Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il modello di poema eroico fornito dal Tasso influenza il genere epico secentesco europeo, imponendo un cauto rinnovamento delle regole classicistiche discusse nel Cinquecento in rapporto alla narrazione dell’Ariosto. Avvertita come inattuale per l’impostazione aristotelica, l’epica conosce la variante dell’eroicomico, giocata sull’alternanza stilistica dei toni e sul plurilinguismo. La vocazione parodica non comporta comunque la corrosione etica dell’eroismo, sempre considerato sublime appannaggio dell’aristocrazia.
Modelli retorici e logica dell’azione
Dal punto di vista teorico la polemica intorno al genere epico riguarda la necessità di adattare lo schema classico dell’unità d’azione e dell’unico eroe alla tradizione moderna del poema romanzesco, con azioni diverse e molti personaggi.
Il compromesso pare quello in cui la materia cavalleresca, variamente distribuita in episodi secondari, viene riferita a un solo protagonista. In tal modo il racconto può assumere adeguata gravità morale, caricandosi di significati religiosi e storici: il mondo eroico rappresenta la perfezione umana e suscita ammirazione anche per il linguaggio poetico, elegante, sublime. La difficoltà implicita nell’attuazione dell’epica moderna viene avvertita in prima persona da Torquato Tasso, ossessionato dal senso di colpa per la “licenza del fingere” concessa al genere più autorevole della letteratura.
L’avversione al tono ironico e all’antiregolismo tipico di Ariosto determina una stato di ansia tra i letterati classicisti italiani, impegnati nel riprodurre in modo credibile i valori aristocratici, militari e religiosi attraverso eroi d’ispirazione tassiana. La trama ricorre identica quasi ovunque: un’impresa di conquista con eserciti contrapposti sostenuti dagli interventi soprannaturali; amori contrastati tra giovani di fedi rivali che si concludono infelicemente; eroi insidiati da perverse figure femminili. Non manca inoltre l’intenzione encomiastica che appesantisce la vicenda con rassegne genealogiche e richiami contemporanei a lode del potere ecclesiastico e politico.
Risultati generalmente mediocri ottengono Gabriello Chiabrera, Tommaso Stigliani, Scipione Errico, Nicola Villani, come pure i fedelissimi rielaboratori delle situazioni tassesche come Giovanni Leone Sempronio. Più fortunato il Conquisto di Granada di Girolamo Graziani, forse per l’attualità del conflitto arabo-cristiano e la concentrazione teatrale della vicenda.
Interessante risulta l’ipotesi etico-estetica proposta da Ansaldo Cebà, il quale tratteggia il ritratto ideale dello scrittore epico come sintesi di dottrina e virtù, tradotta stilisticamente nell’accomodamento della meraviglia al senso dell’eroico e del magnifico.
Il problema del linguaggio predomina sulle questioni contenutistiche, rivelando una crisi d’invenzione tale che il medesimo tema viene trattato indifferentemente da parte epica ed eroicomica: è il caso del mal francese che passa dalla Franceide di Giovan Battista Lalli al Mondo Nuovo di Stigliani.
Perversioni epiche
La mancanza di vera ispirazione determina il proliferare della digressione, ora macabra (il Tancredi di Grandi viaggia con la bara di Clorinda), ora sensuale (in quanto le donne guerriere pensano sempre più a esibire seduzione che eroismo).
Neppure il patetico-sentimentale degli innamorati riesce convincente, perché si mescolano incesti, insidie demoniache, malattie sessuali in Stigliani; visioni di nudità, amplessi e desideri repressi nella Babilonia distrutta di Errico.
La perversione del pensiero conduce alla ricerca concettista del linguaggio; prevale la tendenza marinistica con esiti talora interessanti per la poetica della descrizione: così i poemi di Gaspare Murtola, Cebà, Villani fondati sull’amplificazione ossessiva del “particolare” naturale e caratterologico.
L’influenza dell’epica cinquecentesca italiana si ravvisa in Germania con Wolfgang Helmhard von Hohberg, in Spagna con Bernardo de Balbuena, in Inghilterra con Abraham Cowley.
Si tenta pure la celebrazione eroica della storia contemporanea: scontri tra mori e cristiani nelle Guerre civili di Granada dello spagnolo Ginés Perez de Hita, la biografia sublime di sant’Ignazio redatta da Hernando Domínguez Camargo, l’omaggio al favorito di Filippo III, ossia Il Panegirico al Duca di Lerma di Luis de Góngora. Ma le costrizioni aristoteliche del genere epico vengono avvertite con insofferenza; continuando a inseguire l’ideale della grandeur e del “purismo” linguistico si finisce con l’essere caricaturali, almeno secondo quanto afferma il padre René Rapin riflettendo sulla ricezione della poetica di Aristotele da parte della lirica francese sino al 1674.
Il dispetto eroicomico
L’invenzione del genere eroicomico è dovuta ad AlessandroTassoni, il quale denuncia la crisi dell’eroico anticipando sul versante letterario la querelle des anciens et des modernes.
Con la Secchia rapita lo spirito caricaturale dell’autore aggredisce gli ideali cavallereschi, parodizzandoli in forma goliardica e giocosa, ma l’effetto è quello del compromesso aggregativo di un’intelligenza barocca incapace di condurre sino in fondo la “rivoluzione galileiana” dell’etica e della letteratura.
Gli umori indispettiti dall’aria falsamente grandiosa del secolo si cimentano nel ricalco burlesco delle situazioni eroiche (rassegne, duelli, battaglie); tra Francesco Bracciolini e Tassoni nasce una lunga discussione sulla paternità presunta del nuovo procedimento poetico, tanto più inutile in quanto esso non è altro che l’applicazione della teoria combinatoria di forme e linguaggi avviata da Battista Guarini con la tragicommedia.
Alessandro Tassoni
Sulla poesia
Dieci libri di pensieri diversi
Intorno alla poesia più c’è da contendere. Ella come altrove fu detto si divide in due parti, cioè rappresentativa e narrativa; e la rappresentativa gli antichi in due altre la divisero, comica e tragica. Ma i nostri hanno inventata una terza spezie, né comica né tragica, chiamata pastorale, sì che possiamo sicuramente dire, che oggi ella si divida in tre, cioè, comica, tragica e boschereccia. La narrativa in quattro spezie si divide: percioché, o spiega lodi divine e chiamasi innica o ditirambica; o narrazioni umane virtuose eccedenti l’uso comune, e chiamasi eroica; o biasima e motteggia i vizi, e chiamasi satirica; o descrive passioni ed affetti, e chiamasi melica, o lirica. E ciascuna di queste spezie ha certi suoi modi e versi particulari, essendo che senza versi già conchiudemmo, che non si possa far poesia. Alcuni nondimeno de’ nostri hanno queste spezie confuse insieme facendone risultare un misto, che a molti è piaciuto, come per esempio la tragicomedia pastorale del Guarino, e ’l poema di Dante, che potrebbe chiamarsi eroisatirico, poiché il suo Inferno non è altro che satira; e ’l Paradiso è tutto narrazione eroica mischiata d’innnica; e ’l Purgatorio è parte eroico, parte satirico. E noi ancora abbiamo con la nostra Secchia Rapita dato a divedere, che si può far poema eroicomico. Di maniera, che la poesia nostra quanto al suo tutto, viene a risultare più assai copiosa, che non era l’antica. Che quantunque alcuni degli antichi inventassero alle volte spezie diverse dalle già dette, non furono però lodate, né accettate come le nostre; e Aristotile nella sua Poetica non ne fe’ caso alcuno; ma quanto alla comica e tragica, io tengo i nostri poeti per molto inferiori a gli antichi: e credo in particulare che fin ora non sia stato ritrovato nella nostra favella verso a proposito né per l’una né per l’altra.
Commedie in versi, non abbiamo se non quelle dell’Ariosto, che meritino d’esser nominate. In prosa n’abbiamo veramente infinite, e molte ce ne sarebbono di perfette riguardando alla favola; ma perché mancano di numero poetico, mancano insieme del nome di poesie: e torto si farebbe a’ poeti veri, che usano il verso, anteponendo, o paragonando loro quelli che scrivono in prosa le medesime cose.
Delle tragedie similmente n’abbiamo di molte fatte da valent’uomini in altre professioni: ma in questa, o sia stata la loro poca fortuna, o l’imperfezione della nostra lingua nelle cose gravi, non ci è stato sin ora alcuno, che sia arrivato a segno di passar la mediocrità. Ma nelle pastorali all’incontro dove si richiede dolcezza e languidezza di stile, i nostri poeti hanno scritto con eccellenza tale, che non gli agguagliano le più ornate e leggiadre composizioni degli antichi.
Nella satira alcuni moderni si sono veramente avanzati, come l’Ariosto e ’l Caporali, ma alcuni altri hanno passato in eccesso tale di maldicenza e disonestà, che le loro poesie sono state proibite, come perniziose a’ buoni costumi.
Nella melica furono eccellentissimi i greci e i latini; ma certo non furono più eccellenti de’ nostri, percioché questa spezie di poesia richiede lo stile ornato e pieno di concetti e d’acutezze e di scherzi, in che la nostra lingua toscana mirabilmente fiorisce. Aggiungesi, che i poeti nostri hanno spogliate tutte l’altre lingue straniere delle più belle frasi e dei più vaghi concetti, e n’hanno arricchite in maniera le rime loro, che al presente la lirica poesia italiana non è altro, che una mirabil raccolta di tutte le bellezze poetiche, che non pur sono sparse in diverse lingue: ma che possono in tempo alcuno essere imaginate da qual si voglia gentile e spiritoso intelletto.
Rimane a dir dell’eroica: nella quale in tanti secoli i greci non ebbero altri degno di fama grande, che Omero, ne’ cui poemi non si può veramente negare, che oltre la vaghezza e bontà dello stile e del verso, non vi sieno parimente diverse altre bellezze, riguardando massimamente alla rozza età in ch’egli visse. Ma per la maggior parte sono pieni di sciapitezze di sorte, che l’imitarle al presente, sarebbe un farsi tener per leggiero, come fe’ il Tasso, che nella seconda Gierusalemme lasciò la prima favola per imitare Omero, e si rimase arenato.
I latini ebbero molti poeti eroici. Ma que’ loro Lucani e Stazi e Silli Italici, furono uomini poco più che mediocri; sì che l’eccellenza della poesia latina eroica tutta si ristrigne in Vergilio.
Ma noi lasciati alcuni altri di minor grido, abbiamo que’ due sovrani lumi della lingua e dell’età nostra, l’Ariosto e ’l Tasso, che l’invidia può bene in questa fresca età scuotere e travagliare; ma non farà già ella, che ne’ secoli, che verranno, non sieno illustri e gloriosi sopra tutti gli antichi: quantunque gli antichi non avendo per tanti secoli trovati competitori, si sieno andati avanzando ad un eccesso di fama tale, che ’l passare più oltre, paia richiedere ingegno sopraumano.
in C. Segre e C. Martignoni, Testi nella storia, Milano, Mondadori, 1992
Nella Secchia rapita, Tassoni sostiene di avere “mischiato” il “grave” con il “burlesco”, “imaginando che se ambidue dilettavano separati avrebbono eziandio dilettato congiunti e misti, se la mistura fosse stata temperata con artificio tale che dalla loro scambievole varietà tanto i dotti quanto gl’idioti avessero potuto cavarne gusto”: il fine edonistico della poesia, il desiderio di assecondare il gusto di un vasto pubblico, la mescolanza degli stili ricercata con tecniche attente a non eccedere la misura della letteratura registrano l’intenzione corrosiva nei confronti dei generi nobili tanto nella versione tragicomica quanto in quella eroicomica. Manca un’autentica forza alternativa al sistema di produzione-ricezione che si modella sul passato e sui suoi pregiudizi.
La produzione eroicomica italiana si distingue per la notevole consapevolezza stilistica; l’ottava epica accoglie nuove forme lessicali, variazioni metriche, schemi sintattici e ritmici vicini al parlato. Il travestimento basso-mimetico coinvolge Virgilio, autorità assoluta dell’epica, a opera di Lalli imitato in Francia da Paul Scarron con esiti assai più convincenti per umanità e misura realistica. Con Piero de’Bardi, Lorenzo Lippi e Ippolito Neri si avverte l’atmosfera della bambocciata, tra picaresco domestico, aneddotica cittadina e popolare. Il linguaggio gergale esprime il gusto dell’espressività deformante, ma la parodia non giunge mai agli azzardi della satira.
Virtù paesane
Sincera vocazione comica caratterizza l’opera di Giulio Cesare Croce, umile letterato italiano costretto a condurre la vita grama del cantastorie. Nel Bertoldo l’autore riesce a tracciare il contrasto tra mondo contadino e cortigiano, pur non approfondendo nessuna situazione sociale; puro divertimento il poliglottismo folclorico del Bertoldino che rivela il limite interpretativo del Croce, incapace di esprimere drammaticamente la voce della protesta popolare. Ancora più scarso l’effetto del Cacasenno con cui Adriano Banchieri prosegue la saga cittadina dei poveracci.
Giulio Cesare Croce
Battibecco fra Bertoldo e Fagotto
Le sottilissime astuzie di Bertoldo
Allora un parasito che stava appresso il Re, il quale serviva ancora per far ridere, e si chiamava Fagotto per essere egli uomo grosso, picciolo di statura, con il capo calvo, disse al Re: “Di grazia, Signore, fammi grazia ch’io ragioni un poco con questo villano, ch’io lo voglio chiarire”. Disse il Re a lui: “Fa’ quello che ti pare; ma guarda a non fare come fece Benvenuto, il quale andò per radere e fu raduto”. “No, no (rispose Fagotto), io non ho paura di lui”; e, volto verso Bertoldo, con un ceffo stravagante le disse:
FAGOTTO: Che dici tu, barbagianni caduto dal nido?
BERTOLDO: Con chi parli tu, allocco spennacchiato?
FAGOTTO: Quante miglia sono dal far della luna ai Bagni di Lucca?
BERTOLDO: Quanto fai tu dal calderone della broda alla stalla?
FAGOTTO: Per che cause fa la gallina negra l’ova bianche?
BERTOLDO: Per che causa il staffile del Re fa venire nere a te le chiappe di Fabriano?
FAGOTTO: Chi sono più, i Turchi, o gli Ebrei?
BERTOLDO: Chi sono più, quelli che tu hai nella camicia, o nelle brache?
FAGOTTO: Il villano e l’asino nacquero tutti e due a un parto istesso.
BERTOLDO: Il gnattone e il porco mangiano tutti due ad un’istessa conca.
FAGOTTO: Quant’è che tu non hai mangiato rape?
BERTOLDO: Quant’è che non t’è stato dato la coperta?
FAGOTTO: Sei tu un bufalo o una pecora?
BERTOLDO: Non mettere in ballo i tuoi parenti.
FAGOTTO: Fin quando starai tu a lasciar da parte le tue astuzie?
BERTOLDO: Quando tu lascerai stare di leccare i piatti di cucina.
FAGOTTO: Al villano non gli dar bacchetta in mano.
BERTOLDO: Al porco e alla rana non gli levare il fango.
FAGOTTO: Il corvo mai non portò nuova buona.
BERTOLDO: Il nibbio e l’avoltore vanno sempre dietro alle carogne.
FAGOTTO: Io sono uomo da bene e ben creato.
BERTOLDO: Chi si loda s’imbroda.
FAGOTTO: Il villano è un mal animale.
BERTOLDO: E l’adulatore è un brutto mostro.
FAGOTTO: Non fu mai villano senza malizia.
BERTOLDO: Non fu mai gallo senza cresta, né parasito senza adulazione.
FAGOTTO: Le tue scarpe hanno aperta la bocca.
BERTOLDO: Le ridono di te, che sei una bestia.
FAGOTTO: Le tue calze sono tutte rappezzate.
BERTOLDO: Meglio è avere rappezzate le calze, che il mostaccio come hai tu.
Aveva costui molti segni su la faccia, che gli erano stati dati per suo benemerito; dove che, sentendosi toccare sul vivo, né sapendo che si rispondere, venne rosso in viso come il fuoco, per vergogna, tanto più che tutta la corte cominciò a ridere di questo motto, onde cominciossi ad acchetare; e volontieri si saria partito, se quei cavalieri non l’avessero trattenuto.
Ma Bertoldo, che per aver ragionato assai aveva la bocca piena di saliva, né sapendo dove sputare essendo ornata la sala tutta e le pareti di panni di seta e d’oro, disse al Re: “Dove vuoi tu ch’ io sputi?” Disse il Re: “Va’, sputa in piazza”. Allora Bertoldo voltosi verso Fagotto, qual era tutto calvo, come già vi dissi, gli sputò in mezzo alla testa, onde costui alterato si querelò innanzi al Re dell’ingiuria fatta. Disse Bertoldo: “Il Re m’ha dato licenza ch’io sputi in piazza; e qual è la più bella piazza quanto la tua testa? Non si dice per proverbio: testa calva piazza da pidocchi? Ecco dunque ch’ io non ho fatto errore alcuno e che io ho sputato in piazza, secondo la commissione del Re”.
Tutta la corte diede ragione a Bertoldo, e Fagotto spazzandosi la zucca convenne avere pazienza; e avrebbe voluto esser digiuno di essersi mai impacciato con lui, e tutti n’ebbero gran piacere, perché costui faceva professione di bellissimo ingegno e dava delle canzoni a tutti, e ora non ardiva appena di alzare più gli occhi per vergogna, e fu quasi per andarsi a impiccare per il dispiacere. E perché era sera il Re accomiatò tutti i suoi baroni e disse a Bertoldo che tornasse da lui il dì seguente, ma che non fosse né nudo, né vestito.
G.C. Croce, “Le sottilissime astuzie di Bertoldo”, in Storia della letteratura italiana, a cura di E. Cecchi e N. Sapegno, Milano, Garzanti, 1968
Alla ricerca del tempo perduto
La letteratura eroicomica secentesca esprime nostalgia per ideali aristocratici perduti, senza proporre alternative in senso realistico e borghese. Anche quando esiste l’intenzione satirica, essa muove nel senso della conservazione. Così Carlo de’Dottori nell’Asino difende la serietà della vita nobiliare contro la degenerazione morale dell’eroismo contemporaneo; l’inglese Samuel Butler non riesce convincente nella caricatura indignata di Sir Hudibras, rappresentante dell’ipocrisia puritana. Né la vicenda parigina ritratta nel Leggio di Nicolas Boileau dimostra altro che garbata irriverenza verso la moderna vacuità delle dispute clericali.
Per esprimere sensibilmente una nuova civiltà umana, occorre l’esperienza viva del rapporto tra vita e letteratura, impegno etico ed estetico, quale si comincia ad avvertire alla fine del secolo. Ancora Gian Vincenzo Gravina ricerca modelli nel passato, ma non per ricavarne aride regole retoriche, bensì per alimentare l’ispirazione mitica avvalendosi di fantasie che rivelano il contenuto di verità dell’uomo; tanto nell’epica che nella tragedia greca egli riconosce attuata la funzione della poesia, quella di trasfigurare miticamente l’etica per agire sull’interiorità attraverso l’immaginazione. La modernità dimentica del passato produce effetti parodistici in quanto riproduce superficialmente l’apparenza esteriore della “felicità”; l’epica e l’eroicomico secenteschi sembrano davvero liquidati come caricature semiserie della letteratura.