Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel XII secolo l’amore terreno torna a essere un tema letterario: si scrivono i grandi commenti al Cantico dei Cantici, i monaci vittorini o cistercensi elaborano la prima vera teologia dell’amore, i maestri di retorica cominciano a scrivere e insegnare la composizione della lettera d’amore, e nella poesia latina e provenzale si afferma la tematica erotica.
Pietro Abelardo
Su Eloisa
Historia Calamitatum, cap. VI
Viveva allora a Parigi una giovane di nome Eloisa, nipote di un canonico, Fulberto. Poiché egli l’amava profondamente, cercava in ogni modo di farla progredire in tutti i campi delle lettere e della cultura. Se per aspetto non era fra le ultime, per la profonda conoscenza delle lettere era la prima; ella godeva di grande prestigio perché è molto raro trovare in una donna una simile conoscenza delle discipline letterarie. Per questo il suo nome veniva ripetuto in tutta la Francia. Dopo aver valutato tutte queste cose, cose che seducono da sempre gli amanti, pensai al modo di legarla a me con un amore facile e mi convinsi che avei potuto farlo senza difficoltà. Io, d’altra parte, ero molto famoso ed ero tra i primi per gioventù e bellezza fisica, al punto da non temere un rifiuto da nessuna donna che avessi ritenuto degna del mio amore. Inoltre pensavo che questa giovane donna mi si sarebbe concessa con più facilità proprio perché conosceva e amava le discipline letterarie, come ben sapevo. Anche lontani, avremmo potuto essere presenti l’uno all’altra scambiandoci delle lettere e comunicandoci così, per iscritto, pensieri più audaci che nei nostri incontri. In questo modo avremmo potuto avere conversazioni dolci ed ininterrotte.
Infiammato dall’amore per questa fanciulla, cercavo un’occasione per conoscerla e per diventarne poi, con frequentazioni quotidiane, suo intimo amico in modo da indurla a cedermi più facilmente. [...] Col pretesto delle lezioni ci abbandonammo completamente all’amore; lo studio delle lettere ci offriva quegli angoli segreti che la passione predilige. Aperti i libri, le parole si affannavano di più intorno ad argomenti d’amore che di studio, erano più numerosi i baci che le frasi; la mano correva più spesso al seno che ai libri […] il nostro desiderio non trascurò nessun aspetto dell’amore, ogni volta che la nostra passione poté inventare qualcosa di insolito subito lo provammo, e quanto più eravamo inesperti in questi piaceri tanto più ardentemente ci dedicavamo ad essi senza stancarci.
P. Abelardo, Historia Calamitatum, trad. it. di C. Scerbanenco, Milano, BUR, 1996
Boncompagno da Signa
Incontro con Venere e la ruota dell’amore
Rota Veneris
Era venuta certamente [Venere] dai confini del mondo per investigare la cortesia e la sapienza di ognuno. Mi volsi a lei sorridente e sereno, pregandola si degnasse di comandarmi. Ed ella, senza che glielo avessi domandato, dichiarò con voce sicura di essere la dea Venere, e quindi mi chiese per quale motivo io non avessi composto formule di saluto e piacevoli lettere che potessero servire ad uso degli amanti. Rimasi attonito, ma afferrai allo scopo prontamente la penna e diedi inizio a quest’opuscolo, che volli intitolare La ruota di Venere, per il fatto che le persone di ogni sesso e condizioni sono collegate dal mutuo vincolo dell’amore, girano in tondo come una ruota […]. Allora, di chiunque si tratti, potrai utilizzare queste formule di saluto generiche: “Alla nobile e saggia signora S., adornata dell’eleganza dei costumi, I. invia il suo saluto, pronto a servirla” […] oppure “Il saluto e quanto può di fedeltà e servizio”. Queste formule di saluto vanno utilizzate prima che l’uomo abbia ottenuto quel che brama; dopo aver soddisfatto il suo desiderio, invece, potrà salutare l’amica in questo modo: “A B., metà della sua anima, la più amabile di tutte le creature, amica dolcissima, I. invia tutto se stesso”, oppure etc. […]
E nota che pressoché tutte le donne, persino quelle deformi, gradiscono assai ricevere complimenti sulla loro bellezza, cosicché tanto nelle formule di saluto che in tutte le altre parti dell’epistola devi conquistare la loro benevolenza elogiando la loro bellezza.
Boncompagno da Signa, Rota Veneris, a cura di P. Garbini, Roma, Salerno Editrice, 1996
Costanza di Ronceray
Donna Costanza (monaca) di Ronceray a Baldrico di Bourgueil
Carmina
Lessi la vostra carta con esame attento
e toccai quelle poesie con mano nuda.
Srotolai il volume due volte e tre volte godendo
né riuscii a riacquistare le forze
discutendo le parole ad una ad una.
Mi piaceva quel libro, eran versi bellissimi,
e spesso passai le giornate leggendolo.
Notte odiosa alle passioni mie, ostile alla lettura,
mi costrinse a lasciare il mio studio.
Ho messo il tuo foglio nel grembo e sotto il seno:
il seno sinistro, dicono sia
più vicino al cuore.
Se potessi imparare a memoria i tuoi scritti,
ogni parola manderei al mio cuore, non nel grembo.
Stanca, alla fine cedetti il mio corpo al sopore notturno,
ma l’amore inquieto non conosce la notte.
Cosa sperare? Cosa non era permesso sperare?
Era il libro a creare speranza, era la notte a dare libertà.
Ero insonne nel sonno, perché la vostra pagina
dentro il mio grembo mi bruciava le viscere.
Oh, se mi concedessero anche solo di guardare il profeta!
Oh, se mi concedessero anche solo un istante di colloquio!
O che maestro, che poeta dotato!
O come è divina la voce con cui canta!
Che sapore le parole sue, che discorso sapiente!
Che uomo sensato è costui nella penna!
Penso che lo sia ancor di più nei fatti,
con grande accortezza tutto dice e fa.
E se Roma l’avesse meritato come figlio,
sarebbe il duro Catone, lui, sarebbe Cicerone.
[…]
Come è bello quel che dice di me nei suoi testi,
come è nobile: io lo vedo nei versi,
in altro modo non posso. Che peccato,
non poter vedere ciò che bramo ed amo!
Il desiderio mi prende mentre prego, a giorno,
e invano effondo implorazioni a Dio.
Un anno se ne è andato, senza poter vedere
colui che cerco, leggo sempre e solamente i versi.
Certo due o tre compagni sarebbero presenti
anche se basterebbe da sola la sua correttezza.
Nessuno avanzerà dubbi o sospetti,
e con me starebbe almeno mia sorella.
Chiaro giorno sarebbe, se il destino
non ci cogliesse qui, ma per la strada.
Ecco veglio, sto sveglia, mi tien sveglia il suo libro:
l’ho letto tante volte, mi è arrivato ieri.
Ma che faccio? Motivo non c’è
perché io mi rigiri tutta notte,
non c’è motivo di implorare con l’ansia del cuore,
non verrà da me l’uomo che ho sete di vedere,
l’uomo che la terra di Poitiers troppo ha stancato.
Forse ha mandato le poesie a me che soffro
perché le sue parole mi indirizzino,
per dissimulare gli inganni della lettera,
perché la carta sapiente consoli i miei timori.
Ahimè, perché ho paura? Non riposo tranquilla,
non è sicuro l’amore, né è sicura la sua lealtà.
[…]
Ho paura di perdere colui che tanto amo,
e con il cuore in ansia ho percorso la notte.
Ma ecco l’aurora conduce lucente i suoi carri,
gli arbusti già suonano i richiami degli uccelli.
Attaccherò a scrivere, poiché la scrittura non conosce imbarazzo,
per dire le parole adatte al mio signore.
Molto gli scriverò che non saprei dirgli di persona,
le audacie di vergine reprime spesso il pudore.
Magari gli piacesse quel che detta un animo d’amante!
Gli renda grazie il canto dei miei versi.
Tu stesso, amato mio, comandi e ordini
di dedicare forze a opere caste.
Farò come comandi, lo desidero anch’io:
così ho deciso di vivere i mei giorni.
Fui casta, sono casta, voglio restare casta:
se potessi esser sposa di Dio!
Ma non per questo rifiuto il vostro amore:
una sposa di Dio deve amare i suoi servi.
[…]
Detesto invece il nome di altra vergine,
a quel nome son più fredda del ghiaccio.
Ma siccome tu vuoi ch’io ti creda,
e crederò a chi vuol essere creduto,
crederò a ciò che scrivi,
e anche tu devi credere a me.
[…]
Da te, se potessi, verrei
anche a piedi o a cavallo,
non sarebbe fatica o vergogna.
Io verrò, se potrò, se potevo venivo,
ma crudele megèra disturba l’uscita.
E tu invece, signore, non sei chiuso da nessun guardïano,
tu che hai molto potere sei temuto anche dalla megèra:
dunque affretta i tuoi passi e vieni a trovarmi:
hai mezzi a sufficienza, e compagni.
Molte son le occasioni di venire da noi:
“Un discorso da fare col prete di città,
o missioni per conto del clero o di abate,
questo o quello mi manda a sbrigare ambasciate”.
Ma sono pazza, che consiglio a fare?!
Sei tu che mi devi consigliare.
Se ti manca un pretesto, sei tu che non vuoi venire.
Se da me non verrai, non ti sto a cuore,
le tue viscere non abita neanche un piccolo amore.
Questo ragionamento ho fatto per la tua pigrizia,
ti sia segno certo di patto fedele;
mi devi visitare: di non so che malattia
sto soffrendo, di non so che rimpianto.
Grave colpa è la tua
se non dai da mangiare agli affamati,
se non soddisfi chi ti sta pregando.
Vieni, ti ho atteso tanto,
non indugiare ancora.
Spesso ti ho invocato,
da chi
ti invoca
vieni.
Baldricus Burgulianus Carmina, a cura di K. Hilbert, trad. it. di F. Stella, Heidelberg, Winter, 1979
La lettera d’amore è una tipologia letteraria e documentaria di cui l’antichità non ci ha conservato esempi e che l’alto Medioevo non ci ha attestato, salvo il caso assai esile della coppia di religiosi inglesi Bonifacio-Leoba (VIII sec.) o i biglietti poetici fra Venanzio Fortunato e la regina Radegonda con sua figlia Agnese (VI sec.). Dopo il 1100 questa tipologia letteraria esplode in una proliferazione di agglomerati testuali di varia forma e livello i cui corrispondenti, reali o realisticamente presentati, sono legati da vincolo amoroso. Un primo caso potrebbe essere rappresentato dai 50 Carmina Ratisponensia, enigmatici e goffi bigliettini d’amore in versi, di tono erudito o scherzoso, scambiati fra un maestro e le sue allieve probabilmente nella scuola capitolare di Regensburg (Ratisbona) all’inizio del XII secolo o, secondo alcuni studiosi (come Peter Dronke), già nel secolo XI: rappresentano il possibile risultato di un’esercitazione letteraria.
All’inizio del secolo si verifica il caso più antico e insieme più importante, quando Pietro Abelardo, brillante professore di teologia alla scuola di Sainte-Geneviève a Parigi, si innamora della sua allieva Eloisa, bella e colta nipote di Fulberto, un canonico della cattedrale, e comincia a frequentarla. Abelardo compone per lei canzoni d’amore che diventano popolari in città e stringe con Eloisa un rapporto intensissimo, ma lo zio e tutore di Eloisa se ne accorge e lo caccia di casa.
Le cose precipitano quando dalla relazione nasce un bambino, ed Eloisa è costretta a fuggire a Le Pallet, nella casa di famiglia di Abelardo, il quale da parte sua fa sapere a Fulberto di essere pronto a sposarsi, purché il matrimonio resti segreto. Eloisa è contraria, perché non vuole danneggiare la carriera di Abelardo e la sua reputazione pubblica. Le nozze avvengono ma la notizia circola, e Abelardo manda Eloisa nel monastero di Argenteuil dove aveva studiato. Allora i parenti di Fulberto, che pensava a un tradimento, organizzano una spedizione punitiva contro Abelardo e, dopo essere entrati a casa sua di notte, lo evirano. Mandante ed esecutori vengono puniti, ma i due amanti devono separarsi: Abelardo torna alla sua vita di insegnante, Eloisa viene espulsa dal monastero di Argenteuil e ne fonda uno, il Paracleto, in una landa brulla della Champagne, dove Abelardo aveva un eremo. A quel punto cominciano a scriversi: Abelardo racconta a un amico in una “epistola consolatoria” intitolata Historia calamitatum la storia di questo amore drammatico e di tutta la sua esistenza, ed Eloisa replica con una lettera bellissima in cui analizza la loro passione e il suo amore disinteressato e gli rimprovera la sua freddezza. Abelardo le risponde ma cerca di mantenere la relazione su un piano spirituale di insegnamento e di istruzioni per il costituendo monastero femminile, mentre Eloisa conserva un ricordo vivissimo della sua esperienza, esprimendo sconforto e indignazione, ma anche una forte coscienza della propria autonomia etica e del problema teologico dell’ingiustizia. Il corpus di queste lettere di alto livello letterario e intellettuale, forse redatto come un unico dossier nel monastero del Paracleto, probabilmente non rispecchia lo stato originale degli scritti ma un loro rimaneggiamento letterario o celebrativo, e questo ha fatto sospettare alcuni filologi che sia stato interamente scritto da altri. Oggi l’opinione prevalente è convinta della loro sostanziale autenticità, così come lo fu il Medioevo che pochi anni dopo gli eventi già raccontava la storia di questo amore in francese, nel Roman de la Rose di Jean de Meung, fino a che non divenne uno dei miti romantici del Medioevo, cantato o dipinto da Villon a Pope, Rousseau, Voltaire, Wieland, Büchner, Lamartine, Twain, Dalí e tanti altri.
Ad Abelardo ed Eloisa è stato attribuito da alcuni studiosi un epistolario scoperto nel 1974 in un manoscritto quattrocentesco di Troyes. Si tratta del più grande epistolario d’amore della storia antica: 113 lettere o brani di lettera in prosa o in versi fra un Vir e una Mulier, siglati V e M, che pur nella discontinuità di lettere prive di risposta e di incoerenze narrative, tracciano in prosa alternata a versi il disegno di una storia d’amore fra due persone fisicamente distanti con incontri, rimpianti, gelosie, esaltazioni e malinconie, distacchi sentimentali sempre più rassegnati e riconciliazioni provvisorie, senza connotazioni geografiche o contestuali, salvo pochi riferimenti alla Francia, in una collocazione urbana, e al ruolo di lui,iuvenis maestro illustre e invidiato, e di lei, giovanissima studentessa universalmente nota per la sua cultura.
Il trascrittore, un monaco cistercense di Clairvaux, le trova forse al Paracleto e le trascrive con molti tagli di diversa lunghezza che segnala accuratamente, limitando la scelta agli elementi più generali, utili all’esemplificazione dell’arte epistolare. Le raccoglie sotto il titolo di Ex epistolis duorum amantium, non si sa se originale o redazionale, in un manoscritto che contiene altri estratti da raccolte epistolari, tutte autentiche. Queste epistole sono scoperte e pubblicate nel 1974 con un’attribuzione dubitativa ai due celebri amanti parigini, ma l’edizione rimane pressoché ignorata per quasi 25 anni, fino a che una traduzione inglese ha suscitato per l’opera un’improvvisa attenzione, scatenando una serie di interventi e polemiche che tuttora coinvolgono specialisti europei, americani e australiani.
Una delle cose di cui discutono Abelardo ed Eloisa nelle lettere 3 e 4 è la corretta intestazione e il corretto saluto iniziale, secondo le regole dell’epistolografia. A quell’epoca infatti cominciano a circolare manuali retorici sulla composizione delle lettere, ma solo nel XII secolo questi manuali includono parti relative alla lettera d’amore.
I primi esempi pare si trovino in Bernardo di Bologna e in Guido di Arezzo, a metà del secolo, ma già qualche decennio dopo Bernard de Meung ne presenta un intero campionario, ancora parzialmente inedito, con una casistica erotica estremamente vivace e analitica, che va dalla bigamia ai monaci accompagnati da prostitute alle donne violentate da cavalieri o da sacerdoti, o abbandonate dal marito, o prive di conforto coniugale, agli amori di famiglia reale con membri di famiglie nemiche, fino alla semplice corrispondenza fra innamorati. Secondo le intenzioni queste lettere, autentiche o composte per esercizio, devono servire da modello per chi si trovi in condizioni analoghe e abbia bisogno di scriverne.
Analoga sembra fosse la destinazione delle lettere d’amore compilate nel monastero bavarese di Tegernsee fra 1160 e 1186, contenute in un manoscritto dove alcuni trattati di retorica sono seguiti da 306 lettere, storiche o fittizie. Una decina di esse sono state pubblicate recentemente e riguardano tematiche amorose: sono lamenti di una donna a un uomo, per essere lontana dall’amato, o per esserne stata abbandonata; o sono scambiate fra un maestro e un’allieva, ove la ragazza risponde con un rifiuto a una proposta del professore, mentre il maestro si lamenta del contenuto di una risposta; oppure sono scritte da donne a altre donne: una, in prosa rimata, è rivolta da una certa B all’amica G cui esprime il proprio dispiacere per la separazione e assicura esclusività d’affetto, chiudendo con una preghiera a Dio perché la lasci morire solo dopo aver rivisto l’amica. Nel complesso, si ha l’impressione di modelli di lettera diversi, tutti probabilmente reali e tutti riferibili al conventus iuvencularum (“convento di giovinette”) citato in una delle lettere, una situazione analoga a quella che dà origine ai cosiddetti Carmina Ratisponensia.
Il momento di massima formalizzazione dell’epistolografia d’amore è invece la Rota Veneris, scritta probabilmente intorno al 1194 dal maestro dell’università bolognese Boncompagno da Signa, che inserisce una serie di modelli epistolari in una cornice narrativa dove Venere, apparsa all’autore, insegna a una scuola d’amore. In quest’opera il Cantico dei Cantici viene addotto come precedente giustificativo dell’impegno nella letteratura dell’amore carnale in virtù della possibilità, fino ad allora scarsamente considerata, della sua interpretazione letterale. Nel trattato Boncompagno analizza le diverse forme di saluto o narratio o captatio benevolentiae e diversi modelli di lettera, con salaci commenti sulla psicologia delle donne, comprese le monache, e degli innamorati di ogni genere, età e classe sociale.
Alle lettere reali, esemplari o immaginarie in prosa si possono aggiungere quelle poetiche, di cui il Medioevo ci ha lasciato poche testimonianze attendibili, esemplate secondo il modello delle Heroides ovidiane: le più belle sono quelle che si scambiano il poeta Baldrico di Bourgueil, poi vescovo di Dol, e Costanza, probabilmente monaca a Ronceray, giocate con raffinate variazioni psicologiche e realistiche immaginazioni sull’idea di rapporto epistolare come sostitutivo della relazione amorosa. In questo caso alcuni studiosi hanno sospettato che il carteggio, consistente in due sole ma lunghissime lettere, sia opera di un solo autore, il poeta. Altra testimonianza di scambi analoghi è il ciclo di bigliettini d’amore fra Marbodo di Rennes e sue amiche allieve, recuperate nel 1950 da Walter Bulst. Questo tipo di lettere sembra rappresentare l’anello di congiunzione fra l’epistola d’amore in prosa e la poesia d’amore impostata come un rapporto fra amanti lontani, che sarà un modello di larga influenza sulla poesia stilnovista e petrarchesca.