epitesi
L’epitesi (dal lat. tardo epithĕsis, a sua volta dal gr. epíthesis «sovrapposizione, aggiunta»; il termine originario si basa sul tema di epitíthēmi dal significato di «porre sopra o accanto») consiste nell’inserimento di uno o più suoni non etimologici in fine di parola. Nella terminologia degli antichi grammatici, il fenomeno è definito anche paragoge.
Il fenomeno contrario dell’epitesi è l’apocope. Altri fenomeni di inserzione di suoni, non etimologici, all’interno ed all’inizio della parola sono noti rispettivamente come ➔ epentesi e prostesi.
L’epitesi è un fenomeno sia diacronico che fonetico. Nella sua accezione diacronica è stata produttiva nel passaggio dal latino alle lingue romanze e ha generato forme della lingua standard e in particolare di quella scritta.
I casi più frequenti di epitesi di questo primo genere devono essere ricercati nelle forme verbali. L’infinito del latino ĕsse, per un processo di allineamento con le altre forme verbali, subisce l’epitesi della sillaba -re diventando in italiano essere. In ➔ Dante è possibile trovare in forma di sostantivo la parola originaria: «anzi è formale ad esto beato esse» (Par. III, 79). Nella forma del passato remoto, almeno fino all’Ottocento, possiamo trovare la desinenza arcaica, priva di sillaba epitetica, soprattutto nella sesta persona del verbo: amaro «amarono» direttamente derivato dal latino volgare amārunt piuttosto che dal classico amăverunt. Ciò vale anche per i verbi potero, sentiro, ecc. Queste forme furono sostituite nel fiorentino, anche se non del tutto, già nel Trecento, da amarono, poterono, sentirono, con epitesi quindi della sillaba -no, anche sul modello di verbi già esistenti come amano, possono, sentono, ecc. Traccia di parole senza epitesi di -no si trova comunque in poesia e letteratura, come nel caso di “A Silvia” di ➔ Giacomo Leopardi: «agli anni miei / anche negaro i fati / la giovinezza».
Oltre alle forme verbali, l’epitesi fu anticamente (non nell’italiano contemporaneo) produttiva anche in parole che presentavano vocale accentata sull’ultima sillaba, o forme ossitone, come in amò e fu che diventarono amoe e fue con epitesi di -e.
Nell’italiano contemporaneo l’epitesi non è più un fenomeno produttivo, almeno per quanto riguarda le forme standard e le forme scritte, ma è spesso utilizzata nel parlato, per semplificare strutture sillabiche e per uniformare o adattare i prestiti dalle lingue straniere (➔ adattamento) a una forma canonica dell’italiano per la struttura sillabica, morfologica e prosodica. Così, tutti i prestiti che terminano con consonante non ammessa nell’italiano in fine parola subiscono epitesi vocalica. Tale processo nella gran parte dei casi genera il rafforzamento della consonante finale, l’inserimento del suono vocalico centrale [ə] (➔ scevà) e il conseguente spostamento di accento sulla penultima sillaba, formando così una parola piana molto sentita come più italiana. Così filobus [ˈfilobus] diventa localmente [filoˈbusːə], lapis [laˈpisːə], cognac [koˈɲakːə], vermut [verˈmutːə]; tale adattamento avviene anche nei nomi propri come in David [Daˈvidːə]. Questo fenomeno è distribuito in tutto il territorio italiano, Toscana compresa (Tagliavini 1949).
Anche nei dialetti italiani l’epitesi è presente e si realizza in maniera differente da nord a sud. Ad es., i prestiti stranieri subiscono epitesi: in Toscano bus e frac diventano [ˈbusːe] e [ˈfrakːe] con epitesi della vocale -e e rafforzamento della consonante finale; in calabrese club diventa [ˈglubːu] con epitesi della vocale -u; a Napoli lapis è [ˈlapːəsə]; in Salento, bar dà [ˈbarːa], film dà [ˈfilmi], ecc., con epitesi dell’ultima vocale; nell’Italia centrale tram sarà [ˈtramːe], con epitesi di [ə].
In Toscana come nel Lazio si registra (anche se oggi non più così spesso) una epitesi di vocale in parole tronche come più, andrò, udì e partì che diventano [ˈpjue], [anˈdrɔe], [uˈdio] e [parˈtio] (Canepari 1979: 214). Gli stessi dialetti toscani condividono con alcuni dialetti centro-meridionali epitesi sillabiche consistenti nell’aggiunta di -ne a monosillabi come me [ˈmene] «me»; sì [ˈsine]; no [ˈnone]. In molti dialetti meridionali è presente l’epitesi della sillaba -di o -si alla fine della terza persona dei verbi come era → eradi, dice → dicese, o dicesi, ecc.
In Sardegna, benché siano accettate le parole con terminazione consonantica (come in -s), si verificano fenomeni di epitesi di una vocale con la stessa qualità della vocale precedente (come per l’armonia vocalica): così si avrà [ˈdomuzu] «case» con epitesi di vocale -u e [ˈfeminaza] «donne» con epitesi di vocale -a.
Canepari, Luciano (1979), Introduzione alla fonetica, Torino, Einaudi.
Devoto, Giacomo & Giacomelli, Gabriella (1991), I dialetti delle regioni d’Italia, Firenze Sansoni (1a ed. 1971).
Sobrero, Alberto A. (1974), Una società fra dialetto e lingua, Lecce, Milella.
Sobrero Alberto A. (a cura di) (200712), Introduzione all’italiano contemporaneo, Roma - Bari, Laterza, 2 voll. (vol. 1°, Le strutture; vol. 2°, La variazione e gli usi).
Tagliavini, Carlo (1949), Le origini delle lingue neolatine. Corso introduttivo di filologia romanza, Bologna, Pàtron.