EPIDEMIA (dal gr. ἐπιδημία, da ἐπί "sopra" e δῆμος "popolo")
Si dice epidemia la manifestażione collettiva d'una malattia che rapidamente si diffonde fino a colpire un gran numero di durata più o meno lunga. La parola epizoozia (dal gr. ἐπί "sopra" e ζῷον "animale") significa una manifestazione analoga in altra specie animale. Esempî: epidemie di colera, di febbre tifoide, di vaiuolo, d'influenza; e, similmente, epizoozie di canonchio ematico nei bovini e ovini, di mal rossino nei suini, ecc. Allorché il territorio colpito da una manifestazione morbosa collettiva è poco esteso, alla parola epidemia si sostituisce l'espressione focolaio epidemico. Se, per esempio, tutta una città o provincia o regione, o più città o provincie d'un grande paese, sono invase dal colera, seggiato o un rione urbano, si dice esservi in quella città un semplice focolaio epidemico. Per contrario, quando parecchi paesi d'uno o più continenti sono colpiti da una medesima a malattia epidemica, allora s'usa la parola pandemia. Memorabili sono le pandemie di lebbra al tempo delle crociate, e quella recente d'influenza che colpì quasi tutti i paesi del globo nel 1917-18. Le epidemie che insorgono in un territorio si distinguono, quanto alla loro provenienza, in importate e autoctone. Per l'Italia, e per l'Europa tutta, sono sempre importate da altri continenti le epidemie di morbi esotici, quali il colera, la peste, la febbre gialla: ma anche epidemie di morbi ubiquitarî possono essere importate, come sarebbe il dermotifo e il vaiuolo per l'Italia, che ne è libera da alcuni anni in qua. Le epidemie autoctone sono dovute a insolite e cospicue propagazioni d'una data malattia, della quale esiste sempre qualche caso nella regione che si considera. Così il morbillo, la scarlattina, la pertosse serpeggiano sempre in diversi paesi del mondo, e tutti gli anni se ne verificano, or qua or là, casi più o meno numerosi; ma, a intervalli di più anni, le dette malattie assumono un carattere eccezionalmente invasivo, e producono vere epidemie. Una malattia che persiste in un territorio dando sempre casi più o meno sporadici, ma che ogni anno, periodicamente, al ritorno d'una data stagione, colpisce un numero ragguardevole di persone, si dice malattia endemica; e si chiama endemia la rispettiva manifestazione morbosa collettivamente considerata, ed esacerbazione o recrudescenza epidemica il notevole aumento periodico del numero dei malati. La malaria, con le sue recrudescenze stagionali, si presta più d'ogni altra forma morbosa per intendere tali distinzioni.
L'origine delle epidemie fu attribuita nel mondo greco-romano a miasmi, ossia emanazioni; da (terreno o dall'acqua: tale concezione, che risale a Ippocrate, fu poi deformata a tal punto che s'ammisero i più strani influssi astrali, cosmici, demoniaci. M. v. Pettenkofer le restituì il carattere naturalistico, modificandola però profondamente e cercando di darle un fondamento sperimentale. L'idea d'Ippocrate e la teoria di Pettenkofer sono tramontate, sebbene a esse possano ancora riconnettersi i fatti ormai accertati intorno all'influenza indiretta che il terreno l'acqua, l'aria, le stagioni e i climi hanno sullo sviluppo delle epidemie. All'idea miasmatica si contrappone l'idea contagionistica, che sorta nelle più antiche civiltà orientali, fu poi oscurata dall'idea miasmatica e dalle sue deformazioni, ma ritornò in onore in Varrone e Columella, e meglio s'affermò nel Medioevo. Chi definì e intese il contagio nel modo come oggi s'intende fu Girolamo Fracastoro. L'era microbiologica dischiusa da L. Spallanzani e da A. Bassi, e portata al suo fastigio da L. Pasteur e da R. Koch, permise di riconoscere come cause dei contagi diversi microrganismi e d'accertarne sperimentalmente l'azione patogena specifica (v. batteriologia).
Le epidemie si propagano per contagio diretto o indiretto. Direttamente dal malato o convalescente al sano, o anche da persone sane che, senza ammalare esse stesse (portatori sani di virus ossia di microbî patogeni) possono trasmettere il contagio, comunque contratto, a persone sane che ne ammalano. Indirettamente i microbî vengono trasmessi per mezzo di oggetti diversi contaminati, del pulviscolo atmosferico, dell'acqua, del terreno, di alcuni alimenti, o di piccoli animali, come le mosche: tutti questi sono semplici veicoli d'infezione. Tra le forme indirette di propagazione va messo in particolare evidenza l'intervento di Artropodi diversissimi, i quali s'infettano pungendo i malati, e dopo parecchi giorni, durante i quali i microbi si moltiplicano, diventano capaci di trasmettere l'infezione a persone sane, sempre mediante puntura. Tali sono varie specie di zanzare, appartenenti al genere Anopheles, nei riguardi della malaria; il Pediculus vestimenti nel dermotifo; la mosca tze-tze nella tripanosomiasi o malattia del sonno, ecc. Gli Artropodi capaci d'operare siffatta trasmissione si chiamano vettori. Gli uomini malati o comunque infetti, e i vettori, nei quali i microbî patogeni si moltiplicano, costituiscono le fonti o sorgenti d'infezione, per contrapposto ai ricordati veicoli che sono trasportatori passivi di quel tanto di microbî onde sono contaminati. V'è qualche epidemia il cui sviluppo iniziale si riconnette a una epizoozia. Così la peste bubbonica è malattia non dell'uomo soltanto, ma anche, e più, dei murini, specialmente dei ratti; e quando tale malattia assume un andamento epizootico fra questi animali, può scoppiare fra gli uomini un'epidemia di peste, per mezzo delle pulci, che trasmettono il bacillo del ratto all'uomo. L'epidemia così iniziatasi si sviluppa poi per trasmissione del bacillo pestoso da uomo a uomo, sia ancora per mezzo delle pulci, sia in altri modi. Le epidemie possono estinguersi spontaneamente, per cause diverse, non ancora ben chiare, e possono essere abbreviate con sistemi di adatte misure difensive (v. profilassi).
Fra le cause delle epidemie, oltre alle ricordate, che si dicono dirette, e che talora non bastano per sé sole a produrre le epidemie, vi sono le cause indirette, le quali concorrono a suscitarle o ad aggravarle. Tali sono le cause individuali od organiche (predisposizione costituzionale, stato di nutrizione, ecc.); le fisiche, di luogo e di tempo (climi, stagioni, ecc.); le sociali (condizioni culturali ed economiche, agglomeramento, approvvigionamenti idrici, fognature, ecc.).
Dal fin qui detto si potrebbe supporre che il significato di epidemia sia ristretto alle manifestazioni morbose collettive di natura infettiva, ossia. causate da microbî. Ma si parla d'epidemie anche nel caso di malattie prodotte da esseri superiori: basta ricordare l'anemia epidemica che colpì i minatori del traforo del Gottardo nel 1880, e che è causata da un verme, l'anchilostoma. A ciò conviene aggiungere che spesso si dice essere il beri-beri e la pellagra malattie endemiche con esacerbazioni epidemiche, nonostante che queste due malattie non siano dovute né a microbî né a macroparassiti. Tenendo presente tale uso terminologico, si giustifica l'idea di coloro che dànno alla parola epidemia un significato più largo, quale è espresso nel principio di questo articolo.
L'epidemiologia è la scienza osservativa e sperimentale che studia le cause, le sorgenti e i veicoli delle malattie epidemiche, i modi coi quali le epidemie insorgono, si propagano e s'estinguono, i loro effetti demografici ed economico-sociali. L'epidemiologia costituisce una cospicua parte della patologia sociale la quale, oltre alle epidemie, studia le malattie cosiddette sociali, quali la tubercolosi, l'alcoolismo, i tumori maligni, ecc.
Bibl.: A. Corradi, Annali delle epidemie dalle prime memorie al 1850, Bolonga 1865-1883; A. Hirsch, Handbuch der historisch-geographischen Pathologie, Stoccarda 1881; A. Celli, Epidemiologia, in Manuale dell'igienista, Torino 1911; A. Grotjan, Soziale Pathologie, Berlino 1923; C. Dopter e V. de Lavergne, Epidémiologie, in L. Martin e G. Brouardel, Traité d'Hygiène, Parigi 1925; Epidemiologia generale e speciale, a cura di varî autori, in Trattato italiano d'igiene, diretto da O. Casagrandi, Torino 1930.