Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
All’insegna della letterarietà, l’epistolografia s’impone in età rinascimentale quale nuovo genere della prosa in volgare. Nasce, proprio nel Cinquecento, la “lettera moderna”: genere di frontiera, ospita scritture diverse, senza mai snaturarsi.
Tradizione medievale e sperimentalismo quattrocentesco
A una prima funzione di documentazione privata (quotidiana, “di servizio”), l’epistolografia va accostando, tra Tre e Quattrocento, una funzione più specificamente letteraria, nel solco della codificazione di “genere” – stilistica e semantica – operata da Petrarca e mirante alla conciliazione della tradizione retorica medievale di artes dictandi e modi epistolandi (che presiedevano l’organizzazione formale del discorso orale – l’orazione – come dello scritto – documenti giuridici, cancellereschi, notarili) con la riscoperta esemplarità classica delle Familiares ciceroniane (1345). Nate private e rese pubbliche a edificare l’identità intellettuale del loro autore, le lettere di Cicerone alimentano le doppie stesure delle lettere petrarchesche, laddove la separazione tra discorso per l’ufficialità e discorso “familiare” (aperto alla letterarietà) si acuisce vistosamente: lettere di cancelleria, a gestione della cosa pubblica, convivono con missive private (si vedano quelle di Coluccio Salutati), partecipando entrambe della medesima commistione vita civile-humanae litterae.
La lettera vede restituito quel valore di opera pubblica che la abilita - quale spazio di massima immediatezza di “conversazione” - a nuovo mezzo di formalizzazione letteraria. Pienamente quattrocentesca, tra imitazione e sperimentalismo centrifugo, l’epistola umanistica si presta a colloqui tra amici come a dibattiti eruditi; lettera-dichiarazione e lettera-manifesto (come nel caso di Giovanni Pontano), si fa trattato (filosofico, morale, scientifico) in forma di missiva per l’interloquire dei membri di cenacoli e accademie, tra dibattiti letterari e questioni “sulla lingua”, non disdegnando polemica e disquisizione controvertistica.
Tra Quattro e Cinquecento. Varietà, diglossia e ascesa dell’epistolografia volgare
Pietro Bembo
Lettera di Pietro Bembo a Maria Savorgnan
Lettere del Cinquecento, 25 aprile 1500
Dicono i poeti che negli oscuri abissi è uno, il quale tra belle e dolcissime acque posto insino al mento, bere non può giamai, quantunque si senta tutto per la sete dileguare e venir meno. Priego ora io voi, o nuovo e caro e solo obietto de’ miei pensieri, che non vogliate procacciare che ancora qui su nel bel mondo somiglianti martìri si ritrovino in danno di voi, alla quale più utile può essere una vera fede di puro amante allegra che maninconosa. A’ 25 d’aprile 1500.
P. Bembo, Lettere del Cinquecento, a cura di G. G. Ferrero, Torino, Utet, 1959
Niccolò Machiavelli
Lettera di Niccolò Machiavelli a Francesco Vettori
Magnifico oratori fiorentino Francischo Vectori apud Summum Pontificem, patrone et benefactori suo. Romae. Magnifico ambasciatore. «Tarde non furon mai gratie divine». Dico questo perché mi pareva haver perduta no, ma smarrita la gratia vostra, sendo stato voi assai tempo senza scrivermi, et ero dubbio donde potessi nascere la cagione. Et di tucte quelle che mi venivono nella mente tenevo poco conto, salvo che di quella quando io dubitavo non vi havessi ritirato da scrivermi, perché vi fussi suto scripto che io non fussi buono massaio delle vostre lettere; [...]. Non posso pertanto, volendovi rendere pari gratie, dirvi in questa mia lettera altro che qual sia la vita mia, et se voi giudichate che sia a barattarla con la vostra, io sarò contento mutarla. Io mi sto in villa, et poi che seguirno quelli miei ultimi casi, non sono stato, ad accozarli tutti, 20 dì a Firenze. Ho finito a qui uccellato a’ tordi di mia mano. Levavomi innanzi dì, impianavo, andavone oltre con un fascio di gabbie addosso, che parevo el Geta quando e’ tornava dal porto con e libri d’Amphitrione; pigliavo el meno dua, el più sei tordi. Et così stetti tutto settembre; dipoi questo badalucco, ancora che dispettoso et strano, è mancato con mio dispiacere; et qual la vita mia vi dirò. Io mi lievo la mattina con el sole et vommene in mio boscho che io fo tagliare, dove sto dua hore a rivedere l’opere del giorno passato, et a passar tempo con quegli tagliatori, che hanno sempre qualche sciagura alle mane o fra loro o co’ vicini. [...] Partitomi dal bosco, io me ne vo a una fonte, et di quivi in un mio uccellare. Ho un libro sotto, o Dante o Petrarca, o un di questi poeti minori, come Tibullo, Ovvidio et simili: leggo quelle loro amorose passioni et quelli loro amori, ricordomi de’ mia, godomi un pezzo in questo pensiero. Trasferiscomi poi in su la strada nell’hosteria, parlo con quelli che passano, dimando delle nuove de’ paesi loro, intendo avrie cose, et noto varii gusti et diverse fantasie d’huomini. Vienne in questo mentre l’hora del desinare, dove con la mia brigata mi mangio di quelli cibi che questa povera villa et paululo patrimonio comporta. Mangiato che ho, ritorno nell’hosteria: quivi è l’hoste, per l’ordinario, un beccaio, un mugniaio, dua fornaciai. Con questi io m’ingaglioffo per tutto dì giuocando a cricca, a triche-tach, et poi dove nascono mille contese et infiniti dispetti di parole iniuriose, et il più delle volte si combatte un quattrino et siamo sentiti nondimanco gridare da San Casciano. Così rivolto entra questi pidocchi traggo el cervello di muffa, et sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi. Venuta la sera, mi ritorno a casa, et entro nel mio scrittoio; et in su l’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango et di loto, et mi metto panni reali et curiali; et rivestito con decentemente entro nelle antique corti degli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, et domandarli della ragione delle loro actioni; et quelli per loro humanità mi rispondono; et non sento per 4 hore di tempo alcuna noia, sdimenticho ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tucto mi trasferisco in loro. E perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo havere inteso, io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, et composto uno opuscolo De principati bus, dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitazioni di questo subbietto, disputando che cosa è principato, di quale spetie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono. Et se vi piacque mai alcuno ghiribizo, questo non vi doverrebbe dispiacere; et a un principe, et maxime a un principe nuovo, doverrebbe essere accetto; però io lo indrizzo alla Magnificenza di Giuliano. Philippo Casavecchia l’ha visto; vi potrà ragguagliare in parte et della cosa in sé, et de’ ragionamenti ho hauto seco, anchor che tutta volta io l’ingrasso et ripulisco. Voi vorresti, magnifico ambasciadore, che io lasciassi questa vita et venissi a godere con voi la vostra. Io lo farò in ogni modo, ma quello che mi tenta hora è certe mia faccende che fra 6 settimane l’harò fatte. Quello che mi fa stare dubbio è che sono costì quelli Soderini, e quali io sarei forzato, venendo costì, vicitarli et parlar loro. Dubiterei che alla tornata mia io non credessi scavalcare a casa, et scavalcassi nel Bargiello, perché, ancora che questo stato habbi grandissimi fondamenti et gran sicurtà, tamen egli è nuovo, et per questo sospectoso, né ci manca de’ saccenti, che, per parere come Paolo Bertini, metterebbero altri a scotto, et lascierebbono el pensiero a me. Pregovi mi solviate questa paura, et poi verrò infra el tempo detto a trovarvi a ogni modo. Io ho ragionato con Filippo di questo mio opuscolo, se gli era ben darlo o non lo dare; et, sendo ben darlo, se gli era bene che io lo portassi, o che io ve lo mandassi. El non lo dare mi faceva dubitare che da Giuliano e’ non fussi, non ch’altro, letto, et che questo Ardinghelli si facesse honore di questa ultima mia faticha. El darlo mi faceva la necessità che mi caccia, perché io mi logoro, et lungo tempo non posso star così che io non diventi per povertà contennendo, appresso al desiderio harei che questi signori Medici mi cominciassimo adoperare, se dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso; perché, se poi io non me gli guadagnassi, io mi dorrei di me; et per questa cosa, quando la fussi letta, si vedrebbe che quindici anni che io sono stato a studio all’arte dello stato, non gl’ho né dormiti né giuocati; et doverrebbe ciascheduno haver caro servirsi d’uno che alle spalle d’altri fussi pieno di experienzia. Et della fede mia non si doverrebbe dubitare, perché, havendo sempre observato la fede, io non debbo imparare hora a romperla; et chi è stato fedele et buono 43 anni, che io ho, non debbe potere mutare natura; et della fede et della bontà mia ne è testimonio la povertà mia. Desidererei dunque che voi ancora mi scrivessi quello che sopra questa materia vi paia, et a voi mi raccomando. Sis felix. Die x Decembris 1513. Niccolò Machiavelli in Firenze
Ludovico Ariosto
Lettera di Ludovico Ariosto al duca Alfonso d’Este
Ill. et Ex. Signor mio. Le troppe gratie che V. E. fa a questi homini de la Vicaria di Camporeggiano li inasinisce, ché più honesto vocabolo non so loro attribuire, et nessuna cosa son per far mai se non per forza: io dico questo, ché mi par che usino gran torto al Capitano di Camporeggiano, che havendo esso fatto giustitiare quel ribaldo ch’haveva in prigione, et per li ordini et usanza che qui è dovendo per questo havere lire cinquanta, negano, per quanto me ne avisa il Capitano, di volerlo sodisfare, et credo che vorrano havere ricorso a V. E., confidandosi che così come quella è lor benigna et liberale nel suo particolare, così ancho debbia lor essere in quello che con gran fatica et continuo fastidio li officiali si guadagnano. Suplico V. E. habbia raccomandato il Capitano perché è da bene et dotto et buono et fidele servitore di quella, per accrescergli l’animo a lui et agli altri officiali di punir li tristi. Appreso gli significo che hora son capitati qui alcuni che vengono di Maremma, che dicono che molti fanti c’havevan preso denari a Pisa et poi s’erano imbarcati a Livorno per ire alla guardia di Genua, son stati tenuti in posta da Messer Andrea Dorio, o sia da frate Bernardino, ad un luogo detto Meloria, et morti, feriti et presi con li legni che li conducevano. O vera o falsa che sia la nova la dò a V. E. nel modo che io l’ho; in bona gratia de la quale humilmente mi raccomando. Ex Castelnovo, 22 junij 1522. Humil. Servitor, Lud. Ariosto
Pietro Bembo
Lettera di Pietro Bembo a Bernardo Tasso
Lettere del Cinquecento, 27 maggio 1529
Ho veduto gli otto sonetti, che mandati m’avete, volentieri; e sonomi piaciuti molto. E perché mi pregate e strignete assai cortesemente che io ve ne dica il parer mio, crederei essere indegno dell’amor mi portate se io di ciò liberamente non vi piacessi. Così vi mando in questo foglio alcuni pochi avertimenti. Voi vi penserete sopra, e rassetterete meglio quelle parti, le quali vi parrà che bisogno n’abbiano, di quello che ho fatto io: che non v’ho posto se non poca ora. Quanto al maestro Pellegrino Moretto, che ha segnate le mie Prose con le parole ingiuriose che mi scrivete, potrete dirgli che egli s’inganna. Perciò che se ad esso pare che io abbia furato il Fortunio perciò che io dico alcune poche cose che egli avea prima dette, egli nel vero non è così. Anzi le ha egli a me furate con le proprie parole con le quali io le avea scritte in un mio libretto forse prima che egli sapesse ben parlare, non che male scrivere: che egli vide ed ebbe in mano sua molti giorni. Il qual libro io mi profero di mostrargli ogni volta che egli voglia; e conoscerà se io merito esser dallui segnato e lacertao in quella guisa. Oltre acciò io potrò farlo parlar con persone grandi e degnissime di fede, che hanno da me apparate e udite tuitte quelle cose, delle quali costui può ragionare, di molti e molt’anni innanzi che Fortunio si mettesse ad insegnare altrui quello che egli non sapea. Questa è la vendetta che io voglio che facciate per me. Del rimanente, s’egli sarà di buon giudicio, egli si rimarrà di colparmi a torto; se sarà di falso, questo solo fie allui giusta pena del suo peccato. Piacemi che siate con quella Duchessa in buono e quieto stato e onorevole; e di ciò mi rallegro con voi. Le proferte che mi fate userei io ogni volta che uopo me ne venisse. Nostro Signor Dio sia vostra guardia. State sano. A’ 27 di maggio 1529. Di villa nel Padovano.
P. Bembo, Lettere del Cinquecento, a cura di G. G. Ferrero, Torino, Utet, 1959
Apparentemente onnicomprensiva, l’epistola umanistica latina resta circoscritta, in realtà, a una cerchia selezionata di destinatari colti.
Di fatto, dall’ultimo quarto del XV secolo nuove improrogabili istanze comunicative ne segnano il declino: l’estensione dell’alfabetizzazione e l’“adozione generalizzata del volgare da parte di un numero sempre crescente di ‘liberi di scrivere’ di livello sociale medio-basso” – donne incluse, insieme all’“incremento della mobilità”, rendono massiccio “il ricorso al mezzo epistolare per mantenere contatti e istituire relazioni” in absentia (Armando Petrucci, Scrivere lettere. Una storia plurimillenaria, 2008), in pubblico, come in privato. Si moltiplicano, per gli intellettuali al servizio di corti sempre più burocratizzate, le lettere “notizia” e di “ragguaglio” (ne scrive, ad esempio, Matteo Maria Boiardo), ai “signori” (Maria Luisa Doglio, L’arte delle lettere. Idea e pratica della scrittura epistolare tra Quattro e Seicento, 2000) e “in nome” dei signori.
Carteggi ufficiali e ordinari si conservano con cura maggiore: se è più grande il valore “documentario e memoriale” riconosciuto all’epistolarità, cresce quindi anche l’esigenza (per l’uomo civile come per la professione) di acquisire una buona padronanza – grafica e formale – di una prassi epistolare degna e uniformata. Appare, nel 1485, il primo Formulario di epistole vulgare missive et responsive di Bartolomeo Miniatore (pseudonimo di Cristoforo Landino): di taglio ancora tardoumanistico, si fa riferimento longevo di promozione/diffusione del volgare “da lettera”, con riedizioni fino al 1558.
Nobilitazione del volgare, codificazione linguistica, elezione di modelli e ascesa dell’epistolografia volgare sono fenomeni consustanziali. Dal 1515 la cancelleria apostolica di Leone X adotta il volgare come “seconda lingua ufficiale della corrispondenza scritta”; sempre secondo Petrucci il “ceto dei colti professionali fa largamente ricorso alla diglossia sia nella propria produzione letteraria e filologica, sia nell’epistolografia”, adottando “non solo occasionalmente” anche il latino. E rivedendo la troppo categorica distinzione latino/volgare di Amedeo Quondam (Le “carte messaggiere”. Retorica e modelli di comunicazione epistolare. Per un indice dei libri di lettere del Cinquecento, 1981), Petrucci precisa che l’uso contemporaneo di latino e volgare pare “legato non tanto alla natura dei rapporti fra mittente e destinatario, quanto piuttosto all’argomento”, “in certa misura, anche al gusto della pura ostentazione linguistica nel rapporto col singolo amico o sodale lontano; dunque, ragioni personali e occasionali, più che scelta operativa e pratica”. Bilingue è il carteggio Giovanni Della Casa-Pier Vettori; bilinguismo conosce soprattutto l’epistolografia di Pietro Bembo, tra brevi latini redatti per Leone X, l’epistola-trattato De imitatione (1512), la fitta messe di lettere volgari: corollario esemplare ed estrinsecazione pratica della riforma ortografico-linguistica teorizzata nelle Prose della volgar lingua (Venezia, Tacuino, 1525). Parimenti, la formalizzazione grafica del volgare passa attraverso i trattati di scrittura editi a Venezia e Roma tra il 1524 e il 1530 (Giovanni Antonio Tagliente, Lucidario, 1524; Ludovico degli Arienti, Operina; Ugo da Carpi, Thesauro de scrittori, 1525): in pochi decenni “l’Italia finisce per divenire un territorio epistolare unificato, caratterizzato dal binomio: lingua italiana”(Bembo) e “scrittura cancelleresca”.
Esito di un adattamento, la “lettera volgare – prima ancora che mezzo elementare di comunicazione – nasce come genere letterario, prova tangibile ed ufficiale” delle non impari facoltà del volgare (Nicola Longo, De epistola condenda. L’arte di “componer lettere” nel Cinquecento, 1981). Ora nettamente distinta dalla lettera pubblica (diplomatica, di governo), la lettera privata volgare, familiare, è luogo dell’individualità rinascimentale e dell’autobiografia che non teme giustificazioni (Gianluca Genovese, La lettera oltre il genere, 2009); lungo eventi occorsi e narrati, è signum animi, aperta – per Machiavelli – a “ghiribizzi”, “castellucci”, “ragionamenti”, “parabole ascose” e “sfoghi” non privi d’intenzionalità letteraria, benché le sue lettere (scritte tra il 1497 e il 1527 e brucianti dal 1512 post res perditas) non nascano per la pubblicazione: come pure le 214 di Ariosto, di cui ben 154 redatte in Garfagnana (1522-1525), ancorate ad accadimenti, urgenze pratiche ingrate, affari locali da dirimere – “retroterra ‘concreto’ del Furioso” – e lontanissime dall’elaborazione intellettuale e letteraria dell’epistolario di Petrarca.
Un nuovo genere epistolare: il “libro di lettere” in volgare,1538-1564
Pietro Aretino
Lettera di Pietro Aretino a Tiziano
Lettere, 9 novembre 1537
Egli è stato savio l’avedimento vostro, compar caro, avendo voi pur disposto di mandare l’imagine de la reina del Cielo, a l’Imperadrice de la terra. Né poteva l’altezza del giudizio, dal qual traete le meraviglie de la pittura, locar più altamente la tavola in cui dipingeste cotal Nunziata. Egli s’abbaglia nel lume sfolgorante che esce da i raggi del Paradiso, donde vengano gli angeli adagiati con diverse attitudini in su le nuvole candide, vive, e lucenti. Lo Spirito Santo circondato da i lampi de la sua gloria, fa udire il batter de le penne, tanto simiglia la Colomba di cui ha preso la forma. L’arco celeste, che attraversa l’aria del paese scoperto da l’albore de l’Aurora, è più vero che quel che ci si dimostra doppo la pioggia inver la sera. Ma che dirò io di Gabriele messo divino? Egli empiendo ogni cosa di lume, e rifulgendo ne l’albergo con nuova luce, si inchina sì dolcemente col gesto de la riverenza, che ci sforza a credere che in tal atto si rappresentasse inanzi al cospetto di Maria. Egli ha la Mestade celeste nel volto, e le sue guancie tremano ne la tenerezza composta dal latte e dal sangue, che al naturale contrafà l’unione del vostro colorire. Cotal testa è girata da la modestia, mentre la gravità gli abbassa soavemente gli occhi; i capegli contenti in anelli tremolanti acennano tuttavia di cadere da l’ordine loro. La veste sottile di drappo giallo, non impacciando la semplicità del suo involgersi, cela tutto lo ignudo, senza asconderne punto; e par che la zona, di che è soccinto, scherzi col vento. Né si son vedute ancor ali che aguaglino le sue piume di varietà, né di morbidezza. Il Giglio recatosi ne la sinistra mano, odora e risplende con un candore inusitato. In somma par che la bocca, che formò il saluto che ci fu salute, esprima in note Angeliche «AVE». Taccio de la Vergine prima adorata e poi consolata dal corrier di Dio, perché voi l’avete dipinta in modo, e con tanta meraviglia, che l’altrui luci abbagliate nel rifulgere de i suoi lumi pieni di pace e di pietade, non la posson mirare. Come anco per la novità de i suoi miracoli non potremo laudare l’istoria che dipignete nel palazzo di san Marco, per onorare i nostri Signori, e per accorar quegli che non potendo negar l’ingegno nostro danno il primo luogo a voi ne i ritratti, e a me nel dir male, come non si vedessero per il mondo le vostre, e le mie opere. Di Vinezia, il .ix. di Novembre. M.D.XXXVII.
Pietro Aretino
P. Aretino, Lettere, a cura di P. Procaccioli, Roma, Salerno Editore, 2002
La pubblicazione, nel 1538, del Primo libro de le lettere (Venezia, Marcolini) di Pietro Aretino inaugura un nuovo genere epistolare: la raccolta a stampa di lettere private in volgare di autore moderno. Intento polemico di flagello dei principi (Ariosto) ed amplificazione della fama di “avventuriero della penna” a parte, Aretino fonda uno strumento di comunicazione diffusa: se la lettera – anche nei trattati europei – è “res tam multiplex propeque ad infinitum varia”, “versipellis ac polypus” (Erasmo, De conscribendis epistolis, 1534, ovvero cosa così molteplice e quasi infinitamente varia, e mutevole), una raccolta – per di più di paternità accreditata – è contenitore duttile di temi ospitati; aggira l’analiticità della trattatistica come l’organicità della novella; promuove, a un tempo, schemi epistolari (tendenzialmente tutti) e modelli di comportamento – nel caso del “secretario del mondo”, alternativi al classicismo di corte di Bembo e Castiglione (Il Cortegiano, 1528 e “la sprezzatura”). Il successo editoriale è poderoso; seguono altri cinque volumi di lettere (1542; 1546; 1550, quarto e quinto; 1557, postumo) in cui al comico e all’edonismo linguistico dell’esordio – che intanto assurge a paradigma manierista nella ricezione, per immediatezza informativa e vivacità espressiva – si accostano via via decoro e toni più compìti, fino alla “sentenziosità salottiera e moralistica” degli ultimi libri, tra parabola e comico pietoso, in linea con la stretta controriformistica coeva (concilio di Trento, 1545-1563; Index librorum prohibitorum, 1559). Tra gli anni Trenta e Cinquanta, il connubio imprimeurs colti-letterati avvertiti elabora poi, accanto alle raccolte monografiche d’autore, miscellanee di lettere di uomini illustri (Lettere volgari di diversi nobilissimi uomini, Manuzio, 1542; Lettere di diversi eccellentissimi uomini, a cura di Ludovico Dolce per Giolito, 1554; Lettere di tredici uomini illustri e Lettere facete e piacevoli, a cura di Dionigi Atanagi, per Dorico, 1554 e Zaltieri, 1561): note come “carte messaggiere”, anche Montaigne ne testimonia prestigio e vastità di circolazione: ce sont grands imprimeurs de lettres que les Italiens. J’en ay, ce croy-je, plus de cent volumes (“gli italiani sono grandi editori di lettere. Ne possiedo, credo, più di cento volumi”). Dal valore fortemente modellizzante, appaiono nella veste dichiarata del repertorio di testi esemplari della “Thoscana eloquenza”, funzionalizzata a “utilità degli studiosi” nel ritrarre la “vera forma del ben scrivere” a “frutto e diletto” (Quondam), eppur veicolano “informazioni politiche e militari sui drammatici eventi delle guerre d’Italia e offrono un quadro delle tensioni religiose dell’epoca” (Lodovica Braida, Libri di lettere. Le raccolte epistolari del Cinquecento tra inquietudini religiose e “buon volgare”, 2009).
“Oggetto individuato” e riconoscibile nel mare del mercato librario, il “libro di lettere” sostanzia la stessa praticabilità della scrittura epistolare; lungi dal ridursi a fatto episodico o marginale, è a tutti gli effetti un genere letterario: più effimero, tuttavia ipercaratterizzato. Si moltiplicano, a corollario, stampe – soprattutto aldine – di volgarizzamenti (Cicerone, Plinio, Seneca; pseudo-Falaride) e, di pari passo, formulari e trattatistica affinati: tra i più longevi, il Componimento di parlamenti di Tagliente (undici edizioni, 1527-1635).
Dominano però, nella prima fase del “libro di lettere” (1538-1564), gli epistolari individuali di “famosi auttori” (letterati-intellettuali insigni, viventi o da poco scomparsi), radunabili lungo la discriminante dei paradigmi polari Bembo/Aretino. Rigovernato fin dal 1544, l’epistolario di Bembo appare postumo, in quattro tomi (Roma, Gualteruzzi, 1548, con la terza edizione delle Rime; 1550; Venezia, Scotto, 1552-1553), a custodire – nella scissione lettere illustri/ familiari – il “pretioso e sacro thesoro della nostra volgar lingua”, ispirata a Prose e Asolani. Affini a detta linea cortigiano-accademica, anche gli epistolari di Claudio Tolomei (1492-1556), edito da Giolito nel 1547; Bernardo Tasso (1493-1569); Girolamo Muzio (1496-1576), Luca Contile (1505-1574) e Antonio Minturno (1500-1574). Ad Aretino si ispirano invece, per spigliatezza espressiva centrifuga, Anton Francesco Doni – per Marcolini, nel 1552; Paolo Giovio; Girolamo Parabosco; Andrea Calmo, Ortensio Lando (1510-1558) e Cesare Rao (1532-1588), maestri del sottogenere familiare della lettera comica, faceta, burlesca, tra parodiche infiltrazioni mistilingui (vernacolo, latino), polemica antipetrarchista e interferenze di generi (per colloquialità e brevità, la novella).
Il “libro di lettere” in volgare: 1564-1588
Chiuso nel 1563, il concilio tridentino “divide in due la storia della cultura italiana, con conseguenze irreversibili” (Carlo Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, 1960). L’inaugurarsi dell’età del “segretario” è sancita ufficialmente, nel 1564, dall’edizione veneziana – in quattro tomi – del Secretario di Francesco Sansovino (1521-1586). Ristampato in sette volumi nel 1578 e incontrastato fino al 1608, il trattato fissa autorevolmente, a formulario, le norme de epistola condenda e i tre generi retorici di appartenenza: al genere suasorio-deliberativo, la lettera che “concilia, esorta, dissuade, consola, addomanda, ammanisce, raccomanda”; al dimostrativo, la lettera che “descrive persone, paesi, campi, fortezze, fonti, forti, tempeste, viaggi, conviti e somiglianti”; al giudiziale, la lettera che “espone l’accusa, le querele, le riprensioni, le minacce, le invettive”; un quarto genere “misto”, narratorio, è per la lettera “d’avviso, rallegratoria, lamentatoria, commessiva, ringratiatoria, laudatoria, officiosa, burlesca”.
Anche il genere dei “libri di lettere” subisce, dopo lo stabilizzarsi degli anni Cinquanta, un inevitabile scarto: rarefatti gli epistolari di “famosi auttori”, le nuove raccolte – i sécretaires – ordinano rigidamente le lettere repertate (e de-funzionalizzate) per materie, generi, capi retorici; prontuari modulari per lettere “di negozio”, provano un’imitazione puramente denotativa.
Fanno eccezione, marcando ulteriormente il trapasso, le Familiares di Michelangelo Buonarroti e Annibal Caro. Mai pensate per la pubblicazione e apparse solo nel 1875, le lettere del primo – tra inquietudine e candore – non conoscono atteggiarsi retorico ma “familiarità rude e disadorna”. Altrettanto incidentale è il rapporto con l’epistolografia di Caro, legata a occasionalità e frammentarietà: avverso all’idea di un corpus (Venezia, Aldo Manuzio, 1572-1575), vivente concede che si pubblichino solo 43 lettere di valore meramente documentario (“faccende”, “negozii”, “de’ padroni”), non condividendo – in antitesi al petrarchismo – l’idea di letterarietà per la missiva privata: il tono dimesso, eppur ineccepibile, certifica nel dilemma alto/umile la più alta mediocritas morale e intellettuale.
È tra gli anni Ottanta e lo scadere del Cinquecento che si compie, nel “percorso circolare dal formulario al formulario, dalla Corte alla Corte”, l’intera parabola del “libro di lettere”: da documento di una rete esemplare di rapporti intellettuali e raccolta d’autore, a strumento omologante, macrorepertorio di citabilia. Dal “cortigiano”, al segretario di rango, fedele al suo signore, oratore ed epistolografo mirabile (Marcello Scalzini, Il secretario, 1581; Torquato Tasso, Il segretario, 1587; nel 1594, Del bon Segretario di Angelo Ingegneri e Il Segratario di Giovan Battista Guarini, le cui lettere, edite per la prima volta nel 1593 in ordine cronologico, ricompaiono nel 1598 “sotto capi divise”). Resta tuttavia la cifra altissima della letterarietà nel fitto epistolario di Tasso (edito nell’Ottocento da Cesare Guasti), di cui escono nel 1588, in due volumi curati da Giovan Battista Licino, le Familiari: apologia della Liberata (Lettere poetiche); autobiografia intellettuale, culturale e spirituale; dolori di “escluso” nel reclusorio di Sant’Anna; ricerca di ritmo e concinnitas anticruscante ne fanno – ancora per Leopardi, e con Caro – la cifra del miglior Cinquecento.