Epidemie
Il termine 'epidemia' è antico, poiché ricorre spesso già negli scritti ippocratici dell'antica Grecia: conformemente alla sua etimologia, esso designa un flagello che si abbatte su un popolo, e in questo senso lo si è utilizzato per più di venti secoli. Tuttavia molte cose sono cambiate dai tempi di Ippocrate e, con l'intervento di numerose discipline, il termine ha anche assunto dei significati derivati; la medicina ha spiegato le cause e alcuni meccanismi di propagazione del flagello, la demografia e la statistica sono in grado di valutarne l'incidenza sulla popolazione, la storia e la sociologia interpretano meglio di prima le cronache dei tempi passati e i comportamenti attuali. Tutte queste scienze hanno contribuito a creare un'immagine nuova delle epidemie.
Per essere esatti, un'epidemia si verifica quando una malattia infettiva colpisce un gran numero di individui di una determinata popolazione in un arco di tempo molto breve. In questo senso l'epidemia si contrappone all'endemia, che designa invece il ripetersi di episodi morbosi in un piccolo numero di individui. L'epidemia è brutale, improvvisa, massiccia, spettacolare e temporanea, mentre l'endemia è costante e passa facilmente inosservata. Si registrano le epidemie di peste o di colera, mentre l'endemia malarica viene considerata banale e normale, soprattutto tra i popoli che ne ignorano le modalità di trasmissione.In realtà la distinzione non è così netta: endemie note da secoli possono dar luogo ad accelerazioni eccezionali di tipo epidemico, come è avvenuto, per esempio, per la malaria in Madagascar nel 1988.
In questa trattazione ci si limiterà a prendere in esame le epidemie di natura infettiva, ma questa nozione, semplice in apparenza, deve essere precisata. Con la batteriologia di Pasteur si era diffusa l'idea ingenua che ogni malattia epidemica fosse legata a un microbo (la febbre tifoide al bacillo di Eberth, la tubercolosi a quello di Koch), e che contro ciascuno di questi batteri fosse possibile creare un vaccino in grado di eliminare l'infezione.Le cose si sono complicate con il progredire delle conoscenze. Da un lato si sono scoperti batteri filogeneticamente più complessi, ad esempio microrganismi come la spirocheta della sifilide o l'ematozoo della malaria, contro i quali si stanno ancora studiando i vaccini. Dall'altro, alcune epidemie vengono ormai attribuite a strutture viventi più rudimentali, come i virus. Più difficili da isolare, da identificare e da coltivare che non i batteri, i quali hanno genomi e metabolismi caratteristici, buona parte dei meccanismi vitali dei virus ancora ci sfuggono, e la loro labilità contraddice il principio della fissità delle specie.Infine, per complicare ulteriormente le nostre idee di un tempo, i virus possono introdursi nelle cellule viventi e indurne la trasformazione, dando così origine nell'organismo umano a fenomeni ben diversi da quelli delle infezioni, per esempio alcuni tumori. Il confine tra le malattie tipicamente infettive e le altre si fa quindi sempre più incerto.
Poiché l'uomo ha sempre bisogno di spiegazioni, ha inventato delle cause per le epidemie. L'antica Mesopotamia prima, poi il Vecchio Testamento e, sulla sua scia, il Medioevo cristiano vedevano nell'epidemia un'azione divina diretta a punire gli uomini per la loro incredulità, i loro vizi e i loro peccati. Secondo gli Egiziani e i medici ippocratici, più razionalisti, le epidemie erano causate dall'aria malsana o dalle acque insalubri proprie di alcune regioni, oltre che dalle condizioni climatiche sfavorevoli e dall'influenza sulla terra di alcune congiunzioni degli astri; quando queste condizioni interessavano un'intera regione, veniva generalmente colpita tutta la popolazione.
Tuttavia, fin dal Medioevo, alcuni medici arabi come Ibn Khatima e Ibn-al-Khatib ritenevano che, per dar luogo a un'epidemia, fosse necessario che degli animali microscopici, degli 'spiriti' sottili, potessero passare da una persona all'altra, e che in questo modo il malato contagiasse il suo vicino. Nel XVI secolo Girolamo Fracastoro, illustre medico italiano, era dello stesso avviso. Su quest'idea semplicistica si basarono per più di mille anni le misure preventive; si trattava di una convinzione ampiamente diffusa nel popolo, ma, in mancanza di prove, gli scienziati l'accettarono unanimemente solo sul finire del secolo scorso, nonostante Vuillemin avesse dimostrato - a metà dell'Ottocento, trent'anni prima che Koch ne isolasse il bacillo specifico - che era possibile il passaggio della tubercolosi da un individuo a un altro.
Sappiamo che in periodo di epidemia i bambini contraggono con facilità a scuola numerose malattie esantematiche: scarlattina, varicella, morbillo, orecchioni, ecc. Si tratta, in questo caso, di contagio diretto, ma vi sono altre forme più complesse di propagazione delle malattie.
Una popolazione che beve acqua inquinata e vi cuoce i suoi alimenti va soggetta a un contagio di tipo indiretto: si trasmettono così il colera, le febbri tifoidi, vari tipi di diarrea, la poliomielite, confermando il ruolo patogeno attribuito da Ippocrate ad alcune acque. Le modalità errate di preparazione del cibo sono all'origine delle infezioni tossico-alimentari collettive, di recente ingresso nella civiltà urbana e industriale. La bilharziosi, ad esempio, si contrae attraverso il contatto con acque contaminate.
Il contagio indiretto può avvenire anche per altre vie. Il mondo vivente si riproduce grazie a un parassitismo generalizzato: i virus possono penetrare nei batteri, i cui metabolismi sono necessari ai vegetali, a loro volta nutrimento degli erbivori indispensabili ai carnivori. Ogni specie vivente può rivelarsi pericolosa per un'altra e, pur senza essere essa stessa ammalata, può trasmettere un germe, per lei inoffensivo, a un'altra specie per la quale si rivelerà deleterio: ad esempio l'anofele non soffre di malaria, ma la trasmette all'uomo con la sua puntura; la pulce è vettrice della peste e il pidocchio del tifo esantematico; questi insetti vettori sono gli agenti del contagio.Infine vanno ricordate le zoonosi, malattie che colpiscono gli animali e possono colpire anche l'uomo, sia attraverso la semplice vicinanza (come avviene per la morva dei cavalli), sia attraverso l'alimentazione (si pensi a innumerevoli parassitosi, come la trichinosi, i vermi intestinali, la cisti da echinococco, ecc.).
La migliore conoscenza delle forme di contagio non spiega però, riprendendo la vecchia logica ippocratica, perché, nel corso di un'epidemia, non soccombono tutti gli individui. Nel Medioevo tutti avevano le pulci, vettrici della peste, e tuttavia alcuni individui sono sopravvissuti; non tutti coloro che bevono l'acqua del Gange muoiono di colera.Possono entrare in gioco numerosi fattori, dei quali non conosciamo tutti i meccanismi. Il contagio stesso ha la sua importanza, poiché la quantità di tossine o di microbi che penetrano nell'organismo varia a seconda delle circostanze. Soprattutto, gli organismi umani oppongono alle aggressioni resistenze variabili: si è spesso constatato in un'epidemia che i bambini, i vecchi, le persone indebolite o denutrite soccombono più facilmente degli altri. Peraltro certi individui, a proposito dei quali si dice che 'si difendono meglio', possono presentare un'immunità naturale nei confronti del virus, sia che l'abbiano ereditata dai genitori (ed è quindi di origine genetica), sia che l'abbiano acquisita dopo un primo attacco superato. Infatti, è noto da tempo che molte di queste malattie non colpiscono per due volte il medesimo individuo.
In una collettività gli uomini sono ineguali dinanzi alla malattia. Nel corso dei secoli le epidemie hanno esercitato una selezione degli uomini più resistenti, i quali hanno trasmesso la loro resistenza ai discendenti. Inoltre, le popolazioni che vivono in una zona di endemia o di epidemie ripetute acquisiscono una certa immunizzazione nei confronti della malattia: ad esempio un esquimese, se contrae la febbre gialla o la malaria in Africa, morirà più facilmente di un africano.Non pochi fenomeni ancora ci sfuggono. Ad esempio, le 'immunizzazioni incrociate' sono probabilmente più frequenti di quanto non si creda: ne è un esempio tipico la vaccinazione contro il vaiolo, poiché riesce a proteggere l'uomo dalla malattia introducendo nell'organismo un vaccino che non è altro che il germe di questa zoonosi.I 'fattori di rischio' sulla terra sono quindi molto vari e vi sono tra gli uomini 'gruppi a rischio' più esposti degli altri.
Negli ultimi secoli gli uomini si sono molto spostati sulla superficie della terra, i mezzi di trasporto si sono perfezionati, si sono sviluppati gli scambi commerciali e turistici, i popoli conquistatori hanno occupato nuove terre, ma ovunque i nuovi venuti si portavano dietro i germi di malattie fino allora ignorate dagli indigeni.Ormai né la peste né il colera sono più tipici dell'Asia, dato che si sono propagati in Europa e in Africa a più riprese; nel XVI e nel XVII secolo gli europei hanno diffuso in America malattie che vi erano sconosciute, e le hanno poi portate, nel XIX secolo, negli arcipelaghi scarsamente abitati del Pacifico.
Attualmente, alla fine del XX secolo, gli individui che vivono in prossimità degli aeroporti occidentali possono soccombere per una malaria imprevista portata per via aerea dagli anofeli.I virus ignorano le frontiere politiche tracciate dagli uomini, e si è potuto quindi parlare di internazionalizzazione delle malattie. L'idea ha fondamento, ma entro certi limiti: la geografia medica mantiene una sua validità, e l'uomo sarà sempre soggetto a determinate malattie a seconda del luogo in cui vive.
Abbiamo già parlato di quelle forme indirette di contagio che necessitano di un insetto vettore perché il virus passi da un uomo all'altro. Ora, se i virus e i batteri hanno poche esigenze rispetto all'ambiente in cui vivono, in quanto organismi con bisogni limitati (la loro 'nicchia ecologica' è molto ampia), gli insetti hanno una maggiore specificità.
Un virus può trasmettersi attraverso numerosi tipi di zecca, ma non tutti; ogni insetto può vivere solo in una nicchia ben precisa, caratterizzata dall'ambiente vivente del quale si nutre, e da determinate condizioni fisiche di temperatura, umidità, insolazione, ecc. Inoltre, a germi come il plasmodium della malaria non è sufficiente, per compiere il loro ciclo riproduttivo, qualsiasi anofele, ma hanno bisogno di una specie particolare che, anch'essa, non può vivere dovunque.Gli anofeli che vengono in Europa a contagiare individui che non si sono mai mossi dal loro paese non vi hanno reintrodotto la malaria perché non hanno trovato nel continente condizioni favorevoli.
Allo stesso modo, si sono dovuti lamentare in Europa decessi per febbri emorragiche dovute a virus trasmessi da zecche africane (febbre di Eboli o di Marburgo), ma queste zecche, abituate alla savana, non si adattano alle nostre foreste: di tutte le specie viventi, soltanto l'uomo è in grado di adattarsi a qualsiasi nicchia ecologica.
Il pericolo di una mondializzazione delle epidemie ha quindi i suoi limiti biologici, ma non per questo l'uomo può sentirsi per sempre e del tutto tranquillo: basta che mutino le condizioni climatiche di un territorio, che un virus modifichi una parte della propria struttura molecolare, che si trasformi in misura minima la natura chimica della membrana di un batterio, perché l'uomo possa essere colpito da malattie fino a quel momento sconosciute. Tali eventualità non sono soltanto teoriche, ma è molto probabile che si siano verificate in passato, poiché il resoconto delle epidemie finora affrontate dall'uomo è ancora pieno di enigmi storici e biologici.
Come qualsiasi altra specie vivente, l'uomo non può sfuggire a quei terribili periodi di forte mortalità che sono stati designati con il termine di 'epidemie'. Da un secolo egli è in grado di attribuire a ciascuna di esse un nome preciso a seconda della natura dei sintomi (febbre gialla o vomito nero, tifo, cioè profonda astenia), dell'ambiente che ne facilita la diffusione (malaria o febbre delle paludi), delle lesioni riscontrate (tubercolosi per via dei tubercoli scoperti nei polmoni con le autopsie), e di spiegarle ognuna con l'azione di un germe.
Ma questa possibilità di definizione, risultato di nuovi procedimenti di osservazione della natura e di sperimentazione, non può applicarsi ai millenni trascorsi, né possiamo attribuire alle epidemie del passato diagnosi formulate nella terminologia medica attuale. Inoltre l'uomo ha acquisito solo da due o tre secoli a questa parte il gusto di precisi censimenti statistici e non possiamo quindi aspettarci dai nostri antenati indicazioni esatte relative alla morbilità e alla mortalità causata dalle epidemie dalle quali essi sono stati colpiti. Una retrospettiva storica delle grandi crisi è comunque possibile, tenendo presente che si impongono sempre delle riserve per quanto riguarda sia la natura della malattia che le sue conseguenze.
Un altro problema di difficile soluzione è sapere se nei secoli passati si sia sofferto dei nostri stessi mali. A grandi linee, per i germi più evoluti come gli ematozoi o i plasmodi e anche per alcuni batteri, la risposta è positiva, almeno per gli ultimi quattro millenni, mentre non abbiamo alcuna certezza per le specie viventi più rudimentali, come i virus (è un problema su cui torneremo più avanti).Possiamo perciò affermare che, in una certa misura, la patologia dei grandi flagelli ha dimostrato una considerevole continuità nella sua natura. Si può anche osservare che queste malattie sono spesso coesistite, dato che un'epidemia può sopraggiungere contemporaneamente a un'altra, dovuta a un altro germe, o succederle. Tuttavia, non foss'altro che a titolo di promemoria e per semplificare le descrizioni, possiamo attribuire uno o due tipi di epidemie a ogni grande periodo della storia.
Gli scritti dell'antichità accennano tutti a grandi flagelli che hanno portato alla scomparsa improvvisa di migliaia di persone: se ne trova traccia sia nei testi geroglifici egiziani che in quelli cuneiformi della Mesopotamia; le epidemie hanno infierito anche durante la guerra di Troia, durante le guerre condotte dal popolo d'Israele e, secondo quanto narrano le cronache, anche nell'antica Cina.
Tuttavia ci troviamo in difficoltà nel definire la natura esatta di quelle epidemie. L'approccio clinico del tempo non era quello di oggi, i sintomi della malattia non erano precisi, e anche gli autori greci o latini avevano a disposizione solo termini molto generici come λοιμόϚ o pestis per designare queste febbri epidemiche. A malapena Ippocrate, pur essendo un medico accorto, ci permette con le sue descrizioni di evocare un'epidemia di orecchioni e le endemie malariche.
Tucidide fu uno storico scrupoloso, ma i medici che cercano, sulla base del suo racconto, di identificare il tipo di peste che devastò Atene nel 430 a.C. sollevano innumerevoli ipotesi che non troveranno mai una soluzione, anche se la più plausibile sembra essere quella del tifo. Per le conseguenze strategiche, demografiche ed economiche di questa catastrofe che colpì Atene in piena guerra del Peloponneso, per i comportamenti umani che vi si verificarono, descritti da Tucidide, questo testo costituisce un vero e proprio archetipo storico delle epidemie.
Per quanto riguarda il Medioevo, più vicino a noi, abbiamo al tempo stesso zone d'ignoranza e certezze. È noto che nel basso Impero romano si verificarono numerose epidemie mortali, che indebolendo le strutture amministrative e politiche dello Stato, oltre che le sue difese, facilitarono le invasioni barbariche. Ma è tutto quello che sappiamo.Il millennio del Medioevo fu segnato da tre specie di epidemie: la peste, il vaiolo e la lebbra.
Nel VI secolo, sotto l'imperatore Giustiniano, infierì in tutto il bacino del Mediterraneo l'epidemia di un morbo che era certamente la peste così come la conosciamo oggi, causata da Yersinia pestis. Dall'Asia centrale raggiunse tutto il Vicino Oriente e l'Europa, spopolando intere regioni. Infierì a ondate successive per due secoli e poi si estinse.Sappiamo anche che fin dai primi secoli della nostra era si manifestava saltuariamente il vaiolo; in Europa fu endemico fino al XIX secolo, e comparve a più riprese contemporaneamente alla peste.
Risalgono al Medioevo infine le prime segnalazioni della lebbra nell'Europa occidentale. In realtà il termine di origine latina è piuttosto impreciso, e quando lo troviamo nel Vecchio Testamento non siamo sicuri che si riferisca alla lebbra come la conosciamo oggi, provocata dal bacillo di Hansen. In mancanza di dati statistici validi non possiamo accordare molta fiducia ai cronisti quando affermano che le crociate del XII e del XIII secolo, con i continui spostamenti attraverso il Mediterraneo, provocarono una recrudescenza della malattia.
In ogni modo, si cominciarono a organizzare istituti per i lebbrosi: nel periodo di massima endemia si contavano in Francia parecchie migliaia di lebbrosari. La diagnosi della malattia veniva fatta da una commissione composta di autorità civili e religiose e di medici, ma certamente si considerarono come lebbra anche affezioni di tipo diverso. A tutt'oggi non sappiamo ancora con certezza come si trasmetta la malattia, quali siano le modalità del contagio o i tempi dell'incubazione, eppure nel Medioevo già la si considerava pericolosa ed epidemica. Per questo motivo i regolamenti per l'isolamento dei lebbrosi erano molto rigidi e giungevano a escluderli (almeno in teoria) dalla vita sociale.All'inizio del XV secolo si verificò un fenomeno non spiegabile scientificamente: la lebbra iniziò a regredire e scomparve quando arrivò la tubercolosi, anche se i due fatti non sono collegabili biologicamente. Oggi la lebbra non esiste quasi più in Europa, e si riscontra allo stato endemico in numerose regioni intertropicali.
L'anno 1348 segnò una drammatica ricomparsa della peste nel mondo occidentale, dove il ricordo della peste giustinianea si era ormai perso. Proveniente ancora una volta dalle steppe dell'Asia centrale, avanzò progressivamente dal Mar Nero verso Costantinopoli e la Grecia, invase la costa meridionale del Mediterraneo da Aleppo a Fez, e approdò a Messina e a Marsiglia. Da questi porti, seguendo gli scali del traffico di cabotaggio e le grandi vie di comunicazione terrestri, invase tutta l'Europa fino alla Scandinavia e alla regione intorno a Mosca. In pochi decenni provocò tali danni che la popolazione dell'Europa diminuì, con molta probabilità, di circa un terzo. Da allora mai si è abbattuta sull'umanità una simile catastrofe, ed è quindi comprensibile che questa 'peste nera' abbia lasciato dei ricordi così profondi nella memoria collettiva.Il nome le fu attribuito per via delle macchie nere che compaiono sulla pelle dei malati: si tratta delle piccole placche cancrenose che si formano intorno alle punture delle pulci che iniettano nell'organismo il germe letale. Al collo, alle ascelle e all'inguine si gonfiano alcuni gangli: se questi bubboni si aprono spontaneamente o se il chirurgo li incide a tempo debito, il malato ha qualche possibilità di guarire, in caso contrario muore in pochi giorni. La peste può presentarsi in questa forma bubbonica ma, se il malato è contaminato da particelle dell'escreato di un appestato, può anche contrarre la forma polmonare in grado di condurlo alla morte nel giro di poche ore.
Queste evoluzioni fatali così rapide, talvolta anche improvvise, in soggetti che qualche ora prima erano apparentemente in buona salute, colpivano ovviamente la fantasia, e si comprende che la peste abbia ispirato tanti racconti, opere d'arte, quadri, affreschi, sculture, ecc., e che sia tuttora argomento di romanzi e di film: dal XIV secolo rimane l'epidemia-tipo che ispira sempre il medesimo panico.Nell'arco di alcuni decenni le conseguenze dell'epidemia si rivelarono notevoli per la vita dell'Europa. Furono colpite soprattutto le zone a elevata densità di popolazione, scomparvero interi conventi e villaggi, alcune città si spopolarono: occorsero parecchi decenni per tornare ai livelli demografici precedenti.La peste esercitò la sua furia periodicamente, placandosi in una zona per ricominciare altrove, a seconda di capricci stagionali che non siamo in grado d'interpretare. Infierì sull'Europa per quattrocento anni.Anche il XVI secolo fu quindi caratterizzato dalla peste. Dato che le sue recrudescenze divenivano in qualche maniera abituali, le amministrazioni cittadine si videro costrette a creare vere e proprie istituzioni ad hoc; non soltanto, seguendo l'esempio dato da Venezia nel corso del secolo precedente, si svilupparono i lazzaretti, ospedali per appestati o sospetti tali, ma si crearono anche 'case provvisorie' da utilizzare soltanto durante un'epidemia.
La scoperta del Nuovo Mondo da parte dell'Europa comportò un ulteriore sconvolgimento nella ripartizione delle malattie, in ragione degli scambi fra due mondi che fino ad allora non si erano frequentati.I conquistatori portarono in America i loro germi: il morbillo, il vaiolo, e anche i banali microbi dei loro raffreddori e delle loro infezioni polmonari. Fu un'ecatombe, perché gli autoctoni, che avevano i 'loro' germi, non godevano di alcuna forma di immunità nei confronti di questi virus. Vittime di un genocidio non premeditato, parecchie decine di milioni di Amerindi scomparvero in un arco di due secoli a causa di queste epidemie, della superiorità dell'equipaggiamento degli invasori, e del pessimo trattamento cui venivano sottoposti nelle miniere d'argento.Queste forme di conquista attraverso l'epidemia durano ancora oggi: non appena un missionario o un cercatore d'oro si accosta a una popolazione amazzonica fino a quel momento isolata, l'influenza la decima.Per contro, si ritiene che l'America abbia regalato al vecchio continente la sifilide, anche se pare che alcune affezioni dovute a germi simili vi imperversassero già prima. È comunque accertato che fin dall'ultimo decennio del XV secolo i Francesi, con i loro spostamenti da e per Napoli, dove incontravano gli Spagnoli di ritorno dalle Indie Occidentali, diffusero in Europa questa nuova malattia.
La sifilide assunse un carattere epidemico, colpendo tutte le classi sociali di tutti i paesi. Caratterizzata da un decorso molto più rapido di quello attuale, portò anche una mortalità molto più elevata: due fenomeni di difficile spiegazione. Senza un motivo conosciuto, la sua virulenza si è in seguito attenuata.
Nel XVII secolo l'Europa non conobbe nuove malattie, ma si presentarono con maggior virulenza le epidemie già note. La peste fu particolarmente grave nelle grandi città dell'Italia e dell'Inghilterra: Londra, Napoli, Venezia. Ancora una volta la guerra aggravava queste tragedie: la guerra dei Trent'anni (che di fatto lacerò l'Europa per più di quarant'anni) favorì la diffusione delle malattie; i Francesi, chiamati in soccorso dai Catalani in rivolta contro il re di Spagna, seminarono la peste a Barcellona, i lanzichenecchi tedeschi al servizio del re di Spagna a Milano portarono con sé la morte (Manzoni ne ha fatto uno degli episodi salienti dei Promessi sposi).
La guerra diffuse in Europa anche il tifo esantematico (una malattia che nel secolo precedente aveva già colpito per breve tempo alcune popolazioni), portato dalla Polonia in Alsazia dai mercenari svedesi.Il vaiolo continuava a imperversare, insieme alla malaria, flagello che oggi gli europei tendono a dimenticare. Sappiamo che nel XVII secolo nessun paese, nessuna provincia d'Europa vi sfuggì, dalla Lapponia scandinava fino alla Sicilia. Il declino di questa endemia generalizzata ebbe inizio nel XIX secolo; l'ultima zona paludosa d'Europa scomparve solo intorno al 1970.
Si dovette attendere la fine del XVIII secolo perché la peste cessasse di far parlare di sé. Comparve ancora in alcuni porti, ma una grave epidemia che colpì Marsiglia, la Provenza e l'alta Linguadoca non si diffuse al di là di queste zone. La maggiore attenzione prestata dai governi occidentali ai problemi sanitari in questo periodo ci permette di conoscere meglio di prima lo stato di salute delle popolazioni rurali. Sappiamo che le campagne venivano colpite periodicamente da febbri eruttive (morbillo, rosolia, scarlattina), da diarree intestinali (dissenteria, febbri tifoidi), da difterite: tutte malattie ulteriormente aggravate dalle carestie.
L'intensificarsi del commercio marittimo, delle guerre per mare e della tratta dei Negri seminò per il mondo la febbre gialla, o vomito nero, anch'essa trasmessa da anofeli. Originaria dell'Africa, prese piede nelle Indie Occidentali e nel continente americano, si propagò nell'Oceano Indiano e raggiunse numerosi porti europei. Si manifestò per l'ultima volta a Barcellona, a Marsiglia e a Tolone nel 1821.
Una caratteristica di questo periodo fu il declino del vaiolo, che aveva seminato il terrore per tanto tempo. Una forte ripresa in Europa provocò molti danni all'inizio del secolo, e favorì il diffondersi dell'inoculazione: se si iniettava ai bambini pus di vaiolosi convalescenti, essi contraevano la malattia in forma attenuata. Purtroppo si verificarono numerosi incidenti finché alla fine del secolo Jenner notò che i contadini colpiti dalla forma vaccina del vaiolo, caratterizzata da pustole simili a quelle del vaiolo, non lo contraevano. Nacque così la 'vaccinazione', la cui pratica conobbe un successo sempre crescente nel secolo successivo. Finalmente negli anni settanta di questo secolo l'affezione è scomparsa.Nel XIX secolo si ebbe una stasi provvisoria della peste, ma in compenso imperversarono il colera e la tubercolosi. Per i marinai e i commercianti il colera non era cosa nuova, dato che infieriva in permanenza in India e nel Sudest asiatico; per motivi che non conosciamo, all'inizio del secolo colpì la Russia, poi la Scandinavia, le Isole Britanniche, giunse a Parigi nel 1832 e in Italia nel 1833. Seminò il panico in numerose zone, durò per qualche mese e poi scomparve, ma prima della fine del secolo provocò ancora morti nel corso di crisi della durata di qualche mese; poi tornò al suo luogo d'origine nella valle del Gange. Nonostante il terrore seminato tra le popolazioni che avevano già dimenticato i flagelli della peste, provocò molti meno morti di quanti ne avesse causati quest'ultima.
La mortalità per tisi cominciò ad assumere un rilievo statistico in Inghilterra alla fine del XVIII secolo. Di lì la tubercolosi si diffuse nel continente europeo e soprattutto in Francia, anche a causa dello sviluppo delle città industriali in cui si ammassavano operai male alloggiati, poco pagati e mal nutriti. Essa colpiva però tutti gli ambienti sociali: si deve alla tubercolosi il cliché dei giovani romantici, fragili e melanconici, che muoiono prima di aver conosciuto le gioie della vita. Cominciava a diminuire in Francia, anche prima della pratica del pneumotorace e delle cure in sanatorio, quando raggiunse la Germania. All'inizio del XX secolo colpì il Giappone.Oggi, in seguito a numerosi cambiamenti, e soprattutto al miglioramento delle condizioni di vita, la tubercolosi non rappresenta più un flagello per i paesi industrializzati, ma continua a provocare danni nei paesi in via di sviluppo.
Con l'espansione coloniale della Gran Bretagna, della Francia, e poi della Germania e dell'Italia, si diffusero in popolazioni 'intatte' le malattie tipiche dell'Europa: si ripeté l'avventura americana del Cinquecento. L'Africa scoprì la tubercolosi, e gli abitanti degli arcipelaghi incontaminati dell'Oceano Pacifico e gli Aborigeni dell'Australia furono più che decimati dall'influenza, dal morbillo, dal vaiolo e dalla difterite.Il XX secolo può essere a buon diritto considerato un momento di trionfo del mondo occidentale nella sua lotta contro le epidemie. Grazie allo sviluppo dell'igiene pubblica e alla pratica delle vaccinazioni, non si muore quasi più di malattie eruttive, di dissenteria, di difterite, di tubercolosi, di poliomielite, e sono scomparse anche le epidemie ospedaliere di febbre puerperale. La peste, che aveva fatto una breve apparizione a livello mondiale nei primi decenni del secolo, ha oggi carattere endemico solo in qualche regione del globo; la stessa cosa è avvenuta anche per il colera e per la febbre gialla.
Ma tutto questo vale soltanto per i paesi industrializzati, mentre la maggior parte dell'umanità non ne trae beneficio: come sempre, i paesi ricchi stanno meglio di quelli poveri del Terzo Mondo, perennemente colpiti, per ragioni economiche e climatiche, da innumerevoli malattie infettive e parassitarie.
Le vittorie possono anche rivelarsi temporanee, come è avvenuto per la malaria. Si pensava di averla debellata nel decennio 1950-1960, ma è stato necessario ricredersi. Il plasmodio ha un ciclo biologico complesso, e ci si è quindi dovuti rivolgere all'insetto vettore; ma è difficile distruggere l'anofele sia allo stato di larva che allo stato adulto; è difficile far accettare la disinfestazione su vasta scala e in numerosi paesi; gli insetticidi minacciano gli equilibri biologici e le zanzare divengono resistenti ai prodotti utilizzati. Per tutti questi motivi la lotta contro la malaria ha perso di efficacia inducendo gli addetti alla prudenza e alla modestia.
I successi ottenuti da appena un secolo contro i germi delle principali epidemie sono precari: infatti Yersinia pestis e il vibrione del colera esistono ancora sulla terra, e poiché non sappiamo per quale motivo il colera sia scomparso dall'India intorno al 1820, né perché la peste e la febbre gialla riappaiano periodicamente in Africa, dobbiamo pensare che simili epidemie possono ancora manifestarsi in qualsiasi momento. D'altronde, conosciamo solo in minima parte i microrganismi che ci circondano. Legionella esisteva ben prima di provocare, vent'anni or sono, delle epidemie di legionellosi negli alberghi e negli ospedali, ed è stato identificato soltanto in occasione di tali avvenimenti patologici. Non si sa cosa abbia determinato una manifestazione così drammatica: aspettiamoci in futuro altre sorprese simili.
I batteri sono specie viventi relativamente stabili, e si può perciò ritenere che le epidemie batteriche di oggi siano le stesse di un tempo. I virus, invece, hanno strutture più mutevoli, e le epidemie passate delle quali non constatiamo più alcuna manifestazione clinica sono state verosimilmente causate da virus oggi scomparsi.
L'Inghilterra del XVI secolo ha sofferto dei danni provocati da una febbre miliare, senza dubbio di natura influenzale, che si è propagata nel continente e ha infierito in Francia fino al XIX secolo: oggi non siamo in grado di precisarne la natura. L'influenza detta 'spagnola', che causò in Europa più di un milione di morti nel 1918-1920, è scomparsa, così come molte epidemie degli anni venti.
Non meravigliamoci dunque per il fatto che sia improvvisamente apparso il virus HIV causa di una sindrome - l'AIDS - che annulla le capacità di difesa dell'organismo umano contro le aggressioni infettive di qualsiasi genere: forse esso aveva avuto già delle manifestazioni cliniche che noi non sapevamo raggruppare e identificare; tutto fa pensare che l'uomo avrà la meglio sull'AIDS, così come è avvenuto per altre malattie, e che sopraggiungeranno altre epidemie, altrettanto inaspettate. L'uomo non dovrebbe dimenticare le epidemie della storia, infinitamente più mortali dell'AIDS.
Di fronte a queste malattie che minacciavano la sua esistenza, l'uomo, adattandosi, ha dimostrato la sua superiorità rispetto alle altre specie: con interventi di vario genere egli si è garantita la sopravvivenza.
Prima ancora di conoscere la reale natura dell'epidemia, e quando ancora si dubitava del fatto che essa si potesse diffondere per contagio, le autorità cittadine hanno preso dei provvedimenti allo scopo di impedire, almeno per un certo periodo, che i malati o i sospetti tali contagiassero le persone sane. Sembra che nel 1377 sia stata imposta a Ragusa la prima quarantena agli stranieri provenienti dall'Oriente, sia per via di terra che per mare.Col passar del tempo sono stati promulgati in tutte le grandi città d'Europa e d'America dei 'regolamenti per la peste', sottomettendo a obblighi particolari le persone e le merci provenienti da regioni in cui vi fosse un'epidemia. All'inizio del secolo scorso queste restrizioni venivano spesso trascurate, ma il colera, facendo la sua comparsa in Europa, dette nuovo impulso alle regolamentazioni.Proprio a seguito delle epidemie contemporanee si è resa indispensabile la cooperazione internazionale: dalle conferenze per la stipula di convenzioni sulle quarantene sono nati l'Ufficio Internazionale di Igiene Pubblica, e più recentemente l'Organizzazione Mondiale della Sanità.
Nelle città colpite le autorità hanno cominciato con il proibire le riunioni pubbliche (fiere, teatri, mercati, giochi di qualsiasi specie) che favorivano il propagarsi della malattia. Hanno poi creato dei servizi di sorveglianza per individuare gli ammalati, identificare i morti, portar via e seppellire i cadaveri; hanno anche nominato ispettori, precettato medici, chirurghi, infermieri. Hanno imposto la chiusura delle case infette, talvolta la distruzione dei beni mobili, soprattutto abiti e biancheria da letto.
Si devono alle epidemie le prime rilevazioni di morbilità e mortalità, compiute nelle parrocchie di Londra all'inizio del XVII secolo (il termine 'statistica' fu coniato in Germania cent'anni dopo).Fin dal Medioevo ci si è anche preoccupati di ciò che chiamiamo l''igiene' delle città, con la pulizia delle strade e dei mercati di generi alimentari, la costruzione e la manutenzione delle fogne, la soppressione degli animali randagi, lo spurgo dei pozzi neri e di scarico, ecc. Tutti questi provvedimenti sono stati adottati pur senza conoscere i microbi e le loro modalità di trasmissione e hanno avuto una loro efficacia transitoria, anche se non sono mai stati applicati rigorosamente, dato che le possibilità di raggirarli erano innumerevoli. Tuttavia essi hanno aperto la strada a tutte quelle prescrizioni sanitarie complesse che caratterizzano al giorno d'oggi i paesi sviluppati.
Questi provvedimenti amministrativi, insieme con il miglioramento del livello di vita e dell'igiene personale, hanno avuto una sicura efficacia profilattica, almeno per una parte dell'umanità. Da cento anni si sono poi aggiunti i benefici della medicina sperimentale e il progresso delle nostre conoscenze biologiche.I medici hanno utilizzato le tossine responsabili dei danni organici dovuti al germe introducendole nel corpo umano dopo averne attenuato o annullato la virulenza. L'uomo dispone in tal modo di una ventina di vaccini che immunizzano contro le malattie intere popolazioni. Alcuni governi più audaci hanno reso obbligatorie queste vaccinazioni costringendo così l'individuo a iniettarsi nel corpo un prodotto biologico, talvolta pericoloso, allo scopo di tutelare la salute della comunità.
L'efficacia di questi vaccini varia secondo la malattia in questione, mentre la loro innocuità va progressivamente aumentando insieme al loro numero. Anche in questo caso i successi maggiori si sono avuti nella lotta alle malattie batteriche; ci vorrà ancora del tempo per prevenire in questo modo le epidemie e le endemie dovute a specie più complesse (è il caso, per esempio, della malaria). Invece, per quanto concerne i virus, essi sono tanto mutevoli e vari, che possono essere già cambiati quando il vaccino è pronto: per esempio la lotta contro i virus delle innumerevoli influenze è sempre al punto di partenza.
Stranamente le terapie vere e proprie sono nate dopo la prevenzione, e si basano sui medicinali messi a punto da una cinquantina d'anni a questa parte. Le sostanze antibiotiche combattono il germe patogeno introdotto nell'organismo, e le cure di rianimazione correggono i disordini biologici: ad esempio la reidratazione nel caso delle epidemie dissenteriche e nel colera, e la reintegrazione del sangue nelle malattie emorragiche.
Questi motivi di soddisfazione e di speranza non devono far dimenticare che tali trattamenti esercitano i loro benefici solo per quella parte dell'umanità che dispone in numero sufficiente di professionisti della salute competenti e di amministrazioni sanitarie permanenti fornite di materiali, medicinali e risorse finanziarie adeguate. Ad ogni modo, se si diffonderanno nuovamente per il mondo epidemie mortali, esse verranno dai paesi poveri ma minacceranno anche i paesi ricchi.
Non ci si può che rallegrare nel vedere i flagelli delle grandi epidemie scomparire progressivamente grazie ai risultati raggiunti dalla ragione umana e dalla scienza. Tuttavia l'uomo non è soltanto ragione, e dinanzi a minacce improvvise i suoi comportamenti restano quasi invariati nei tempi. Riferendosi ai suoi compatrioti e contemporanei della Grecia del 430 a.C., Tucidide ha descritto comportamenti simili a quelli tenuti in seguito dai popoli dell'Occidente nel corso dei secoli segnati dalla peste, sia a Milano che a Londra, e ancora a Parigi durante il colera del 1832 oltre che ai giorni nostri per l'AIDS, sia negli Stati Uniti che in Europa.Dato che il flagello è visto come una punizione per i peccati dell'umanità, si comincia con l'invocare la misericordia divina. Nel corso dei secoli alle offerte al tempio di Apollo si sono sostituite le processioni intorno alle chiese, le opere pie, i voti. Poiché la malattia è la sanzione di un peccato, gli ammalati sono colpevoli; ai primi ammalati di AIDS si imputavano due trasgressioni sociali: in quanto omosessuali infrangevano la legge sacra dell'eterosessualità destinata a propagare la specie, in quanto eroinomani praticavano una tossicomania asociale.Inoltre, poiché il flagello non può prodursi in maniera spontanea, si devono trovare dei responsabili e punirli. In tempo di guerra è il nemico l''avvelenatore'; ancora nel 1985 un giornale sovietico, riferendosi all'AIDS, ha scritto della CIA in questi termini. In tempo di pace si sono massacrati Ebrei e lebbrosi perché contaminavano i pozzi; si sono anche linciati gli 'untori' accusati di diffondere i prodotti della peste (Manzoni ne ha fatto l'argomento della Storia della colonna infame), e nel 1832 a Parigi, per ordine del prefetto, sono stati anche uccisi dei poveri diavoli che avevano con sé boccette inoffensive.
Infine, poiché gli ammalati reali e sospetti devono essere tenuti lontani dalla comunità, è stata proposta, sul modello dei lebbrosari, la creazione di ospedali per malati di AIDS. Si è perfino proposto di non stipulare contratti di affitto e di lavoro non soltanto con gli ammalati di AIDS, ma anche con i portatori del virus HIV. A causa dell'allontanamento dalla comunità religiosa, un prete americano (per fortuna sconfessato dal suo vescovo) ha negato i sacramenti a un ammalato.Questi comportamenti irrazionali, rimasti invariati da millenni, fanno parte di meccanismi mentali arcaici di paura dinanzi a ciò che è sconosciuto, e di protezione irrazionale dell'individuo e del gruppo. È molto difficile che cambino.
Le epidemie sono una delle manifestazioni parossistiche della vita sulla terra; esse illustrano per fasi la lotta reciproca delle specie viventi: funghi che distruggono le foreste, cavallette che radono al suolo i raccolti, epizoozie che decimano il bestiame.Soltanto l'uomo si è rivelato in grado di resistere a questo genere di aggressioni. Mettendola alla prova a più riprese nel corso di questo 'breve' periodo di qualche decina di millenni, le epidemie hanno realizzato, all'interno della specie umana, la selezione degli individui meglio immunizzati: discendiamo tutti dai sopravvissuti.Soprattutto, l'uomo si è adattato a esse, come si è adattato al freddo, al caldo e alle intemperie. È proprio grazie a un adattamento di tipo intellettuale che può permettersi spostamenti per mare e per cielo, e può creare i mezzi di prevenzione e di cura delle epidemie.
Egli non deve tuttavia mai dimenticare che le sue vittorie sono precarie, temporanee e sempre reversibili, e che vi sono in fondo a lui tendenze inquietanti, rimaste immutate dai tempi in cui viveva nelle caverne.
(V. anche Malattie; Morbosità).
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