Vedi ANDHRA, Epoca dell'anno: 1958 - 1994
ANDHRA, Epoca
ĀNDHRA, Epoca (v. vol. I, p. 356). I- l termine Āndhra è noto originariamente come nome di popolo e non di regione; in senso geografico, compare per la prima volta nell'iscrizione del re pallava Śivaskandavarman (IV sec. d.C.) come Āndhrapatha (regione degli Āndhra), con Dhaññakada come capitale, nel distretto del fiume Krishna (Epigraphia Indica, VI, 1900-01, pp. 84-89). Come popolazione, gli Āndhra sono menzionati nei testi pali insieme ai Muṇḍaka, Kolaka, Cīna (Apadāna, 11, 359), nel Mahābhārata (Śabhāarvan, 31) e nel Rāmāyana (IV, 4) insieme ai Cōla, Cera e Pāṇḍya. Secondo l'Aitareya Brāhmaṇa (vii, 18) gli Āndhra sarebbero stata una tribù che viveva nella zona dei Vindhya, mentre per i Purāna (p.es. Mārkaṇḍeya Purāṇa, lvil, 48-49) essi avrebbero regnato sui territori compresi fra i corsi inferiori della Godavari e della Krishna.
Probabilmente, delle due notizie, è esatta la prima. È possibile che il loro luogo di origine fosse la regione immediatamente a S del Madhyadeśa. Per quanto riguarda le iscrizioni, gli Āndhra sono menzionati, per la prima volta, insieme ai Pārinda, nell'editto XIII di Aśoka, fra le popolazioni facenti parte del suo impero. Secondo Plinio il Vecchio (Nat. hist., VI, 22, 67) erano un popolo forte, con trenta città circondate da mura, numerosi villaggi e un esercito di centomila fanti, duecentomila cavalieri e mille elefanti.
Gli Āndhra sono stati identificati con i sātavāhana, in quanto i Purāna riportano una serie di nomi di sovrani Andhra o Āndhrabhrtya alcuni dei quali corrispondono a quelli delle iscrizioni e delle monete sātavāhana, anche se rimane parzialmente irrisolta la questione del loro rapporto.
In questo contesto per «āndhra» si intende il periodo storico che coincide in parte con il fiorire della dinastia sātavāhana e si estende oltre, fino all'incirca al IV secolo. Secondo il Matsya Purāṇa e il Vāyu Purāṇa la dinastia avrebbe regnato 460/456 anni: il fondatore sarebbe stato Siśuka/Sindhuka, identificato con il Simukha sātavāhana delle iscrizioni. Certo è che i primi anni della dinastia sono abbastanza oscuri, probabilmente con un periodo di declino corrispondente all'ascesa degli Kṣaharāta. Di questo primo periodo abbiamo qualche nome fornitoci dalle iscrizioni (Nāṇaghāt II, nel Maharashtra). Altre vaghe informazioni si possono trarre dal Periplo del Mare Eritreo (c.a 100 d.C.), anche se è tutt'ora incerta l'identificazione del Sarganes (Śātakarṇi I: c.a 27-17 a.C., figlio o nipote di Simukha?) e del Sandanes, i due sovrani menzionati nel testo. Intorno al 124 d.C. gli Āndhra/Sātavāhana riemergono con Gautamīputra Śrī Śātakarṇi, che sconfigge gli Kṣatriya (Rājput del Rajasthan, del Gujarat e dell'India centrale), gli Śaka (Kṣaharāta), gli Yavana (Indo-Greci) e i Pahlava (Indo-Parti). Sotto questo sovrano e sotto il suo successore Vāsiṣṭhīputra Puḷumāvi (tra il primo e il terzo venticinquennio del II sec. d.C.) il regno raggiunse la massima estensione, fino a includere tutti i territori compresi fra la Narmada e la Krishna, estensione quindi molto maggiore di quella dell'odierno Andhra Pradesh. Sembra che, a un certo momento, il centro del potere si sia spostato da occidente verso oriente, probabilmente per l'aumentata potenza degli Śaka, all'epoca di Rudradāman. La fine della dinastia è da porsi intorno alla prima metà del III secolo.
È difficile definire la produzione artistica di epoca āndhra. Sembra superata la teoria secondo la quale vi sarebbero stati due periodi, il primo compreso fra il 72 e il 25 a.C. e il secondo fra il 25 a.C. e il 320 d.C. Per produzione āndhra si dovrà piuttosto intendere quella compresa fra la metà del I sec. a.C. e il IV sec. d.C., che si estende, quindi, al di là dei limiti cronologici della dinastia e che termina con la scuola «orientale» di Nāgārjunakoṇḍa, fiorita sotto gli Ikṣvāku, i successori dei Sātavāhana nel Deccan centro-orientale.
La scuola di Nāgārjunakoṇḍa è la diretta continuazione di quella di Amarāvatī, dalla quale non può essere scissa. Pur essendo i sovrani āndhra di religione brahmanica, come è evidente dalle iscrizioni, i monumenti sono in genere buddhistici.
Ciò non esclude, tuttavia, che vi fosse una produzione artistica hindu attestata, p.es., dal famoso liṅga con la rappresentazione di Śiva da Guḍimallam (I sec. a.C.) che è stato stilisticamente avvicinato alla produzione di Bhārhut. Due sono i filoni artistici dell'epoca ā.: uno, occidentale, con numerosi monasteri rupestri del Maharashtra (Bedsā, Kārlī, Nāsik), e uno orientale con stūpa monumentali, i più famosi dei quali sono quello di Amarāvatī e quelli di Nāgārjunakoṇḍa.
L'architettura rupestre. - Rispetto alla produzione precedente, si accentua il distacco dai prototipi lignei e diminuisce progressivamente l'impiego del legno nelle strutture architettoniche. Secondo i precedenti modelli di Bhājā, Pitalkhorā e Kondivte si continuano a scavare caityagṛha (luoghi di culto che incorporano uno stūpa) e vihāra (monasteri) perpendicolarmente all'andamento della parete rocciosa. Le innovazioni introdotte a Bhājā e a Pitalkhorā sono generalmente adottate e il caityagṛha è ora formato da un solo ambiente, per lo più absidato, anche se esistono varianti a pianta rettangolare (p.es. Junnār: Ganesh Pahar 14). In fondo si trova lo stūpa. Vi può essere una fila di pilastri poligonali (in genere ottagonali) che seguono l'andamento a U delle pareti e che, girando dietro lo stūpa, danno luogo a un corridoio circumambulatorio (Bedsā 7, Kārlī 8, Nāsik 18, ecc.). Nella fase più antica i pilastri, leggermente rastremati verso l'alto, alla sommità sono inclinati verso l'interno (Bedsā 7), secondo i modelli precedenti (Bhājā 12), mentre in un secondo momento sono perpendicolari al suolo (Kārlī 8). Lo stūpa, monolitico, è formato da un tamburo singolo ( Bedsā 3, Nāsik 18) o doppio (Kārlī 8) che può avere una vedikā o recinto (Kārlī 8) e sul quale si impianta l'aṇḍa (elemento emisferico) che è sormontato dalla harmikā (edicola) racchiudente lo yaṣṭi (asta simboleggiante l'axis mundi) con i chattra (dischi o ombrelli). In alto, l'ultimo dei chattra può formare un tutto con il soffitto (Kāṇheri 2c e 4, ecc.). Il soffitto della navata centrale è a botte (Bedsā 7) e, in quelle laterali, più basso, è a mezza botte; può avere delle centine, a volte lignee, secondo i modelli precedenti. Al caityagṛha si accede mediante una o più porte spesso sormontate da un arco ogivale a forma di ferro di cavallo (gavākṣa, gomukha o kuḍu), generalmente noto in inglese come caitya arch, anche se la denominazione non è corretta (Bedsā 7, Kārlī 8, Nāsik 18, ecc.). Al di sopra di esso si può trovare un altro arco, dello stesso tipo e di dimensioni uguali o maggiori, che incorpora una finestra, impropriamente denominata in inglese come caitya window (Kārlī 8, Nāsik 18, ecc.). In entrambi i casi il modello è quello di epoca maurya della grotta di Lomāś Ṛṣi, a Barābar nel Bihar. Riprodotti in miniatura, questi archi possono ricoprire intere facciate o superfici esterne e, nel corso dei secoli, sono destinati a diventare uno dei motivi più comuni dell'architettura hindu. Il caityagṛha può essere preceduto da una veranda (Bedsā 7), con pilastri ottagonali con la base a forma di vaso (probabilmente simboleggianti il pūrnṇghaṭa o vaso dell'abbondanza) e capitelli a forma di loto campaniforme (simili a quelli di epoca maurya), sui quali si trova un āmalaka (anello di pietra costolato, che prende il nome dal frutto omonimo, Embilic Myrabolan) racchiuso in una «scatola» quadrangolare che regge un abaco a mensola rovesciata. Sull'abaco sono scolpite coppie di animali seduti addossati, cavalcati da personaggi maschili e femminili: questi ultimi, per la posizione, trattazione del corpo e costume, sono stati ravvicinati a quelli dei portali dello stūpa di Sāñcī, dei quali la grotta 7 di Bedsā sarebbe contemporanea (seconda terza decade del I sec. d.C.). Nella maggior parte delle grotte buddhistiche dell'epoca sarà questo il tipo di pilastro che, in dimensioni anche minori, troveremo sia all'interno che all'esterno (p.es. Kārlī 8, dove il pūrnṇghaṭa si impianta su base quadrata, formata da quattro gradini), pur essendovi varianti in cui il pilastro è privo del capitello e ha solamente il pūrnṇghaṭa (Nāsik 18). La veranda, che può trovarsi anche di fronte ai vihāra, spesso ha una balaustra non molto alta (Nāsik 3) e, nella fase più tarda, può dare su un cortile, anch'esso con balaustra, al quale si accede dall'esterno mediante una bassa gradinata centrale (Kāṇheri 3). Fra quelli a pianta quadrata, sono da ricordare i caityagṛha privi di archi a forma di ferro di cavallo e provvisti di una o due celle che immettono nella veranda. Il caityagṛha può essere preceduto da un altro ambiente rettangolare, privo di celle e con veranda (Kuda 6), che sembra anticipare una delle caratteristiche delle grotte del V sec., in cui luogo di culto e vihāra vengono a formare un tutto unico. I vihara di epoca ā. sono in genere semplici, con un ambiente centrale, quadrangolare, sul quale si affacciano le celle dei monaci, anch'esse semplici, con un letto e, a volte, un cuscino, entrambi di pietra. Nella parete dalla parte del cuscino può trovarsi una nicchia, atta ad accogliere una lucerna. Le porte delle celle possono essere decorate con il solito motivo a ferro di cavallo. Il soffitto in genere è piano. L'ambiente centrale può essere preceduto da una veranda, con o senza pilastri. Con il passare degli anni vi è la tendenza a estendere la superficie del vihāra, il quale, in alcuni casi, è anche di due piani (Junnār: Śivneri 26). La grotta 3 di Nāsik, storicamente databile, è prezioso esempio di un vihāra della seconda metà del II sec. d.C., così come fu ricostruito sotto Puḷumāvi. La grotta è formata da una veranda (a N) da cui si accede a due celle, una a SE e l'altra a O. Dalla veranda, due porte conducono nel vihāra vero e proprio, a pianta quadrangolare, sul quale si affacciano, sui rimanenti tre lati, complessivamente diciotto celle non decorate e con giacigli. Delle due porte, quella di destra, di dimensioni maggiori rispetto all'altra, è decorata con un toraṇa scolpito in rilievo basso e reca scolpiti, uno per ogni lato, due dvarapāla («guardiani della porta»). Sulla parete di fondo del vihāra, in basso rilievo, è uno stūpa circondato da vari personaggi, forse preludio di quello che sarà il sanctum scavato nel muro di fondo dei vihāra più tardi. Il soffitto della grotta è piano. Va considerato a parte il più antico vihāra 11 di Bedsā (seconda-terza decade del I sec. d.C.), eccezionalmente a pianta absidale e con soffitto a botte. Sull'ambiente centrale si affacciano le celle, con la porta sormontata dal solito motivo a ferro di cavallo. Fra un arco e l'altro delle celle corre una vedikā in rilievo basso, a imitazione dei precedenti modelli lignei, imitazione che è anche visibile nella lavorazione a traforo delle piccole finestre scavate in quella parte della parete che separa, l'una dall'altra, le porte delle celle. Alcune delle celle, anziché uno, hanno due giacigli. Non si sa se vi fosse una veranda, essendo crollata la parete rocciosa.
Per quanto riguarda la produzione scultorea dei caityagṛha e dei vihāra di epoca ā., essa mostra affinità stilistiche con quella dei siti immediatamente precedenti, come, p.es., Pitalkhorā, la quale, a sua volta, è stilisticamente simile alla produzione di terrecotte «śuṅga». D'altra parte, se si considerano, p.es., le varie coppie divine della veranda di Kārlī 8, si nota, rispetto ai modelli precedenti, una maggiore naturalezza nella resa del movimento e, allo stesso tempo, una certa pesante plasticità che avvicina queste figure alle opere mature della scuola di Mathurā (Uttar Pradesh) di epoca kuṣāṇa.
Le sculture più antiche dell'Āndhra Pradesh e la scuola di Amarāvatī (v. vol. I, p. 297). - L'epoca ā. è famosa soprattutto per la produzione scultorea del filone «orientale», quando il centro del potere si era spostato a E, nell'attuale Āndhra Pradesh. La produzione della c.d. scuola di Amarāvatī, che prende il nome dal sito in cui sorgeva il famoso stūpa, è caratterizzata dall'impiego di una locale pietra calcarea bianca a sfumature verdastre (marmo di Palnad). All'epoca di Aśoka sembra risalire il nucleo originario dello stūpa, il quale fu ampliato nel corso dei secoli, fino ad assumere la sua forma definitiva nel III sec. d.C. Lo stūpa è stato quasi completamente distrutto. I bassorilievi che lo decoravano si conservano in parte in vari musei, fra i quali il Government Museum di Madras, il National Museum di Nuova Delhi, il British Museum di Londra, il Musée Guimet di Parigi. È a D. Barrett che dobbiamo la ricostruzione grafica dello stūpa, basata sulle descrizioni antiche e sul confronto sia con altri stūpa della regione, sia con il rilievo raffigurante lo stūpa stesso, del III sec. d.C., che una volta ne ornava il tamburo. Dalla ricostruzione di Barrett, si possono trarre le seguenti informazioni: l'aṇḍa si innalzava direttamente sul tamburo, di 50 m di diametro e alto 1,80 m, e cominciava a curvare al di sopra di un'ampia fascia rivestita di lastre decorative, rientrando alla sommità con una curva abbastanza rapida. La sommità dell'aṇḍa era sormontata dalla harmikā con, al centro, un pilastro ottagonale. Lo stūpa era privo di portali e a esso si accedeva mediante quattro ingressi situati ai punti cardinali della vedikā. A essi corrispondevano piattaforme sporgenti (āyaka) facenti parte dell'aṇḍa, su ciascuna delle quali si innalzavano cinque pilastri. La vedikā che è la parte meglio documentata, era composta da pilastrini collegati tra di loro da tre ordini di sūcī (traverse), disposte in modo tale da non consentire alcuna visibilità verso l'interno. All'esterno i pilastrini erano decorati, al centro, con medaglioni lotiformi e alle estremità con mezzi medaglioni, sempre lotiformi. Anche le sūcī avevano un motivo a medaglione. L' aṇḍa, con un fregio a mezz'altezza, doveva essere stuccato, anche se nulla rimane della decorazione.
Stilisticamente, ad Amarāvatī, si possono distinguere tre fasi. La prima, più antica, è caratterizzata da uno sviluppo verticale delle figure, dai contorni che si stagliano netti sullo sfondo e da una certa pesantezza nella resa dei particolari. Per quanto riguarda le origini dello stile di Amarāvatī, esse vanno ricercate in alcune opere del I sec. a.C., epoca in cui ebbe inizio nell'area la produzione scultorea in pietra, attestata p.es. da una serie di rilievi ritrovati a Jaggayyapeṭa e provenienti da stūpa che erano già completamente distrutti al momento della loro scoperta nel XIX secolo. Il più famoso di essi, con la raffigurazione del cakravartin (sovrano universale) (c.a 100 a.C.), oggi al Government Museum di Madras, per la resa allungata degli arti e il panneggio a sottili linee incise, si avvicina alle opere della produzione «śuṇga», a Bhārhut in particolare, e anche ai rilievi della grotta 22 di Bhājā per una certa «angolosità» delle figure. E a questi due siti, piuttosto che a Sāñcī, che si avvicina la prima fase di Amarāvatī.
Secondo Barrett, la seconda fase risalirebbe al terzo quarto del II sec. d.C. e quella di transizione fra la seconda e la terza intorno alla fine del II secolo. Interessante, a questo proposito, il rilievo della regione di Veṅgī (Andhra Pradesh) e oggi nel Museum of Fine Arts di Boston, scolpito su ambedue le facce in epoche diverse. Sulla prima delle due vi è la rappresentazione, aniconica, del bagno del Buddha nel fiume Nairañjanā. Il rilievo, che è stato fatto risalire, su basi stilistiche, alla prima metà del II sec. d.C., mostra una certa affinità con i portali dello stūpa di Sāñcī e con il grande gruppo di avori ritrovati a Begrām (Afghanistan), attribuibili per l'appunto alla produzione āndhra, anche se alcuni hanno preferito considerarli come appartenenti alla scuola di Mathurā. Alla semplicità e linearità della prima fase subentra una maggiore profondità, plasticità e naturalezza nella resa dei personaggi che riempiono sempre di più i rilievi, nei quali è evidente l'influsso della produzione scultorea di Kārlī, Nāsik e Kānheri. Secondo alcuni, non è escluso che, pur integrati completamente nel contesto indiano, prospettiva e naturalismo romani abbiano avuto un'influenza diretta sull'arte āndhra di questo periodo. Il rilievo sulla seconda faccia della stele di Veṅgī è più tardo del primo, e stilisticamente, rientra nella terza fase della scuola assieme a quello sopra menzionato con la raffigurazione dello stūpa di Amarāvatī. Questa fase è caratterizzata da una tendenza all'appiattimento. Emerge il gusto per gli elementi decorativi; le figure si allungano sempre più; i movimenti sono bruschi, innaturali e la composizione si trasforma in un nodo di linee concentriche spezzate inserite in motivi geometricamente rigidi, con un forte effetto di astrazione. Nella fase tarda di Amarāvatī, in particolare in quella che risale all'epoca compresa fra gli ultimi anni della dominazione dei Sātāvāhana e l'avvento degli Ikṣvāku, sono comuni le raffigurazioni del Buddha sotto l'aspetto umano, pur non mancandone rappresentazioni aniconiche, con simboli quali il cakra (ruota) e il pilastro fiammeggiante. Se sono frequenti le raffigurazioni del Buddha, rispetto alle contemporanee scuole di Mathurā e del Gandhāra sembrano essere più rare quelle dei Bodhisattva. Il rilievo da Goli (c.a II sec. d.C.) mostra un Padmapāṇi (?) stante affiancato da due attendenti nani, tipici della produzione āndhra. Per la sua posizione rigida e le dimensioni ridotte degli arti inferiori, il personaggio ricorda i dvarapāla di Nāsik 3, pur essendo, su basi stilistiche, simile ai contemporanei Bodhisattva della scuola di Mathurā, ai quali si avvicina anche iconograficamente per il particolare tipo di copricapo con grosso medaglione centrale (assente a Nāsik).
Lo stile di Amarāvatī trova la sua continuazione naturale in quello immediatamente successivo di Nāgārjunakoṇḍa, fiorito sotto la dinastia degli Ikṣvāku, a partire dalla prima metà del III secolo. Il sito di Nāgārjunakoṇḍa oggi è completamente sommerso in seguito alla recente costruzione del bacino idroelettrico di Nāgārjunasagar, anche se i monumenti più importanti sono stati ricostruiti su un colle sovrastante, oggi trasformato in isola. Esso comprendeva più di trenta monasteri appartenenti ai seguaci di almeno quattro correnti buddhistiche diverse. Le unità monastiche sono state classificate nel seguente modo: i) stūpa e vihāra. Gli stūpa possono essere senza o con āyaka; in questo ultimo caso gli āyaka, se più di uno, si trovano ai quattro punti cardinali. 2) stūpa, vihāra e caityagṛha con stūpa. Gli stūpa si trovano all'interno del caityagṛha. In genere il tamburo è sormontato da un aṇḍa piuttosto basso, come nei modelli «occidentali» del Deccan. I siti 5 e 26 hanno, anziché uno, due caityagṛha, i quali sono posti l'uno di fronte all'altro e hanno ciascuno uno stūpa all'interno. 3) stūpa, vihāra e caityagṛha con immagine del Buddha. Come nel caso precedente, vi possono essere uno o due caityagṛha. Nel secondo caso, essi sono affrontati e ospitano, all'interno, l'uno un'immagine del Buddha e l'altro uno stūpa. In un caso (85) troviamo l'immagine del Buddha in ambedue i caityagṛha. 4) vihāra e caityagṛha. Ve ne è un solo esempio. Il caityagṛha incorpora uno stūpa. 5) stūpa isolati. Fatta eccezione per il n. 15A, sono tutti provvisti di āyaka nelle quattro direzioni. Ai monumenti sopra ricordati, nelle diverse combinazioni, in un secondo momento si aggiunsero stūpa di piccole dimensioni, privi di āyaka, denominati stūpa «votivi».
La maggior parte degli stūpa di Nāgārjunakoṇḍa erano costruiti in mattoni, fatta eccezione per alcuni in pietra. La pianta era a forma di ruota, con un numero di raggi variante da un minimo di quattro a un massimo di dieci, a seconda delle dimensioni dello stūpa. Nell' aṇḍa la struttura radiale proseguiva verosimilmente in alzato sino alla parete esterna, a calotta, racchiudendo un riempimento di pietrame.
Questo particolare modo di costruire gli stūpa che troviamo anche nell'India del Nord-Ovest, oltre che a esigenze architettoniche di una maggiore stabilità dell'edificio, sembra legato anche a motivi religiosi, essendo la ruota il simbolo della Legge buddhista: questa ipotesi è convalidata dal fatto che al centro degli stūpa 20, 59 e 108, alla base, è stato trovato uno svastika, anch'esso non visibile dall'esterno. Tutti gli stūpa con sei, otto e dieci raggi avevano āyaka, mentre ne erano privi quelli senza o con soli quattro raggi. Agli inizî caityagṛha e stūpa erano separati dai vihāra, mentre in un secondo momento essi divennero parte dell'area residenziale. Il numero delle celle dei vihāra varia da due a trenta e forse più. La pietra in cui sono scolpiti i rilievi è del solito tipo, ma con maggiori sfumature verdastre rispetto a quella di AmarāvatI. I rilievi, a differenza che in quest'ultimo sito, potevano anche ricoprire l'intera cupola.
I rilievi di Nāgārjunakoṇḍa, stilisticamente, continuano la tradizione «orientale» āndhra, pur essendo evidente un certo manierismo. Gli arti inferiori dei personaggi si allungano sempre più, le figure si assottigliano e, pur essendo scolpite in altorilievo, mostrano un appiattimento superficiale. Le composizioni sono più animate, anche se meno complessi sono i raggruppamenti dei personaggi e la sovrapposizione dei piani.
Opere non buddhistiche. - Oltre al liṅga sopra menzionato di Guḍimallam, più antico, bisogna ricordare il rilievo della fine del III sec. d.C. da Koṇḍamatu, nei pressi di Nāgārjunakoṇḍa. Sul rilievo sono raffigurati Aniruddha, Sāmba, Pradyumna, Vāsudeva e Saṃkarṣaṇa. Fra Pradyumna e Vāsudeva si trova un leone seduto con due braccia umane che tiene nelle mani cakra (la ruota) e gaḍā (la mazza), due dei quattro attributi di Vāsudeva; quest'ultimo ha la mano destra in vyāvṛtta-mudrā e tiene nella sinistra śaṇkha (la conchiglia). I cinque eroi hanno tutti due sole braccia: anche Vāsudeva, il quale, anziché a quattro braccia, come normalmente avveniva all'epoca, sarebbe probabilmente stato rappresentato in tal modo per criterio di uniformità con gli altri personaggi. Per tale motivo l'artista avrebbe aggiunto a Vāsudeva un altro «portatore di attributi», cioè il leone. Non è escluso che quest'ultimo sia il prototipo della più tarda forma uomo-leone (Nṛsiṁha) del dio. Altra produzione caratteristica di quest'epoca tarda sono i pilastri commemorativi (chāyasthamba, da chāya, immagine e sthamba, pilastro) eretti in onore di personaggi famosi, scolpiti con episodi reali della loro vita e quasi tutti con iscrizioni dedicatorie. Il più famoso, che è anche il più antico di tutta l'India meridionale, fu eretto in onore del fondatore della dinastia degli Ikṣvāku. L'origine di questi pilastri è da ricercarsi nell'India occidentale, e in particolare nel Maharashtra (dove sono chiamati śilalaṣṭi, śilā-yaṣṭi, yaṣṭi), visto che uno dei più antichi sembra essere quello di Andhau, eretto nell'anno 89 (probabilmente dell'era śaka, e quindi nel 167 d.C.).
Le terrecotte. - In epoca ā. doveva esservi nel Deccan una produzione locale di terrecotte a imitazione di quelle ellenistico-romane importate direttamente dal Mediterraneo. Fiorenti erano i traffici commerciali con l'occidente, che avevano avuto un forte incremento a partire dal 100 a.C. Arikamedu/Virapatnam (Tamil Nadu), che non sembra facesse parte del dominio āndhra era, all'epoca, un grosso emporio «romano», da cui sono venute alla luce anfore e lucerne, gemme intagliate, ceramica aretina e dove, cosa ancora più importante, esisteva una produzione locale di ceramica a imitazione di quella mediterranea.
V. anche indiana, arte.
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