Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’epistemologia, intesa come filosofia della conoscenza, nasce con la filosofia stessa allo scopo di definire la conoscenza e la giustificazione, indagare le fonti conoscitive, stabilire se possiamo conoscere e se quindi riusciamo a replicare allo scettico. Pur continuando a svolgere alcuni dei suoi compiti tradizionali, l’epistemologia novecentesca è innovativa perché conferisce grande rilievo alla conoscenza proposizionale, rivede l’analisi di conoscenza come credenza vera e giustificata, apre le porte al naturalismo, sostiene che lo scettico ha ragione in certi contesti e torto in altri, e viene infine rivisitata in chiave femminista.
Tipi di conoscenza
Fin dall’antichità la storia dell’epistemologia è stata caratterizzata dall’attenzione per tre diversi tipi di conoscenza: la conoscenza diretta, la conoscenza competenziale e la conoscenza proposizionale. Quando un soggetto cognitivo S conosce qualcuno o qualcosa, come nel caso di S conosce Claudia, o S conosce Londra, diciamo che S ha conoscenza diretta. È un tipo di conoscenza piuttosto frequente che deriva dalla nostra esperienza personale non solo delle altre persone e degli oggetti del mondo, ma anche dei nostri pensieri e sensazioni. Quando, invece, S presenta una competenza e sa fare qualcosa, come nel caso di S sa andare in bicicletta o S sa parlare inglese, diciamo che S ha conoscenza competenziale. Noi esseri umani possiamo saper fare parecchie cose, dalle più semplici (quali, per esempio, camminare) a quelle più complesse (quali, per esempio, clonare un essere vivente). Quando, infine, S sa che una proposizione è vera, come nel caso di S sa che la Gallura è in Sardegna, o che oggi il cielo è limpido, o che la formula chimica dell’acqua è H2O, diciamo che S ha conoscenza proposizionale.
Mentre nella prima metà del Novecento prevale un’impostazione neopositivista, che caratterizza anche la filosofia della scienza, nella seconda metà del secolo gli epistemologi si concentrano quasi esclusivamente sulla conoscenza proposizionale. Questo per due differenti ragioni. In primo luogo, l’avvento delle comunicazioni di massa e l’istruzione obbligatoria hanno rimarcato in modo forte il fatto che la conoscenza propria degli esseri umani è proposizionale. Se occorre senz’altro concedere che gli animali non umani sono capaci di conoscenza sia diretta, sia competenziale (e difatti attribuiamo ai gatti la conoscenza del proprio padrone e l’abilità di dare la caccia ai topi), occorre del resto ammettere che solo gli esseri umani (forse, insieme a qualche primate e cetaceo) sono capaci di conoscenza proposizionale. A differenza però dei primati e dei cetacei, gli esseri umani possono, non solo presentare una conoscenza proposizionale ben più ricca ed estremamente ricercata, ma anche incentrare intere società sulla conoscenza proposizionale e, quindi, dotarsi di sistemi scolastici, libri, enciclopedie, giornali, telegiornali, email, internet. In secondo luogo, nel 1963, Edmund Gettier ha pubblicato un breve saggio, Is Justified True Belief Knowledge?, che ha messo in crisi la definizione tradizionale di conoscenza proposizionale e che ha condotto epistemologi come Fred Dretske, Alvin Ira Goldman, Gilbert Harman, Keith Lehrer, Robert Nozick, Thomas Paxson, Alvin Plantinga , William W. Rozeboom (tanto per fare alcuni nomi tra i più significativi) a tentare di individuare il difetto della definizione e a cercare di porvi rimedio.
Definizione di conoscenza
La definizione tradizionale della conoscenza, detta comunemente “analisi tripartita”, risale a Platone e ha attraversato tutta la storia della filosofia. Nei suoi termini più generali, la conoscenza è credenza vera e giustificata, ovvero un qualunque soggetto S sa che una proposizione è vera (S sa che p è vera) se e solo se vengono soddisfatte le seguenti condizioni:
(1) p è vera,
(2) S crede che p sia vera, e
(3) S è giustificato a credere che p sia vera.
Due precisazioni sono doverose: da un lato, la proposizione p può avere un qualsiasi contenuto e quindi l’analisi in questione risulta applicabile a ogni conoscenza proposizionale (estetica, etica, geografica, linguistica, matematica, religiosa, scientifica, e così via); dall’altro, la nozione di giustificazione è interpretabile in senso affidabilista, oltre che fondazionalista e coerentista – il fondazionalismo, chiaramente presente in filosofi quali Aristotele, Cartesio, Locke e Russell, nelle sue versioni più contemporanee è stato elaborato da William Alston, Robert Audi, Roderick Chisholm, Richard Foley, Paul Moser, John Pollock; il coerentismo, che risale a Spinoza e a Hegel, e si trova, oltre che in Bradley e Blanshard, anche in neopositivisti come Otto Neurath (1882-1945) e Carl Gustav Hempel, è stato rivisitato più recentemente da Wilfred Sellars, Gilbert Harman, Laurence Bonjour, Donald Davidson, Keith Lehrer. Diversi epistemologi contemporanei, tra cui spiccano Alvin Ira Goldman e David Papineau, concordano sulla necessità di affinare la seguente definizione di giustificazione: S è giustificato a credere che p sia vera se e solo se la credenza che p è prodotta in S da un processo cognitivo, o da un metodo, affidabile.
Gettier mostra che l’analisi tripartita della conoscenza non è corretta: può accadere che una credenza vera e giustificata non sia conoscenza, nel caso in cui la credenza, pur giustificata, risulti vera per mera coincidenza. Occorre di conseguenza rafforzare l’analisi aggiungendo a essa altre condizioni. Uno dei primi tentativi in tal senso, utile a titolo d’esempio, è la teoria causale di Goldman, esposta per la prima volta nel saggio A Casual Theory of Knowing del 1967, secondo la quale l’analisi tripartita va integrata con la seguente condizione:
(4) il fatto p è causalmente connesso in modo appropriato con la credenza di S in p
Al pari di ogni altro tentativo finora fatto, questa proposta presenta un difetto, così come mette in luce il seguente esperimento mentale. Si immagini che Henry stia percorrendo una strada in una campagna ove ci sono molti fienili. Se Henry si ferma di fronte a un fienile, crede che sia un fienile, è giustificato a credere che sia un fienile e dice “questo è un fienile”, avremmo poche esitazioni a sostenere che sa che questo è un fienile. Introduciamo ora nella storia un nuovo elemento, cioè la presenza nella campagna, a insaputa di Henry, di parecchie riproduzioni di fienili, riproduzioni in cartone talmente perfette che Henry non riesce a distinguere un vero fienile da una sua riproduzione. Proviamo ora a ipotizzare nuovamente che Henry si fermi di fronte a un vero fienile, creda che sia un fienile, sia giustificato nella sua credenza e dica “questo è un fienile”. Perché ora non siamo più disposti a sostenere che Henry sa che questo è un fienile? L’analisi tripartita non ci aiuta a trovare una risposta: in entrambi i casi è vero che questo è un fienile, Henry lo crede ed è giustificato a crederlo. Purtroppo, però, neanche la teoria causale ci soccorre: dato che a causare in Henry la credenza che questo sia un fienile è sempre un vero fienile, la condizione (4) viene infatti soddisfatta sia nel caso in cui nella campagna sono presenti solo veri fienili, sia in quello in cui sono anche presenti loro riproduzioni.
Epistemologia naturalizzata
Quando giudichiamo giustificata una credenza, o le attribuiamo lo status di conoscenza, la valutiamo positivamente, mentre quando la giudichiamo ingiustificata, o le neghiamo lo status di conoscenza, la valutiamo negativamente. Questo significa che le nozioni di giustificazione e di conoscenza sono valutativo-normative e come tali conferiscono all’epistemologia un carattere valutativo-normativo che la distingue dalle scienze. Difatti, tradizionalmente, in epistemologia solleviamo la domanda normativa “come dovremmo conseguire le nostre credenze, affinché esse siano giustificate, o siano conoscenze?”, mentre nelle scienze (psicologiche e/o cognitive) ci poniamo la domanda descrittiva “come conseguiamo le nostre credenze?”. Sebbene sia forse possibile ottenere la stessa risposta per le due domande – il che vorrebbe dire che conseguiamo le nostre credenze così come dovremmo – le domande devono essere tenute distinte secondo una lunga consuetudine antinaturalista che vuole evitare che l’epistemologia trovi supporto nelle scienze.
La teoria causale è tra le prime a suggerire che le posizioni antinaturaliste debbano essere riviste: la teoria mostra che se un soggetto cognitivo sa che una proposizione è vera si tratta di una questione causale e delega lo studio di questa questione alle scienze. Per Goldman, tuttavia, l’epistemologia continua a svolgere il compito di scovare l’analisi corretta di S sa che p è vera; con maggiore estremismo, nel saggio Epistemology Naturalized del 1969, Willard van Orman Quine (1908-2000) afferma invece che l’epistemologia deve venire completamente assorbita dalle scienze: “L’epistemologia, o qualcosa di simile, trova il suo posto come capitolo della psicologia e quindi della scienza naturale”. Agli antinaturalisti, secondo i quali solo l’epistemologia è capace di chiarire che cos’è la conoscenza e che cos’è la giustificazione, Goldman fa notare che il chiarimento, per quanto doveroso e genuinamente epistemologico, da solo è insoddisfacente: le diverse definizioni epistemologiche di conoscenza e di giustificazione sono infatti astratte e non riescono a dirci se gli esseri umani conoscano effettivamente, o abbiano di fatto credenze giustificate. Occorre quindi rivolgersi alle scienze cognitive per delegare loro il compito di indagare le questioni causali o l’affidabilità dei nostri processi cognitivi. Questa naturalizzazione moderata viene scavalcata da Quine che propone una naturalizzazione radicale con la richiesta che tutte le questioni epistemologiche siano riportate a questioni scientifiche.
Parecchi epistemologi si sono convertiti al naturalismo, abbracciandone una versione moderata o una versione radicale. Per i naturalizzatori radicali, in effetti, non è solo possibile, ma è anche necessario che tutte le questioni epistemologiche – inclusa la vecchia e mai risolta sfida scettica – vengano integralmente rimpiazzate da questioni scientifiche; se alcune questioni epistemologiche non risultano rimpiazzabili, devono essere dichiarate illegittime. L’obiettivo è quello di ottenere un’epistemologia che consiste semplicemente in descrizioni empiriche e spiegazioni scientifiche del modo in cui formiamo, conserviamo e rigettiamo le nostre credenze. Per i naturalizzatori moderati, invece, la definizione di conoscenza, quella di giustificazione e lo scetticismo rappresentano problemi legittimi e prettamente epistemologici, e non possono essere consegnati nelle mani delle scienze. Di conseguenza, non si può rimpiazzare l’epistemologia con le scienze, ma solo ristrutturare la prima per collegarla alle seconde, così come accade adottando un’ottica affidabilista: se all’epistemologia spetta il compito consueto di offrire un’analisi normativa della nozione di giustificazione – una credenza è giustificata se è prodotta da processi cognitivi affidabili – tocca poi alle scienze cognitive verificare se sussistono in noi processi affidabili e individuarli, nel caso sussistano; questo consentirà di chiarire se gli esseri umani possono effettivamente avere credenze giustificate.
L’epistemologia naturalizzata ha subito numerose critiche nella sua versione sia radicale, sia moderata. Se occorre scegliere tra l’una e l’altra, è però ovvio optare per la versione moderata. Quella radicale, più che una naturalizzazione dell’epistemologia, decreta in effetti la morte della disciplina e si dimostra comunque incapace di trattare la maggior parte dei problemi tradizionali. Si consideri, per esempio, il problema dello scetticismo. Sostenere, come fa Quine, che tutti i dubbi scettici sono dubbi scientifici, e che sono pertanto suscettibili di un trattamento scientifico, è perfettamente in linea con le posizioni della naturalizzazione radicale. La mossa è tuttavia inefficace. Di fronte alla sfida scettica più pericolosa, quella globale che si concretizza nell’ipotesi del sogno (se ora stessi sognando avrei tutte le medesime credenze che ho se non stessi sognando e queste credenze sarebbero false) è inutile appellarsi a un qualche metodo empirico per sapere che non sto sognando: se stessi sognando, condurre un qualsiasi esperimento empirico per dimostrare che non sto sognando non potrebbe avvenire al di fuori del sogno. Ne dobbiamo concludere che l’impostazione radicale non riesce a replicare allo scetticismo, e che quindi non conosciamo quasi nulla di quello che crediamo di conoscere. Quasi nulla e non nulla, perché possiamo sapere di esistere, come ci hanno insegnato Agostino, Tommaso e Cartesio.
Epistemologia contestualista
L’ipotesi scettica del sogno turba da secoli gli epistemologi. Sul finire del Novecento è stata affrontata utilizzando un nuovo approccio, il contestualismo, secondo il quale – a proposito del medesimo soggetto cognitivo e della medesima proposizione – è consentito affermare che S sa che p è vera in certi contesti e S non sa che p è vera in altri contesti. In particolare, ci sono contesti quotidiani in cui le ipotesi scettiche non sono presenti e in cui è quindi lecito attribuire conoscenza a S , e ci sono contesti filosofici, o meglio scettici, in cui non solo le ipotesi scettiche risultano importanti, ma ci è anche assai difficile delegittimarle, e in cui è di conseguenza problematico attribuire conoscenza a S.
I maggiori fautori dell’epistemologia contestualista – Keith DeRose, David Lewis, Stewart Cohen – vogliono ammettere sia le ragioni dello scettico, sia le ragioni delle nostre quotidiane attribuzioni di conoscenza. Dobbiamo accettare che lo scettico abbia le sue ragioni quando, impiegando ipotesi scettiche, modifica gli standard epistemici che valgono quotidianamente per inasprirli in modo considerevole al fine di ottenere contesti in cui risulta impossibile attribuire conoscenza a noi stessi e agli altri; in questi contesti, non conosciamo quasi nulla di quello che crediamo di conoscere.
Tuttavia non accettiamo lo scetticismo per sempre e incondizionatamente, perché nei contesti quotidiani vigono standard più rilassati e le ipotesi scettiche non hanno rilevanza alcuna, a meno che non vengano sollevate dallo scettico per creare un contesto scettico. Quando ci troviamo nei contesti quotidiani, adottiamo i loro standard e, grazie a essi, possiamo realmente attribuire conoscenza a noi stessi e agli altri. In questi contesti non è solo ragionevole asserire di conoscere proprio quelle proposizioni che lo scettico nega che conosciamo, ma è anche insensato negare che le conosciamo. Per quanto lo scettico imponga standard elevati nei suoi contesti, questo non implica che noi non possiamo soddisfare gli standard più deboli dei contesti quotidiani. Se valgono standard diversi nei contesti scettici e nei contesti quotidiani, non vi è incompatibilità né contraddizione tra la negazione scettica della conoscenza e l’attribuzione quotidiana della conoscenza.
Epistemologie femministe
Nella seconda metà del Novecento si sviluppano numerose prospettive femministe in epistemologia, ben rappresentate negli scritti di Linda Alcoff, Louise Antony, Susan Bordo, Lorraine Code, Jane Duran, Donna Haraway, Sandra Harding, Nancy Hartsock, Genevieve Lloyd, Helen Longino, Lynn Hankinson Nelson, Elisabeth Potter e Naomi Scheman. Per quanto diverse tra loro, queste epistemologie partono dalla convinzione comune che il soggetto cognitivo dell’epistemologia tradizionale non sia neutrale e universale, così come idealmente vorrebbe essere, ma sia stato identificato nel corso dei secoli con l’uomo bianco, occidentale, eterosessuale, di cultura elevata, di buona posizione sociale. Non si potrebbe spiegare altrimenti il fatto che alle donne sia stata negata quasi ogni autorità epistemica e che le loro modalità conoscitive siano state costantemente svalutate.
Dal punto di vista delle donne immerse nella concretezza della vita quotidiana, lo scetticismo globale, per esempio, è del tutto assurdo; lo scetticismo può essere solo parziale e legato ad alcune ragioni statisticamente probabili cui imputiamo la perdita della conoscenza, quali le carenze ragionative o emotive nei momenti di difficoltà, le privazioni sensoriali, le illusioni ottiche. Dato che si tratta di fenomeni suscettibili di indagini scientifiche, viene riproposta l’idea quineana che i dubbi scettici siano dubbi scientifici, idea efficace quando, come nel presente caso, viene applicata solo a forme parziali di scetticismo.
Le epistemologie femministe contrastano l’epistemologia tradizionale, a cui dobbiamo l’analisi tripartita della conoscenza, ma anche l’epistemologia novecentesca, alle prese con il problema sollevato da Edmund Gettier. Si sostiene infatti che non è possibile ottenere una definizione valida per tutti, senza prendere in considerazione l’identità del soggetto, i suoi interessi e le circostanze in cui si trova a vivere e a esperire la realtà. Il soggetto cognitivo è sempre situato in un contesto sociale che lo rende diverso a seconda del genere a cui appartiene: il soggetto maschile è individualista, autonomo e distaccato dagli altri, mentre il soggetto femminile è collettivista, dipendente e correlato agli altri. Tra le teorie più note che hanno approfondito questa tesi, vi sono le standpoint theories, le “teorie del punto di vista”, stando alle quali otteniamo esperienze epistemiche diverse se osserviamo il mondo da punti di vista diversi: il punto di vista femminile è diverso da quello maschile e pertanto le donne hanno esperienze peculiarmente femminili che differiscono da quelle maschili. I punti di vista sono diversi anche per il fatto che alle donne è stata a lungo negata un’istruzione adeguata ed è stata pertanto negata loro molta conoscenza proposizionale. Per evitare di concludere che le donne conoscono meno degli uomini, le epistemologie femministe ridimensionano l’importanza della conoscenza proposizionale e rivalutano l’importanza degli altri due tipi di conoscenza (la conoscenza diretta e la conoscenza competenziale): esseri più sociali degli uomini, le donne sono portate, più degli uomini, a conoscere (in modo diretto) le altre persone, mentre tra le conoscenze competenziali solitamente femminili si possono annoverare il saper curare ed educare i bambini, il saper cucinare, il saper gestire la casa e la famiglia, il saper occuparsi del marito e degli anziani, il saper partorire e abortire, il saper aiutare altre donne a partorire e abortire, e così via.
Ponendo l’accento sul genere femminile, le epistemologie femministe devono – volenti o nolenti – fare propria una tesi essenzialista: le donne condividono un’essenza, le donne sono essenzialmente simili, il concetto di donna è unitario e possiede significati o attributi essenziali, significati e attributi che non sono quelli maschili. Si tratta di una tesi assai controversa. Come è stato infatti sottolineato con veemenza da Judith Butler e Monique Wittig, l’essenza della donna non esiste – già Lacan diceva che la donna non esiste. Sostenere che esiste serve solo a legittimare determinate superstizioni, e, in particolare, il dualismo uomo/donna cui sono stati associati una serie di dualismi del tutto ingiustificati: mascolino/femmineo, razionale/irrazionale, attivo/passivo, culturale/naturale, oggettivo/soggettivo. Occorre di conseguenza diventare antiessenzialisti. Questo potrebbe comportare una ripresa dell’ideale tradizionale di soggetto cognitivo neutro e universale – un ideale che si può però concretizzare in un soggetto androgino.