Epitteto e Marco Aurelio. Scelta e discorso a se stesso
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La nozione di “scelta” (prohairesis) in Epitteto e il discorso rivolto a se stesso, teorizzato e messo in pratica da Marco Aurelio, costituiscono l’apice della riflessione sull’autonomia individuale tra il I e il II secolo: la scelta è per Epitteto il solo dato che “dipende da noi” e che guida il singolo nella via del perfezionamento ispirato alla filosofia; a questo scopo mira anche Marco Aurelio, “rivolgendosi” a se stesso nella scrittura e “confidando” in se stesso come nel più valido interlocutore.
La nozione di “scelta” è un concetto fondante della filosofia di Epitteto, protagonista, insieme con Seneca e Marco Aurelio, dello stoicismo di epoca imperiale. Essa coinvolge in particolare la riflessione di questo filosofo sulla libertà umana e costituisce, agli occhi di Epitteto, tanto il fondamento quanto il criterio articolatorio dell’attività filosofica.
Con “scelta” si traduce convenzionalmente il termine greco prohairesis, deverbale di proaireo, composto dal preverbo pro- (“prima”) e da haireo (“prendere, scegliere, preferire”). Pro- può avere in tale composto due significati: temporale (prima nel tempo, precedentemente) o comparativo-preferenziale (prima rispetto a qualcos’altro che viene tralasciato).
Dalle sparute testimonianze in nostro possesso si evince che nel senso di “scelta prima della scelta” il termine era impiegato dagli stoici antichi, che davano dunque al prefisso pro- un significato temporale (SVF 3, 173) e intendevano probabilmente la prohairesis come una sorta di “scelta preliminare” di condotta di vita. Essi ritenevano la prohairesis una forma dell’impulso pratico, in particolare della volontà, e l’hairesis come un desiderio (boulêsis) compiutamente razionale e pertanto prerogativa del saggio. Prima degli stoici, Aristotele aveva impiegato estensivamente il termine nelle sue opere e aveva assegnato al prefisso un significato comparativo, intendendo proairesis come “scelta preferenziale”, presa mediante una deliberazione individuale; nello specifico, Aristotele definiva la prohairesis un “desiderio deliberativo che riguarda le cose che dipendono da noi (bouleutikê orexis ton eph’hêmîn)” (Etica Nicomachea, 3, 5, 1113a 10-11).
Tuttavia, anche se è impossibile verificare se Epitteto avesse una conoscenza di prima mano delle opere aristoteliche, egli, dopo aver certamente raffrontato l’impiego del termine in Aristotele e nei primi stoici, modifica i precedenti significati di prohairesis e ne amplia la portata, rivelandosi così debitore più dello Stagirita che dei suoi predecessori stoici. In effetti, come mostra la definizione aristotelica sopra riportata, Epitteto eredita dalla definizione di Aristotele anche un altro concetto, che egli connette strettamente alla prohairesis: eph’hemin, “(ciò) che dipende da noi”. Rispetto alla definizione aristotelica, Epitteto ribalta i termini della questione: se Aristotele aveva definito la prohairesis “desiderio deliberativo che riguarda le cose che dipendono da noi”, Epitteto afferma che solo la prohairesis e le “azioni proairetiche” sono le cose che dipendono da noi – 1, 22, 10; il riferimento è al libro, discorso e paragrafo delle “trascrizioni” dei discorsi di Epitteto a opera di Arriano, mentre il resto, corpo, parti del corpo, beni materiali, altri individui, è indipendente da noi. Ciò che dipende da noi non è l’oggetto della prohairesis ma si identifica con essa.
Rispetto agli stoici antichi, Epitteto assegna la facoltà di scelta non solo al saggio, ma a ogni essere umano, in particolare a colui che si impegna nella via del perfezionamento per il tramite della filosofia. La distinzione, tradizionale in tutta la storia dello stoicismo, tra il saggio e il resto dell’umanità – in particolare il prokopton, colui che “avanza” nel cammino di formazione dettato dalla filosofia – gli è utile per articolare il concetto di “scelta”. Per Epitteto, infatti, la prohairesis è lo strumento necessario per conseguire la libertà (eleutheria); quest’ultima è il “bene supremo” (4,1, 52), condizione duratura dello spirito del saggio e scopo a cui ciascun essere umano deve tendere, giacché essa permette di vivere in completa autonomia dall’esterno e da ciò che sfugge al controllo individuale (il corpo, per esempio) e di agire esclusivamente sulla base delle proprie facoltà razionali. La prohairesis è lo strumento capace di condurre a tale condizione e in quanto tale deve essere considerata come una facoltà o un atto mentale piuttosto che come il risultato di un atto deliberativo. Per questa ragione alcuni interpreti, soprattutto di area anglosassone, traducono il termine con “volizione”; è d’altronde probabile che, in contesto romano, Cicerone abbia impiegato il sostantivo voluntas per tradurre proprio la prohairesis aristotelica (per esempio De natura deorum, 2, 44, ma qui come altrove Cicerone non rende esplicito il termine greco che traduce).
Se si intende prohairesis come “scelta” – o più precisamente come “facoltà di scelta” – è necessario verificare il senso del termine dal punto di vista relazionale: “scelta” di che cosa? o “scelta” tra che cosa? In 1, 9, 24 Epitteto fornisce un esempio significativo: Socrate sente di dover preferire (hairesthai) di morire mille volte piuttosto che abbandonare il proprio posto (il contesto è una metafora militare). Più in generale, per Epitteto la scelta si compie tra i vantaggi esteriori – la vita stessa, ad esempio, come dimostra il caso di Socrate – e ciò che mira al bene supremo; quest’ultimo, come si è visto, consiste nella somma espressione della scelta, nel raggiungimento della libertà. L’idea di scelta come espressione perfetta della facoltà di scegliere non deve essere considerata circolare o tautologica, ma va letta nel contesto del progresso individuale, in una prospettiva di “ontogenesi morale”. Tale facoltà è parte di ciascun uomo, capace di portarlo spontaneamente alla scelta del bene. Inizialmente, essa tende a essere sovrastata dagli influssi esterni, dalle false opinioni e dalla subordinazione dell’intelletto ai bisogni e agli impulsi del corpo. Per contrastare tale corruzione la facoltà di scelta andrà esercitata con costanza, al pari di un arto o di qualsiasi altra facoltà umana, allo scopo di “irrobustirsi” e riuscire a opporsi agli influssi esterni. Alla fine di questo processo, l’individuo avrà ristabilito in pieno la condizione naturale di spontanea e autonoma scelta del bene, raggiungendo la completa libertà.
Identificandosi con il bene, la prohairesis acquista in Epitteto un’importanza pervasiva, tanto sul piano teorico quanto sulla dimensione pratica della sua filosofia. Alla luce di essa Epitteto reinterpreta la classica dottrina stoica degli indifferenti, le parti del reale che non appartengono né ai beni né ai mali: gli indifferenti sono gli oggetti esterni alla prohairesis, a cui questa può applicarsi – essa può cioè agire con scelte riguardanti, per esempio, la ricchezza o la salute – ma che ad essa rimangono estranee. Allo stesso modo, la bontà e la cattiveria umane non sono altro che “un tipo particolare di scelta” (1, 8, 16 e 1, 29, 1).
Almeno due luoghi dei Discorsi aiutano a mettere in luce l’applicabilità etico-pratica della “scelta”: in 2, 23, 6-29, la facoltà “proairetica” (dynamis prohairetike) è definita come la facoltà capace di gestire tutte le facoltà sensoriali e la parola; in 1, 17, 21-24, invece, la prohairesis è evocata allorché l’impulso (hormê) è definito come un atto di essa, con un evidente ribaltamento rispetto alla posizione degli stoici antichi, secondo cui era la prohairesis a essere una forma di impulso. La prohairesis, afferma inoltre quest’ultimo testo, si esercita nei tre ambiti dell’assenso, dell’impulso e del desiderio. Proprio attraverso la connessione con questi tre ambiti, la prohairesis interviene anche nell’articolazione della filosofia che Epitteto divideva non solo, secondo l’ortodossia stoica, in tre parti (logica, fisica ed etica), ma anche in tre ambiti (topoi): la dottrina del desiderio (orexis), relativa a ciò che appare come un bene o come un male, la dottrina dell’impulso, relativa a ciò che è appropriato o inappropriato, e la dottrina dell’assenso, relativa a ciò che è vero o falso. In ciascuno di questi tre ambiti, afferma Epitteto, l’individuo esercita la propria scelta. Nel caso del desiderio, egli dovrà estirpare ogni passione e orientare i propri slanci alla sola prohairesis. Nel caso dell’impulso, dovrà rendersi conto che, in quanto atto mentale, esso è del tutto governabile dalla facoltà di scelta; ciò lo distingue dall’adempimento stesso dell’azione che segue l’impulso, ma che non è del tutto in nostro controllo perché ad esso contribuiscono il corpo e altri elementi “che non dipendono da noi”. Anche l’assenso, infine, l’atto mentale con cui l’uomo reagisce all’impressione (phantasia) nata dall’incontro tra la sua anima e un oggetto esterno, è sotto il controllo della facoltà di scelta: a differenza dell’impressione, che implica un phantaston, un oggetto esterno che la provochi, esso risiede esclusivamente nel soggetto, è indipendente dall’esterno, ed è pertanto pienamente sotto il controllo della scelta. Coinvolgendo il desiderio, l’impulso e l’assenso, la scelta diviene il criterio fondante dell’esercizio filosofico e il nucleo dell’azione autonoma e libera dell’uomo.
Con la prohairesis, la facoltà di scelta teorizzata da Epitteto e da lui posta al centro della ricerca filosofica, il fulcro della speculazione è posto nell’agire e l’esercizio filosofico è volto al raggiungimento della completa razionalità dell’azione nell’ambito di “ciò che dipende da noi”. Essa si inscrive nella prospettiva del lavoro su se stessi e del progresso individuale concesso a ciascun essere umano: ciascun uomo è dotato per natura di tale facoltà, inizialmente debole come altre facoltà, fisiche o mentali, ma capace di esercitare se stessa per ripristinare il proprio stato di natura, libero da ogni incrostazione esterna. Quando la scelta sarà pienamente esercitata e del tutto consolidata, ciascun uomo potrà gestire le proprie azioni e la propria presenza nel mondo in completa autonomia: “la mia scelta, nemmeno Zeus la può vincere” (1, 1, 23).
Marco Aurelio scrive i Pensieri (ta eis heauton, discorsi rivolti a se stesso, titolo attestato dalla tradizione manoscritta, ma quasi certamente non autentico) negli ultimi anni della propria vita, trascorsi lontano da Roma sul campo di battaglia. Per mezzo di questo scritto Marco Aurelio intende comunicare con se stesso per tenere vivi nella propria anima i principi dello stoicismo, così da renderli un possesso stabile del proprio universo interiore e da determinare grazie a essi il proprio comportamento e la propria disposizione nei confronti del mondo. Tale progetto, per l’estensione e la qualità del risultato, può essere ritenuto il primo esperimento significativo di pratica del discorso interiore nell’antichità – pur non mancando precedenti episodi embrionali, come il celebre dialogo tra Odisseo e il suo cuore nel ΧΧ libro dell’Odissea (vv. 17-23), oltre che discussioni sul piano teorico, come quella sul pensiero come “discorso dell’anima con se stessa” nel Teeteto platonico, 189e-190a. Esso si fonda su una precisa posizione epistemologica – ammettere la legittimità e la possibilità dell’autopersuasione e dell’intervento sul proprio universo interiore – e presuppone scelte stilistico-argomentative coerenti con lo scopo prefisso.
Per Marco Aurelio, la necessità di rivolgersi a se stesso presuppone evidentemente, su un piano più elementare, l’assenza di un concreto interlocutore esterno. Essa possiede tuttavia implicazioni più profonde, di interesse filosofico. Come testimonia il primo libro dell’opera (la parte autobiografica e “retrospettiva” di essa, ove Marco Aurelio elenca i membri a suo giudizio più significativi del suo entourage, ricordando ciò che in ciascuno di essi ha osservato, ammirato e appreso), Marco Aurelio può godere dell’educazione letteraria e filosofica proprie del II secolo nella sua forma più evoluta e raffinata. Ciò lo porta a contatto con le dottrine filosofiche del tempo e con lo stoicismo in particolare; alla filosofia Marco Aurelio si dedica pur cosciente che i suoi doveri non gli permettono di essere un filosofo di professione (in 7, 67, per esempio, egli ammette la parzialità delle sue conoscenze nella fisica e nella dialettica, che insieme all’etica costituiscono le tre parti della filosofia secondo gli stoici). Ma l’esperienza dell’apprendistato filosofico presso i suoi maestri è presente nei Pensieri in un doppio registro: come bacino di dottrine e come modello di confronto dialettico, di domanda e risposta tra la voce di un maestro e quella di un allievo. Con la scrittura dei Pensieri Marco Aurelio fonde i due registri e impegna se stesso in un lavoro che sul piano dei contenuti si rifà alle dottrine apprese dai maestri e sul piano del metodo al modello dialogico e didattico; tuttavia, nei Pensieri i due interlocutori a confronto coincidono con la medesima persona, Marco Aurelio. Se i contenuti filosofici sono effettivamente frutto della preparazione pregressa, il discorso interiore ha lo scopo di mantenerli vivi e di introiettarli, cioè di permettere loro di diventare possesso stabile dell’anima. In 5, 16, 1, all’interno di uno dei passi programmatici dell’opera, Marco Aurelio afferma: “quali sono le cose frequentemente impresse (hoia an pollakis phantastes), tale sarà la tua mente: l’anima (psyche) infatti viene impregnata dalle impressioni (phantasiai)”. Come dimostra il seguito del testo, tali impressioni (phantasiai) capaci di determinare la struttura della mente – e di conseguenza il comportamento – sono dotate di contenuto proposizionale; non a caso Marco Aurelio propone come esempio di phantasia un breve sillogismo: “dove è possibile vivere, là è anche possibile vivere bene; ma in una corte è possibile vivere; dunque in una corte è possibile anche vivere bene”.
Un’altra sezione metadiscorsiva dei Pensieri illustra in maniera pressoché esauriente la concezione e la pratica del dialogo rivolto a se stesso di Marco Aurelio:“Cercano per se stessi dei ritiri, in campagna, al mare, o sui monti; [tu stesso hai l’abitudine di desiderare moltissimo questo genere di cose]. Ma si tratta di una cosa del tutto stolta, poiché ti è possibile, in qualsiasi momento lo voglia, trovare un ritiro in te stesso. In nessun luogo, infatti, l’uomo si ritira in maniera più tranquilla e più distante dalle occupazioni di quanto non faccia con la sua anima [a], soprattutto chi possieda dentro di sé principi tali che, penetrandovi, si ritrova subito nell’agio più completo; con “agio” non intendo altro che la compostezza [b]. Pertanto, assicura a te stesso con costanza tale ritiro e rinnova te stesso [c]. Siano d’altronde brevi ed elementari [d] i concetti che, una volta trovati, basteranno a lavare tutto il dolore e rimandarti, privo di sdegno, alle cose a cui fai ritorno [e]. Per che cosa ti sdegni? Per la malvagità degli uomini [f]? Considera il principio [g] “gli esseri razionali sono nati gli uni per gli altri”, “sopportare è una parte della giustizia”, “sbagliano contro la loro volontà” e “quanti, che erano ostili l’un l’altro, che si guardavano con sospetto, che si odiavano, che si combattevano a colpi di lancia, sono già sepolti, ridotti in cenere”, e smetti una buona volta di sdegnarti [h]! O invece ti sdegni anche per ciò che è distribuito dall’universo [i]? Allora smetterai di farlo ribadendo la disgiuntiva “o cosmo o atomi” [j] oltre che gli argomenti a partire dai quali si è dimostrato che il cosmo è come una città [k]. Ti toccheranno allora gli affari del corpo [l]? Smetti di sdegnarti pensando che la mente non si mescola allo spirito vitale nel movimento liscio o ruvido di esso una volta che abbia conquistato se stessa e riconosciuto il proprio potere [m]; pensa inoltre ai principi relativi al dolore e al piacere che hai ascoltato e a cui hai assentito [n]. Ma la misera fama ti trascina [o]? Volgi lo sguardo alla velocità con cui tutto viene dimenticato, all’abisso dell’eternità, infinita nell’uno e nell’altro senso, al vuoto dell’eco, alla mutevolezza e all’avventatezza di chi dovrebbe giudicarti, all’angustia dello spazio in cui la fama sarebbe circoscritta. Infatti la terra tutta intera è un punto e, di essa, quale angolino sarà mai questa regione abitata? E poi qui, quanti e di che genere saranno coloro che ti loderanno [p]? Per il resto, ricordati che puoi ritirarti in questo campicello che appartiene a te stesso, e prima di ogni altra cosa non tormentarti, non sforzarti, ma sii libero e osserva le cose come da maschio, da uomo, da cittadino, da essere mortale [q] ” (4, 3, 1-9).
Il discorso rivolto a se stesso si fonda dunque su un principio di autosufficienza del singolo nel raggiungimento della serenità e del distacco dalle inquietudini quotidiane, scopi, questi, che dall’epoca ellenistica in poi furono condivisi dalla maggior parte delle scuole filosofiche e identificati con il fine stesso della filosofia. In Marco Aurelio, come negli altri stoici della sua epoca, tale idea è radicata in una più ampia prospettiva intersoggettiva e di relazione con il mondo esterno: l’individuo deve ritenere la propria felicità individuale, in ogni sua forma, come autonoma rispetto all’esterno, cioè rispetto agli oggetti materiali e agli altri esseri umani, e nel contempo – e senza che ciò appaia una contraddizione – sforzarsi per esprimere al massimo grado la propria natura sociale, agendo cioè nell’interesse degli altri, soprattutto quando ricopre un ruolo di responsabilità come quello di Marco Aurelio (alle occupazioni quotidiane bisogna dunque sempre fare ritorno [e]).
Il ritiro in se stessi comporta l’eliminazione del dolore e l’accettazione della realtà come essa è [a], allontanando ogni forma di stupore o di malcontento, giacché la realtà è il risultato di un ordine razionale e come tale deve essere accettata e “amata” dal singolo. Il ritiro in se stessi e la conseguente conciliazione con il reale si realizzano mediante risorse interiori [b] che sono in grado di ristabilire un equilibrio interno, definito da Marco Aurelio “compostezza” (eukosmia), che è minacciato dalle attività quotidiane, oltre che dalla tendenza dell’uomo all’errore. Coerentemente con quanto osservato in apertura, il lavoro filosofico di reazione alle distrazioni e all’errore mediante il ritiro in se stessi deve essere effettuato con costanza, così da trasformare tale tentativo di miglioramento in un possesso duraturo dell’anima [c]. Le risorse interiori a cui fa riferimento Marco Aurelio sono identificabili con “principi” ispirati alla filosofia, dotati di natura proposizionale e che per essere efficaci e a pronta disposizione (è il senso di procheiros, “a portata di mano”, frequentemente impiegato da Marco Aurelio; si veda 3, 13: “come i medici hanno sempre a portata di mano gli strumenti e i ferri per le cure urgenti, così tieni sempre pronti i principi necessari alla conoscenza delle cose divine e umane”) debbono essere concisi [d].
L’eliminazione del dolore e del malcontento nei confronti della realtà coinvolge pulsioni giudicate come inopportune (il desiderio di fama [o]) e altri ambiti del reale frequentemente oggetto della riflessione filosofica: il rapporto con gli altri esseri umani, nello specifico con la loro malvagità [f], l’accettazione del destino [i], la gestione degli impulsi corporei [l]. Ad ogni forma di malcontento che Marco Aurelio intende sradicare in se stesso corrispondono esempi concreti di principi in versione proposizionale, diversificati sul piano espressivo: possono essere mere asserzioni sulla natura e la struttura del mondo (“gli esseri razionali sono nati gli uni per gli altri”), riguardare più direttamente il dominio dell’etica (“sopportare è una parte della giustizia”), consistere in veri e propri esperimenti mentali di osservazione della realtà da una particolare prospettiva (contemplare l’estensione infinita dello spazio e del tempo per ridimensionare il desiderio di fama [p]) o avere una struttura più spiccatamente dialettica e dimostrativa. In particolare, nel testo riportato ([j]) si fa riferimento alla “disgiuntiva” “o cosmo o atomi” e agli “argomenti” con cui si è dimostrato che il cosmo è come una città: si tratta di un rimando a un gruppo di capitoli (4, 27; 6, 10; 6, 24; 7, 32; 8, 17,1; 9, 39, 1; 10, 6, 1; 11, 18, 2; 12, 14; 12, 24, 1) che discute appunto in forma di disgiuntiva, classificata dagli stoici tra le proposizioni non semplici (cfr. Diogene Laerzio 7, 72), le due ipotesi che l’universo abbia struttura razionale – la tesi stoica – o che esso sia fatto di atomi – tesi epicurea – e sia sostanzialmente privo di ordine; tale discussione ha lo scopo da un lato di rafforzare l’aderenza di Marco Aurelio alla tesi stoica, dall’altro quello di persuaderlo che, anche qualora l’universo fosse disordinato, egli dovrebbe persistere nel cammino di perfezionamento morale attraverso la filosofia. Ciò dimostra che, anche in un contesto in cui i contenuti dottrinali sono dati per assodati, Marco Aurelio non rinuncia a ripercorrere il cammino argomentativo che lo ha portato ad accettarli, dimostrando così una forma di “rispetto dialettico” di se stesso in quanto interlocutore.
Questi sono secondo Marco Aurelio i presupposti epistemologici, le tematiche e i metodi del discorso interiore del quale i Pensieri sono nel contempo registrazione e messa in atto. In tale dialogo con se stesso Marco Aurelio affronta tutti gli argomenti utili ad allontanare il “dolore” e lo “scontento” (la struttura razionale e provvidenziale del cosmo, la natura sociale dell’essere umano, l’indipendenza dell’uomo dalla propria corporeità) e utilizza i modi retorici della persuasione (la forma aforistica, il dialogo fittizio, la parenesi), allo scopo di trasferire nel proprio pensiero e nella propria azione tali contenuti, realizzando a pieno, e nella completa autonomia, la dimensione pratica della filosofia da lui accolta.