Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel Cinquecento l’Europa è colpita da numerose epidemie, spesso causate dalle continue guerre, di cui l’Italia è il teatro principale. Peste, sifilide, tifo e influenza decimano una popolazione malnutrita che in gran parte vive in condizioni igieniche precarie. In Italia, prima che altrove, le autorità pubbliche creano uffici di sanità, magistrature – che da temporanee divengono permanenti – aventi il compito di controllare le condizioni igieniche della città e di mettere in atto misure di profilassi nel caso di epidemie. Una nuova teoria sull’origine della peste e della sifilide è elaborata dal medico veronese Fracastoro, che attribuisce le malattie epidemiche al propagarsi di semi, agenti specifici del contagio. L’aumento, soprattutto nelle città, del numero di coloro che fanno ricorso a cure mediche favorisce il diversificarsi dei soggetti che esercitano la medicina. Oltre che dai medici addottorati, la medicina è praticata da una pluralità di figure (speziali, barbieri-chirurghi, empirici itineranti, ciarlatani), la cui opera è controllata e regolamentata dalle autorità mediche e politiche.
Le epidemie
Dopo la pandemia del Trecento (detta Morte Nera), la peste (malattia dall’elevatissimo tasso di mortalità) colpisce a più riprese, fino alla metà del XVIII secolo, soprattutto le aree a più alta concentrazione urbana e le città portuali. Nel Cinquecento, e in particolare negli anni Sessanta e negli anni Novanta, le maggiori città europee sono teatro di frequenti epidemie di peste, che arriva in Europa dall’Est attraverso le rotte commerciali e si trasmette soprattutto per mezzo delle pulci dei ratti. Durante la guerra dei Trent’anni (1618-1648) si ha una recrudescenza di ondate epidemiche, la più nota delle quali è quella del 1630, descritta dal Manzoni nei Promessi Sposi.
Altro flagello della società europea – anche se meno letale della peste – è la sifilide, che molto probabilmente fa il suo ingresso in Europa con i marinai di Colombo di ritorno dal Nuovo Mondo, dove si osserva la sua endemicità. Dalla Spagna giunge in Italia quando le armate spagnole difendono Napoli dall’assedio francese di Carlo VIII; i soldati francesi ne provocano poi la diffusione a nord delle Alpi. Molto spesso, più ondate epidemiche di diverse malattie si sovrappongono, soprattutto in tempo di guerra e in occasione di gravi carestie, quando le condizioni igieniche peggiorano e le difese immunitarie si indeboliscono. Il tifo esantematico (o petecchiale), che è trasmesso all’uomo dal pidocchio, si diffonde soprattutto negli accampamenti, ed è per questo chiamato “tifo castrense”. Nel Cinquecento si registrano in Europa le prime pandemie influenzali, la più nota delle quali, quella dell’estate 1580, giunge dall’Asia Minore in Sicilia per poi diffondersi nella penisola e poi in Europa con le truppe spagnole. Coloro che sono affetti da influenza sono per lo più trattati con la flebotomia e con emetici, rimedi che in realtà indeboliscono il paziente provocando un aumento del numero dei decessi. Nel Cinquecento il vaiolo è presente in gran parte dell’Europa ed è introdotto nel Nuovo Mondo causando la morte di un numero elevatissimo di amerindi. Per molti secoli, e in particolare tra Cinque e Seicento, la malaria ha un forte impatto soprattutto in Italia, probabilmente poiché in questi anni un numero crescente di coloni si sposta dalle zone collinari e montane verso le pianure alla ricerca di terre da coltivare. La malaria è presente in molte zone della penisola, in particolare nella valle dell’Adige, nel delta del Po, nelle zone tirreniche maremmane, nella campagna intorno Roma, sulla costa laziale e nelle grandi isole. L’origine della malaria è ricondotta – secondo una tradizione medica consolidata – all’aria corrotta che proviene dalle paludi e più in generale dalle acque stagnanti, nonché ai vapori prodotti dal calore del sole. Si tentano bonifiche, ma i risultati sono molto modesti: ampie aree della penisola sono abitate da una popolazione contadina debilitata, rada e con breve speranza di vita, non poche sono le aree quasi disabitate. Unico rimedio contro le febbri malariche è la polvere della corteccia di china (un alcaloide con proprietà antipiretiche), il cui commercio è a lungo controllato dai gesuiti.
Miasmi e semi
La peste, come altre malattie aventi il carattere di epidemicità e letalità, presenta caratteristiche difficilmente interpretabili per mezzo della medicina umorale. Secondo le teorie mediche ippocratico-galeniche, all’origine della malattia vi è un’alterazione degli umori, del loro equilibrio, nonché del rapporto tra complessione e ambiente. Per i medici tradizionali è difficile spiegare perché allo stesso tempo il morbo colpisca persone di diversa costituzione e perché alcune sopravvivano e altre no. Nella medicina antica, si ritiene che le pestilenze abbiano origine da una corruzione dell’aria prodotta da miasmi che provengono dall’interno della terra, da cadaveri putrefatti o da acque stagnanti. Mel Medioevo e ancora per tutto il Cinquecento alla teoria miasmatica si affiancano spiegazioni astrologiche, che attribuiscono agli influssi astrali l’origine delle epidemie: congiunzioni planetarie, eclissi e passaggi di comete contribuiscono alla corruzione dell’aria e alla generazione di miasmi velenosi. Il differente decorso della malattia nei pazienti è attribuito alla disposizione degli umori o allo stato di salute. Il medico veneziano Niccolò Massa (1499-1569) ritiene che la peste colpisca soprattutto coloro che per vizi o per miseria non seguono le regole della buona alimentazione e della corretta conservazione del corpo. Il medico veronese Girolamo Fracastoro si differenzia dai medici tradizionali affermando che il contagio è effetto di un contatto, che può essere di tre specie: diretto, per fomite (per esempio indumenti) o a distanza, ovvero con l’esalazione nell’aria di corpuscoli. All’origine dell’infezione vi sono particelle invisibili, i semi del contagio, che esalano da un corpo infetto e penetrano in un altro corpo, indipendentemente dalla sua complessione. La medicina del tempo non consente – salvo rari casi – di identificare con precisione le differenti malattie contagiose, che sono spesso catalogate in base alla loro letalità. Lo stesso Fracastoro, autore di un importante trattato sulla sifilide, ritiene che febbri non pestilenziali possano divenire pestilenziali a causa del deterioramento dell’ambiente o della salute del paziente. I primi a proporre una dottrina della specificità eziologica della malattia sono Paracelso e i suoi seguaci.
Misure di profilassi e strutture sanitarie
Oltre a ragioni naturali, cause di carattere soprannaturale sono addotte per render conto dell’esplosione delle epidemie, ritenute un segno dell’ira di Dio che le ha inviate per punire i peccatori – individuati per lo più nei poveri, nelle prostitute, negli usurai e negli ebrei. Per proteggersi, le comunità fanno ricorso a preghiere, processioni, reliquie sacre e all’invocazione dei santi, in particolare dei santi protettori dalla peste, Antonio, Sebastiano e soprattutto san Rocco – il cui culto si diffonde tra Quattro e Cinquecento. Salvo alcune eccezioni (come nel caso in cui le processioni sono vietate poiché favoriscono il contagio), la Chiesa, le confraternite e le autorità politiche e mediche collaborano per proteggere la popolazione dalle epidemie. L’inefficacia delle terapie tradizionali spinge la popolazione a ricercare antidoti in amuleti, pietre preziose e minerali; ma la miglior difesa contro le pestilenze si dimostrano la prevenzione e l’isolamento.
Già in occasione della Morte Nera del Trecento, nelle città italiane sono istituiti uffici con il compito specifico di fronteggiare l’epidemia. Tra Quattro e Cinquecento, questi uffici divengono permanenti a Milano, Venezia, Genova e Firenze e progressivamente in altri centri dell’Italia centro-settentrionale (ma solo nel secolo XVII nel resto dell’Europa). Gli Uffici di Sanità hanno il compito di controllare le condizioni igieniche delle città, e acquisiscono sempre maggiori funzioni e poteri, anche in assenza del morbo. Gli Uffici estendono i controlli alle derrate alimentari, ai luoghi pubblici, alle abitazioni private, agli scarichi di macellerie e concerie, agli alberghi, agli ospedali; in occasione di epidemie stabiliscono una rete di comunicazione tra le varie città con il costante invio di informazioni. La città in cui si verificano i casi di infezione è isolata, la segregazione applicata a persone e merci; gli individui sospettati di essere infettati dalla peste sono rinchiusi nei lazzaretti – di solito strutture temporanee costruite fuori città.
Accanto ai luoghi più tradizionali di cura, quali negozi e abitazioni private, l’ospedale si afferma, in un primo tempo nei principali centri urbani dell’Italia centro-settentrionale, quale luogo di cura specializzata, non più luogo di ricovero di poveri e bisognosi. Dalla metà del Quattrocento, gli ospedali (all’origine strutture assistenziali di carattere ecclesiastico) cominciano a essere amministrati dallo Stato, mentre l’assistenza continua a essere religiosa. Negli ospedali sono per lo più ricoverati poveri (i benestanti si curano in casa), vi operano medici e chirurghi, alcuni dei quali risiedono nel complesso ospedaliero. Sorgono ospedali dedicati al trattamento di patologie specifiche, nonché ospedali per i malati cronici, come gli Ospedali degli incurabili a Napoli e a Venezia. Nel Rinascimento gli ospedali italiani, come Santa Maria Nuova a Firenze e l’Ospedale Maggiore di Milano divengono modelli per gli ospedali che si costruiscono oltralpe. Un esempio è il Savoy Hospital di Londra – fondato da Enrico VII e inaugurato nel 1512 –, che si ispira a Santa Maria Nuova sia per le strutture che per gli ordinamenti.
La pratica medica
Nelle maggiori città europee sorgono i Collegi dei medici e il Protomedicato, aventi il potere di giurisdizione sulla pratica medica: conferiscono la licenza di praticare la professione, controllano l’attività degli speziali, impediscono, almeno nelle città, l’esercizio illecito dell’arte medica e puniscono casi di malapratica. I Collegi, spesso un’evoluzione delle corporazioni, sono formati da un’élite di medici addottorati, che in alcuni casi (come a Bologna) controlla anche l’insegnamento medico universitario. I primi Collegi nascono in Italia: a Firenze e a Venezia alla fine del XIII secolo, a Roma alla fine del XV, mentre a Londra nel 1518. A Parigi la regolamentazione dell’attività medica è esercitata direttamente dalla facoltà di Medicina, e solo alla fine del XVI secolo il Protomedico del re assume il compito di disciplinare la pratica medica. A Montpellier, all’inizio del Seicento nasce il Collegio dei medici, assumendo i compiti di controllo prima riservati alla facoltà di Medicina.
La medicina è esercitata da un insieme variegato di soggetti, che offrono la propria opera a un “mercato della cura” che, soprattutto nelle città, è sempre più ampio e differenziato. Il medico physicus, formatosi nell’università, visita i pazienti più abbienti nelle loro abitazioni, segue un itinerario codificato dalla semeiotica medica, che prevede essenzialmente l’osservazione del polso e delle urine. L’attività terapeutica del medico è talvolta integrata dal ricorso a consulti, ovvero risposte a richieste di pareri inviate dal medico curante a altri medici. Le cure prevedono la somministrazione di farmaci, flebotomia, indicazioni per correggere dieta e regime di vita del paziente. Oltre al medico dotto, la medicina è praticata da chirurghi, barbieri, speziali, ciarlatani, levatrici, membri del clero, curatori e curatrici del popolo. I chirurghi non si occupano di malattie interne (competenza del medico addottorato), ma trattano con le mani, con i ferri e con il fuoco patologie “esterne”: ferite, lussazioni, fratture, bruciature, tumori e malattie della pelle. Il chirurgo acquista crescente prestigio, e, soprattutto in Francia e in Italia, comincia ad acquisire un’istruzione universitaria. L’attività del chirurgo tende a specializzarsi in funzione dei tipi di operazione e ambito di attività, per esempio i litotomi sono specialisti dell’estrazione dei calcoli della vescica, i “norcini” della castrazione dei giovani destinati al canto, i chirurghi attivi presso gli eserciti del trattamento delle ferite da arma da fuoco. Figura di spicco della chirurgia rinascimentale è il francese Ambroise Paré, primo chirurgo del re Enrico II, cui si deve la produzione di un nuovo unguento per la cicatrizzazione delle ferite, e la pubblicazione di numerose opere di chirurgia destinate a dominare la disciplina per almeno un secolo. Accanto al chirurgo “dotto”, che talvolta esegue anche dissezioni, opera il barbiere-chirurgo, che cura ferite semplici, lussazioni, esegue il salasso e tratta i sintomi cutanei di malattie infettive. Un importante ruolo nella medicina del Rinascimento è quello dello speziale, cui compete la preparazione di farmaci, sia semplici sia composti. Con l’arrivo di nuove piante provenienti da varie parti del mondo e con il crescente impiego della chimica nella preparazione dei farmaci, lo speziale deve acquisire competenze sempre più sofisticate. La formazione dello speziale prevede un lungo periodo di apprendistato seguito da un esame. Nel corso del XVI secolo la categoria degli speziali comincia a darsi un’organizzazione in Collegi. Le spezierie non sono solo luoghi in cui si vendono farmaci e spezie, ma anche luoghi in cui si praticano cure, si svolgono esperimenti chimici e si scambiano informazioni di carattere intellettuale e politico. Alcuni speziali come Francesco Calzolari e Ferrante Imperato, che esercitano la professione con successo rispettivamente a Verona e a Napoli, acquistano un notevole prestigio sociale e intellettuale, svolgono ricerche di storia naturale e creano collezioni naturalistiche la cui fama si diffonde in tutta la penisola. La produzione dei farmaci è (almeno in teoria) disciplinata dalle farmacopee, raccolte di rimedi e sostanze ufficialmente ammessi in una città. La prima è pubblicata a Firenze nel 1498 (Ricettario fiorentino), a metà Cinquecento tutte le maggiori città italiane hanno la propria farmacopea; nel 1564 è pubblicata la farmacopea di Augusta e all’inizio del Seicento quella di Londra.
Altra categoria di guaritori è quella dei ciarlatani, venditori ambulanti di medicamenti, che pubblicizzano i propri rimedi con spettacoli, canti e ballate ed esercitano anche l’arte chirurgica. I ciarlatani sono tollerati dalle autorità mediche, che concedono l’autorizzazione a svolgere le loro attività previo controllo dei rimedi e pagamento di un canone. La presenza femminile è particolarmente significativa tra coloro che praticano medicina ai margini della medicina ufficiale. L’attività delle levatrici è sottoposta a un rigido controllo da parte dell’autorità civile e religiosa, soprattutto per impedire aborti o la somministrazione di cure non ammesse dall’autorità medica.