetersi della locuzione ‛ incontro a ', in XV 68 (suoni la volontà, suoni 'l disio), in XVII 64 (che tutta ingrata, tutta matta ed empia). Un'inflessione più intimamente espressiva ha invece la repetitio in If XXXIII 62-63 (tu ne vestisti / ... e tu le spoglia) dove invero il secondo tu ha un intenso valore grammaticale (" tu stesso ") e affettivo.
Nella prosa latina l'e. può rintracciarsi invece nell'uso raziocinante di riprendere una locuzione per chiarirne il significato con un'ulteriore determinazione: tale modulo retorico si ritrova in VE I II 1 nostra vera prima locutio. Non dico autem ‛ nostra '...; in Ep V 16 ... viride germinetis, viride dico fructiferum verae pacis; in XII 2 duo ridenda et male praeconsiliata sunt, pater; dico male praeconsiliata per illos...
Dei due casi particolari di e. indicati da Isidoro, il primo non ricorre in D., perché egli preferisce, nei rari casi in cui riprende alla fine del verso il vocabolo con cui esso comincia, creare l'antitesi (v.), come in Rime CVI 43, e la paronomasia (v.), come in Pg XIII 109. Invece il secondo caso, in relazione alla digressio, si può rinvenire agevolmente nei trattati; e basti citare Cv II IX, III X, IV XXIV, VE I VI 4.