epifonema
È la ‛ sententia ' che conclude enfaticamente una narrazione o un'argomentazione, mettendone in rilievo il senso. Generalmente l'e. assume la forma dell'esclamazione (" narratae rei vel probatae summa acclamatio " la definiva Quintiliano [VIII V 11], ma Gervasio di Melkley (v.), includendo questa figura nel " proverbium " e designandola anche come " tautoparonomion ", la distingueva dalla sentenza " translaticia " e dall' " entymema " solo per il rapporto di " idemptitas " che essa conserva con l'argomento cui viene riferita, né teneva conto del carattere di ‛ acclamatio '.
Talora nelle canzoni di D. la sentenza finale suggella efficacemente lo sviluppo concettoso del componimento d'amore, come in CIII 83 (ché bell'onor s'acquista in far vendetta), o in CXVI 75 (per che l'armato cor da nulla è morso). Ma in due canzoni dottrinali, la CIV delle Rime e la III del Convivio, la ricerca dell'e. appare particolarmente notevole, perché nella prima lo schema compare ben due volte, alla fine dell'ultima stanza e a conclusione della tornata (se colpa muore perché l'uom si penta, v. 90; camera di perdon savio uom non serra, / ché 'l perdonare è bel vincer di guerra, vv. 106-107), nell'altra esso assume la forma esclamativa che più gli si addice: vedete ornai quanti son l'ingannati! Nella forma dell'‛ acclamatio ', che contiene anche un'imprecazione (v.), nei versi con cui si conclude l'ultima stanza di Rime CVI, ancora una canzone dottrinale, è in sostanza adombrata una sentenza, che racchiude il significato del componimento, rivolto appunto a chiarire l'essenza della virtù, necessaria condizione dell'amore: Oh cotal donna pera / che sua biltà dischiera / da natural bontà per tal cagione, / e crede amor fuor d'orto di ragione! (vv. 144-147).
La forma esclamativa s'incontra in alcuni tipici esempi della Commedia, fra i quali citeremo quello di If XXIV 119-120 e quello di Pg XI 91 ss., che concludono rispettivamente la rappresentazione di una pena particolarmente grave, tale da potersi assumere a segno della potenza divina (Oh potenza di Dio, quant'è severa, / che cotai colpi per vendetta croscia!), e un significativo episodio che suggerisce un insegnamento morale (O vana gloria de l'umane posse! / com' poco verde in su la cima dura, / se non è giunta da l'etadi grosse!). Altrove invece, pur sotto forma di esclamazione, l'e. si sviluppa in una ben circostanziata ‛ sententia ': Ahi quanto cauti li uomini esser dienno, ecc. (If XVI 118 ss.).
Assai vicina all'e. per il tono particolarmente enfatico che acquista la ‛ sententia ' in virtù della sua collocazione, al termine di un eloquente discorso, è la famosa frase pronunciata da Ulisse al termine dell'argomentazione, con la quale spronava i compagni a seguirlo (fatti non foste a viver come bruti, ecc., If XXVI 119-120). Mancano invece del tutto del carattere dell'‛ acclamatio ' altre ‛ sententiae ', nelle quali è però evidente il valore conclusivo proprio dell'e.: Ché dove l'argomento de la mente / s'aggiugne al mal volere e a la possa, / nessun riparo vi può far la gente (If XXXI 55-57); Per lei assai di lieve si comprende / quanto in femmina foco d'amor dura, / se l'occhio o 'l tatto spesso non l'accende (Pg VIII 76-78). Ma per questo genere di e. si veda soprattutto Pd XVII 139-142, dove la collocazione della massima a suggello del canto dona particolare vigore alle parole con cui Cacciaguida concludeva il discorso, in cui è illustrato il proposito fondamentale della Commedia.