epiploche
Designa nella retorica antica la ‛ figura ' consistente nel connettere una serie di proposizioni (donde la denominazione latina di conexio) attraverso l'uso ripetuto dell'anadiplosi, ossia riprendendo l'ultimo termine della proposizione precedente nel primo della successiva. La figura si affianca pertanto alla gradatio, di cui costituisce una forma più semplice, nella quale, cioè, il processo non segna un particolare intensificarsi dei concetti. Nelle poetiche medievali l'e. è anzi compresa nella gradatio (v.).
D. fa un uso molto ristretto di questa complessa figura, preferendo affidare la connessione del discorso a elementi meno estrinseci che non siano l'ostentata ripetizione dei termini e la lunga successione di una catena verbale. Sicché nella prosa latina, dove l'e. si prestava alle esigenze del ragionamento sillogistico, essa appare poche volte, più per ragioni di chiarezza che di ornatus, mentre nella Commedia la medesima figura assolve una funzione espressiva, di collegamento del discorso, ma spesso rendendosi quasi irriconoscibile.
Per quanto riguarda la prosa volgare del Convivio basti citare due casi del trattato IV, in cui l'e. sottolinea la connessione causale ([l']oppinione, quasi di tutti, n'era falsificata; e de la falsa oppinione nascevano li falsi giudicii, e de' falsi giudicii nascevano le non giuste reverenze, I 7) o la progressiva determinazione dei concetti (le quali sono tribulazioni de le cittadi, e per le cittadi de le vicinanze, e per le vicinanze de le case, [e per le case] de l'uomo, IV 3; cfr. § 4, dove si ripete lo schema).
Nella Monarchia troviamo un caso semplice ed evidente di e. senza particolare accentuazione raziocinativa (sed nec per divinam: omnis nanque divina lex duorum Testamentorum gremio continetur; in quo gremio reperire non possum, III XIII 4) accanto a forme più complesse, come la seguente, che nel suo giro dialettico si combina finanche col chiasmo: si Ecclesia sibi dedit illam virtutem, non habebat illam priusquam daret; et sic dedisset sibi quod non habebat (XIII 6). Tutta risolta nello schema del sillogismo è invece l'e. in X 8: sic et Imperio licitum non est contra ius humanum aliquid facere. Sed contra ius humanum esset, si se ipsum Imperium destrueret: ergo Imperio se ipsum destruere non licet. Esempi, questi, nei quali si rivela la tendenza a variare, quasi ad alleggerire, lo schema mediante l'uso sapiente delle anastrofi (v.).
Tale è l'impiego di questa figura in funzione poetica. Il moderato uso dell'e. nel poema va infatti da casi in cui la concatenazione propria della ‛ figura ', pur evidenziata, si affida ai relativi piuttosto che alla ripetizione (la terra lagrimosa diede vento, / che balenò una luce vermiglia / la qual mi vinse ciascun sentimento, If 133-135); a casi in cui alla ripetizione della parola è preferita la variazione mediante un sinonimo (non a guisa che l'omo a l'om sobranza, / ma vince lei perché vuole esser vinta, / e, vinta, vince con sua beninanza, Pd XX 97-99, dove la ricerca retorica è evidente nell'insistenza sull'annominantio del terzo verso); a casi, infine, in cui i termini si riducono a due e la particolare concatenazione dell'e. è quasi irriconoscibile, sopraffatta dall'insistenza dell'annominatio: infiammò contra me li animi tutti; / e li 'nfiammati infiammar sì Augusto (If XIII 67-69). Così in Pg XXVIII 107-111 lo schema retorico, che è sicuramente al fondo della triplice concatenazione con cui si descrive la ragione del meraviglioso clima del Paradiso terrestre, si scioglie in un ritmo agile e dolce, attraverso il mutamento dei termini e la loro varia disposizione: tal moto percuote, / e fa sonar la selva perch'è folta; / e la percossa pianta tanto puote, / che de la sua virtute l'aura impregna, / e quella poi, girando, intorno scuote. Più evidente per l'ampio sviluppo della ‛ catena ', ma non meno liberamente trattata è l'e. in Pg XXI 55-72, dove il legame delle terzine, attraverso le quali Stazio spiega la meravigliosa e immediata relazione che s'istituisce fra la purgazione dell'anima e la sua volontà di ascesa, fra questa, la sua liberazione e il giubilo del monte, si attua nella ripresa, all'inizio di ogni terzina, del termine più saliente della precedente (tremò - tremaci, monda - mondizia, voler - voler - vuol, tormento - doglia, sentii-sentisti).
All'e. ricorrerà ancora D. nel Paradiso per mettere in evidenza la meravigliosa relazione fra la Grazia divina e la vita soprannaturale dell'anima, il cui ardore si accresce per effetto del lume divino attraverso la visione: per che s'accrescerà ciò che ne dona / di gratüito lume il sommo bene, / lume ch'a lui veder ne condiziona; / onde onde la visîon crescer convene, / crescer l'ardor che di quella s'accende, / crescer lo raggio (XIV 46-51); siamo usciti fore / del maggior corpo al ciel ch'è pura luce: / luce intellettüal, piena d'amore; / amor di vero ben, pien di letizia; / letizia che trascende ogne dolzore (XXX 39-42).