EPOPEA (gr. ἐποποιΐα)
Poesia narrativa. C'è un'epopea che riprende e riduce a organica unità di poema racconti elaborati dalla tradizione, e ce n'è un'altra nella quale tanto l'elaborazione fantastica del racconto storico quanto la sua formazione in poema è opera individuale; quella destinata in origine alla recitazione, questa alla lettura. Dell'epica tradizionale, espressione dell'anima dei popoli, si parla ripartendo l'esposizione secondo un criterio etnografico; dell'altra, riflessa, si parla, come richiede il suo carattere generale di classicità, in un solo capitolo diviso per letterature.
Epopea orientale.
Nel termine generico di "epica orientale", abbracciante la produzione poetica di così varie civiltà come l'indiana e persiana, l'ebraica e mesopotamica ed egiziana, è implicito soprattutto un valore di contrapposizione all'epica classica, greco-romana, che sola, si può dire, fino a poco più di un secolo fa, è stata nota al mondo occidentale, e ne ha così fortemente influenzato le letterature, servendo loro di modello normativo. Infatti soltanto col Romanticismo lo spirito moderno, venuto a contatto grazie alla linguistica, alla filologia e archeologia col mondo orientale, conobbe e amò e un po' anche fraintese e sopravvalutò la poesia delle antiche civiltà del Mediterraneo, dell'Īrān e dell'India (si ricordi l'anelito del Michelet, che "soffocava" nel ristretto mondo d'Omero, per le sfrenate fantasie del Māhābharata). L'epica indiana, la prima a essere conosciuta in Europa e ancor oggi relativamente più popolare e più nota, presenta davvero nei suoi due maggiori poemi un forte contrasto, per proporzioni, armonia, tecnica artistica, con l'epica classica: basta pensare alle centomila strofe del Māhābharata e alle 24 mila del Rāmāyana di fronte ai 15 mila versi dell'Iliade e ai diecimila dell'Eneide per farsi un'idea dell'imponente ma caotica mole di questi monumenti del genio indiano, ove confluì quasi totalmente lo sterminato numero di leggende e tradizioni mitiche, eroiche, religiose e guerriere dell'India antichissima (v. india: Letteratura). Non meno grandioso d'impostatura, più accessibile e gustabile in singoli episodî che in una lettura continuata, è l'altro grande epos ariano, lo Shāhnāmeh di Firdusi (v.) in circa 50.000 versi; elaborazione e sistemazione d'un talento poetico individuale, in epoca per vero assai tarda (fine sec. X d. C.), di tutto il patrimonio leggendario iranico, che però risale in millenaria tradizione, attraverso il Medioevo persiano (letteratura pehlevica dell'epoca sassanidica) ai più antichi stadî della civiltà iranica, ancora chiaramente collegati con quella indiana, e rappresentati dai testi sacri dell'Avestā (v.; v. anche persia: Letteratura).
Di fronte a queste epopee, recanti pur sempre nella splendida ricchezza dei miti e nella compiuta elaborazione letteraria l'impronta del genio ariano, è stata spesso rilevata la deficienza dell'epos presso le stirpi semitiche, cui si attribuisce, nell'empirica partizione dei generi letterarî, l'attitudine alla lirica, a esclusione dell'epica e del dramma. Occorre appena osservare con quanta discrezione vada preso questo giudizio, basato sulla formale distinzione dei generi: in realtà non si può dire che l'epos sia estraneo alla letteratura ebraica, in cui sarà solo da concedere l'assenza di riflessa coscienza letteraria elaboratrice del genere, mentre non mancano parti della Bibbia, soprattutto nel Genesi (v. specialmente il racconto del diluvio), ove affiorano distintamente elementi epici. E nella stessa letteratura araba, che pare la più negata all'epopea, non si possono disconoscere, in tratti delle antiche poesie preislamiche, e nelle stesse narrazioni prosastiche delle guerre e lotte tribali (ayyām al-‛arab), germi di epica che dovevano poi essere sviluppati nella posteriore letteratura popolare, romanzesca e cavalleresca, del basso Medioevo e dell'epoca delle Crociate. Del resto, il poema babilonese della creazione (Enuma elish) e quello di Gilgamesh, forse gli ultimi venuti, attraverso la decifrazione dei cuneiformi, ad arricchire il patrimonio dell'epopea mondiale, dimostrano la possibilità dell'epos in lingua e razza semitica, pur lasciando impregiudicato il grado di coscienza artistica degl'ignoti redattori. Né solo presso Arii e Semiti troviamo, appena sbocciata o giunta a vigoroso rigoglio, la celebrazione poetica delle gesta di dei ed eroi, come comunemente si suole circoscrivere l'oggetto dell'epica. Epica troviamo nell'antico Egitto, con poemi in onore dei faraoni, come quello sulle gesta di Ramses II nella campagna siriaca chiusasi con la vittoria di Qadesh; e tracce di epica non mancano, per quanto assai più tenui, nelle letterature dell'Estremo Oriente.
Questa persistenza e generalità dell'epopea in varia misura e complessità su tanta diversità di regioni e culture, accomunata dalla generica espressione di "Oriente" ci mostra l'universalità di quel senso d' idealizzazione della vita che potrebbe forse meglio della solita definizione scolastica esprimere l'essenza dell'epica.
Epopea greca.
S'intende qui il nome di epopea come poesia narrativa destinata alla recitazione. I Greci chiamavano "epos" (ἔπος) l'esametro dattilico, e adopravano il plurale ἔπη per designare un carme in esametri. Epopea significa dunque per gli antichi Greci non un genere letterario, ma una forma metrica, una poesia in esametri. Né in tutta l'antichità, benché fosse consuetudine greca adoprare per la poesia narrativa l'esametro, i due concetti di fatto s'identificano: se possiamo a rigore escludere dall'epica carmi ellenistici in distici, che pur tuttavia furono prevalentemente narrativi, quali p. es. gli Aitia di Callimaco (dove il narratore parla qua e là a chiare note di sé, come nell'epica non è consueto), d'altro canto in esametri furono composti dai Greci componimenti che non sono epopee, così p. es. le Opere e i Giorni di Esiodo, i carmi filosofici di Parmenide e di Empedocle, la Conocchia di Erinna, i Fenomeni di Arato, gli Idillî di Teocrito; infine tutta la cosiddetta poesia didascalica.
Epopee antichissime. - I più antichi poemi epici greci (e insieme i più antichi poemi greci) conservati sono l'Iliade e l'Odissea, che già la tradizione più antica attribuisce a Omero: a Omero (v.) sono dai più antichi testimoni attribuiti del pari carmi perduti, la Tebaide e parecchi di quelli che sogliamo ora, seguendo dotti greci di età molto più recente, comprendere nel nome collettivo di "ciclo epico". Di questi carmi perduti la Tebaide, come mostrano considerazioni interne, dev'essere stata molto antica, forse più antica dell'Iliade a noi pervenuta. Il ciclo deve appartenere a età diversissime, ma l'analisi dei carmi omerici mostra che le Ciprie erano in certe parti anteriori almeno alla redazione finale della nostra Iliade, i Nosti almeno alla redazione finale della nostra Odissea.
Ma sia testimonianze dirette nei poemi omerici conservati sia l'analisi di questi ci aiutano a farci un'idea di carmi ben più antichi. L'Iliade non parla (tranne in un passo del recentissimo Catalogo delle navi) di cantori professionali, se pure immagina che Achille (Iliade, IX, 189) canti, accompagnandosi sulla cetra, le gesta degli eroi: questo silenzio non è stato sinora spiegato in maniera soddisfacente. Ma l'Odissea introduce in molti passi cantori professionali che narrano le gesta degli eroi, anzi sembra considerarli personaggi necessarî in ogni corte di re. Qui importa prima di tutto osservare che tali cantori "cantano" accompagnandosi sulla cetra. Questo non può essere che reminiscenza di uno stadio anteriore, perché l'esametro omerico con le sue cesure fisse è evidentemente destinato alla recitazione, se pure porta forse in sé qualche traccia di derivazione da un metro più adatto al canto. Dunque l'epos omerico dovette essere preceduto da poesia narrativa ma cantata. Confronti con fenomeni simili in culture primitive, specie in quelle degli antichi Germani e meglio ancora degli Slavi meridionali, convincono che questo stadio è molto più originario e molto più generalmente umano di quello rappresentato da Omero. È probabile, del resto, che questa consuetudine del canto epico-lirico non sia cessata del tutto in Grecia neppure col venire in voga dei grandi poemi recitati, ma si sia mantenuta, sia pure non senza oscillazioni, in classi sociali più basse e in regioni meno progredite.
L'argomento dei canti degli aedi è secondo Omero attinto alla fama (κλέος), dunque alla saga storica, ad avvenimenti del passato ritenuti storici e che di storico avevano veramente per lo meno un nucleo; e gli argomenti che egli accenna mostrano che questa poesia si rivolse per tempo agli stessi complessi mitici trattati nei poemi conservati. Ma le analogie germaniche c'insegnano che lo stile di questi carmi dovette essere ben diverso da quello dell'Iliade e dell'Odissea. La differenza stilistica si riassume in una differenza di "tempo", inteso tempo nel valore musicale. Le "ballate" epico-liriche procedevano meno solenni ma più spedite.
E a questa differenza di stile corrispondeva una differenza di estensione. Qui soccorre anche l'analisi: i due poemi omerici formano ciascuno bensì un'unità organica, ma almeno nell'Iliade sono incorporati carmi minori che si distinguono linguisticamente e stilisticamente dalle parti che li circondano, e ambedue i poemi seguono in altre parti molto da vicino altri carmi minori, adattandoli al nuovo contesto, ma non rielaborandoli nella misura p. es. nella quale l'Ariosto trasforma i poemi cavallereschi che egli segue quanto al contenuto. Ora tali carmi che noi ricostruiamo per analisi dai poemi omerici (e fra quelli di cui l'Iliade si è servita ve n'è di molto arcaici) trattano spesso un unico episodio e sono di dimensioni molto modeste. Poiché essi paiono rappresentare uno stadio già puramente epico ma che può esser considerato anello di passaggio alla poesia epico-lirica, dovremo anche di qui solo indurre che queste ballate epico-liriche avevano argomento e dimensioni ristrette.
Quanto è antica questa poesia? Qui soccorrono solo indizî. I poemi omerici sono stati scritti senza dubbio, almeno per la parte maggiore, nelle colonie greche dell'Asia Minore, come mostra il dialetto, fondamentalmente ionico, e come conferma l'esatta cognizione geografica che il poeta mostra almeno di parte di queste coste. Ma gli eroi sono peloponnesiaci o, che più importa, tessali; la narrazione messa in bocca a un personaggio dell'Iliade, Fenice, ci trasporta nella Grecia centrale; un altro eroe, Aiace, è Locro; sede degli dei è il monte che sovrasta alla Tessaglia, l'Olimpo. Dunque i carmi omerici sono stati preceduti da carmi composti nella Grecia centrale e settentrionale, quindi, secondo ogni probabilità, anteriori all'emigrazione in Asia. È probabile che in questi carmi non raggiungiamo ancora il periodo delle ballate epico-liriche; almeno l'episodio di Meleagro pare attinto a poesia esametrica. Ma si può risalire ancora più in là: almeno i nomi dei due eroi principali, Achille ('Αχιλλεύς) e Ulisse ('Οδυσσεύς) non sono etimologizzabili dal greco e si manifestano anche nella desinenza non greci, anzi non indoeuropei. È probabile che Achille e Ulisse siano eroi delle popolazioni prearie soggiogate dai Greci. Ma il loro nome non poteva essere trasmesso ai conquistatori se non dalla leggenda, la quale, per conservarsi, doveva bene aver forma in qualche modo letteraria. È probabile che i carmi più antichi, quei canti epico-lirici che non possono ancora dirsi epici nel senso attribuito alla parola in principio, abbiano avuto origine in età pregreca, egeo-micenea. Non Omero è miceneo, come fu sostenuto da studiosi scarsi di metodo, ma micenei sono alcuni dei suoi eroi, micenee possono essere nel nucleo più antico alcune delle leggende trattate dall'epopea.
Grazie all'analisi e inoltre a un certo numero d'induzioni sicure che dai poemi omerici ricaviamo, possiamo dire molto più su quei carmi già recitativi che a Omero hanno servito di fonti. Noi sogliamo chiamare i recitatori di questi carmi rapsodi (ῥαψωδοί). La parola (da ῥάπτειν cucire" e ᾠδή "canto": che originariamente fosse termine di scherno, è tutt'altro che sicuro) è attestata nella letteratura per la prima volta in Erodoto, ma appare già in una dedica ionica arcaica di Dodona; ed Esiodo caratterizza sé stesso già quale rapsodo, benché non adopri il vocabolo. Il rapsodo si distingue dall'aedo in quanto non canta più, ma recita tratti di poesia epica. Egli porta in mano non più la cetra, ma il bastone o scettro (ῥάβδος). Non più che episodî sono, lo abbiam detto, i canti che l'Iliade presuppone, e questa caratteristica essi hanno in comune con l'epico-lirica. Ma essi hanno già una tecnica fissa: l'esametro ha cesure determinate, è sottoposto anche altrimenti a regole, se non dispotiche, severe. Quasi per compenso sono consentite determinate licenze prosodiche, che urtano contro le regole del linguaggio naturale. Convenzionale è la lingua: il fondo è ionico, ma non mancano forme eoliche, dalle quali i linguisti hanno indotto con ragione che i carmi epici ionici hanno avuto precedenti eolici: le forme eoliche hanno per lo più resistito solo là dove la sostituzione delle corrispondenti ioniche era metricamente impossibile o disagevole. Questo linguaggio eolico-ionico (ma essenzialmente ionico) porta l'impronta dell'artificialità nella molteplicità di forme equivalenti che possono prendere l'una il posto dell'altra secondo necessità o comodità metrica. Abbondano formule fisse. Eroi, dei, anche cose sono contrassegnate da epiteti fissi (epitheta ornantia), che spesso non trovano spiegazione nei canti conservati, ma rimandano ad altri, perduti. Anche lo stile è solo gradualmente diverso da canto e canto: se in quelli che supponiamo più antichi esso è alquanto più stringato, il colorito generale è lo stesso:
Questa fissità, che non è, beninteso, uniformità assoluta e noiosa, non si spiega se non supponendo che si sia formata una tradizione; in altre parole, che aedi e rapsodi abbiano avuto molto a lungo nelle loro mani i carmi epici e che abbiano imparato uno dall'altro. Analogie di altre culture fanno pensare che la trasmissione sia avvenuta di padre in figlio. Ci devono essere state a ogni modo specie di scuole di cantori: Femio nell'Odissea mette in rilievo ch'egli non ha avuto maestri, ch'è "maestro di sé stesso" (αὐτοδιδάσκαλος), ma questa è probabilmente un'eccezione gloriosa. E il magistero umano non esclude l'ispirazione degli dei o delle Muse e il debito di gratitudine a questi. Un aedo dell'Odissea, Demodoco, è cieco; cieco è più tardi il cantore del proemio delio ad Apollo (v. omero). Anche in altre culture il cantore è spesso cieco. È naturale che in civiltà primitive si volgesse a questo mestiere il figlio di agricoltore cui il difetto fisico impediva di accudire al suo campo, anche a prescindere dall'ampiezza e tenacia della memoria e dalla finezza di senso ritmico che, com'è noto, sono proprie del cieco.
Già la Tebaide, che, poiché tratta di un argomento preso dalla leggenda della madrepatria, può essere più antica dell'Iliade e che dal più antico degli elegiaci, Callino (v.), è citata quale omerica, aveva 7000 versi, ben più che un rapsodo non potesse normalmente recitare in una sola recitazione. Qui forse per la prima volta, se la Tebaide dei 7000 versi non era già una rielaborazione posteriore, si fondono in un carme solo molti episodî, ricostruendo l'unità della leggenda, che preesisteva ma non si esprimeva nell'unità del carme. Molto più in là sulla stessa via procedono l'Iliade e l'Odissea. Di compilazione non si può parlare, perché già nell'Iliade è evidente, nonostante le contraddizioni nei particolari, l'unità del piano, e per lo meno il maggiore degli eroi, Achille (e altrettanto il suo avversario Ettore), non è rappresentato quale tipo generico di eroe, ma è delineato, almeno in alcuni canti, quale carattere individuale.
Si è sostenuto di recente che già l'Iliade e a maggior ragione l'Odissea fossero destinate alla lettura: ipotesi inverosimile per chi ricordi che ancora al tempo di Erodoto il libro è per i Greci solo un appoggio alla memoria. E si rifletta che agoni rapsodici, concorsi tra rapsodi, sono ancora testimoniati per il sec. IV. Un pubblico di lettori in età omerica non è pensabile. Ma bisognerà supporre che il rapsodo dividesse la recitazione dell'Iliade tra più giorni successivi, tutte le volte, s'intende, che gli ascoltatori l'avranno desiderata intera e non si saranno contentati di singoli episodî.
Esemplarità dell'epopea greca, specie omerica. - Della questione omerica non è qui il luogo di trattare (v. omero). Ma conviene invece dire qualcosa sugli effetti che la canonizzazione dell'epica greca e segnatamente omerica ha avuto sulla storia della poesia occidentale. Omero ha qui agito fortemente e sul contenuto e sulla forma: i poeti romani e in qualche misura anche quelli dell'Europa nuova dal Rinascimento in poi l'hanno avuto innanzi agli occhi: non così il Medioevo, il quale tuttavia anche in carmi che si direbbero assai lontani dalla tradizione classica, p. es. i Nibelungi, ha subito senza accorgersene l'influsso omerico attraverso gli epici romani, segnatamente Virgilio.
L'epopea greca non segue pazientemente un intero ciclo di leggende dal principio sino alla fine: l'Iliade non incomincia né dal ratto di Elena né dalle avventure giovanili di Achille in Tessaglia, e profeta, bensì, ma non narra, la morte del protagonista e la distruzione di Ilio. E così è in tutta l'epopea occidentale seguente, se si eccettuano gli Annales di Ennio, tentativo insigne ma che non ha avuto continuatori. Ancor oggi è uso del poeta epico enunciare brevemente nei primi versi l'argomento del suo canto. L'invocazione a una divinità, che per lo più è anche nei carmi più tardi congiunta, come in Omero, con quel proemio e che solo eccezionalmente e per voluto contrasto non è la Musa, mostra la derivazione omerica.
L'epopea omerica, quantunque abbia avuto precedenti che in un certo senso molto limitato possono chiamarsi popolari, è di tono singolarmente signorile. È noto come sia proscritta ogni licenziosità, come dell'amore e delle sue gioie più naturali non si parli se non brevemente e con formule particolarmente decenti; ma è stato osservato che dei bisogni corporali che dall'uomo primitivo non potevano essere considerati vergognosi, di escrezioni in genere Omero tace, si può dire, senz'eccezione. Anche qui l'epopea occidentale lo segue in tale riserbo, che anche questa volta è alieno dalle epopee orientali.
L'intrecciarsi degli dei alle vicende degli uomini, i loro consigli e le discordie suscitate dall'amore e dall'odio loro per popoli, i modi diversi dei loro interventi, sia sotto forma di uomini determinati, sia nelle apparenze più varie, sia anche da lontano senza farsi vedere, sono stati tutti continuati dall'epica occidentale: ancora l'epopea della Controriforma si sente obbligata a far uso d'un certo quale Olimpo cristiano. E, poiché la guerra è per Omero un seguito di tenzoni singolari tra due eroi, tale rimane ancora nel più tardo Rinascimento italiano, quando le battaglie erano ormai decise dall'urto delle fanterie.
Più importa la continuità dello stile: ancora l'epos del Cinquecento procede lentamente, perché Virgilio non si affretta, e Virgilio non si affretta perché lento incede Omero. E gli epiteti ornanti, che paiono a noi ancora caratteristica naturale dell'epopea, sono, molto probabilmente, retaggio omerico, o almeno Omero è una delle radici principali di questa consuetudine stilistica. Quasi in nessuno dei poemetti recitativi che noi ricostruiamo analizzando l'Iliade mancano similitudini, e queste, infinitamente varie nei particolari, ma tutte prese da cerchie determinate di fenomeni, rivelano una concezione unica della natura e della vita, e costituiscono anche formalmente una certa unità. La similitudine diviene da Omero in poi, per effetto di Omero, caratteristica dell'epopea.
Il cosiddetto ciclo epico. - Le storie letterarie moderne raccolgono sotto il nome di "ciclo epico" una serie di epopee perdute, che comprendeva tutta la leggenda eroica (considerata quale unità), tranne le parti trattate dall'Iliade e dall'Odissea. Fonti principali per la ricostruzione del soggetto di questi poemi sono non tanto le citazioni letterali, scarse e brevi, quanto sia gli estratti di Proclo in principio del codice A dell'Iliade e nella Biblioteca di Fozio, cod. 239, sia opere dell'arte figurata. Anche analisi di opere letterarie posteriori (specie tragedie attiche), che hanno attinto a tali poemi, aiutano validamente tale ricostruzione. Le storie letterarie moderne assegnano i principali di questi poemi ad autori determinati: così le Ciprie a Stasino, l'Etiopide (Αἰϑιοπίς) e per lo più anche l'Iliuperside ('Ιλίου πέρσις) ad Arctino, la Piccola Iliade a Lesche, i Nosti (Νόστοι) ad Agia di Trezene, la Telegonia (Τηλεγονία) per lo più ad Eugammone di Cirene.
Contro queste costruzioni che si dànno per tradizioni documentarie, si deve osservare in primo luogo che i nomi di autore sono attestati solo tardi e non senza contraddizioni. Gli antichi lirici greci, Simonide e Pindaro, ogniqualvolta alludono a uno di questi poemi, li considerano quali opere autentiche di Omero non meno che l'Iliade e l'Odissea, così come Callino cita Omero quale autore della Tebaide. In Erodoto appaiono i primi dubbî sull'autenticità: egli sospetta delle Ciprie e di un poema tebano più recente della Tebaide e che si può considerare come la sua continuazione tardiva, gli Epigoni. I dubbî prendono d'allora in poi sempre più piede. Mentre verso il 500 tutti questi poemi erano attribuiti a Omero, verso il 350 essi gli sono tutti tolti e sono attribuiti, evidentemente per congettura, ora all'uno ora all'altro degli autori nominati sopra e anche a molti altri. Verso il 150 queste congetture hanno già perduto terreno: di qui in poi questi carmi, certo per influsso della critica alessandrina, che sapeva molto bene distinguere fra congettura e tradizione, sono citati anonimi. Ma citati essi sono sempre meno: è evidente che brevi riassunti prosastici (ὑποϑέσεις) sostituiscono sempre più questi carmi nella cultura e nella scuola.
Anche il concetto di ciclo è relativamente moderno, almeno alessandrino. Il "circolo", l'"anello" è il seguito dei fatti della leggenda, quali essi erano esposti in tali carmi, o forse meglio (secondo un'altra definizione antica) ciò che è "in giro", "attorno" dell'Iliade e della Odissea. Ed è ad ogni modo un concetto non letterario ma mitografico. Che cosa erano veramente quei poemi? Chiunque legge i sunti di Proclo si accorge facilmente ch'essi non erano unità nello stesso senso e nella stessa misura dei poemi omerici conservati: essi non possono essere stati altro che aggregati, piuttosto meccanici, di carmi: dunque non rielaborazione artistica, quali appaiono ormai a noi moderni l'Iliade e l'Odissea confrontate con le loro fonti, in quanto possiamo ricostruirle per analisi, ma questa volta giustapposizioni meccaniche. Di qui si spiega (senza che sia necessario ricorrere ad ipotesi avventurose di falsificazioni nella nostra tradizione) come tali poemi, a giudicar dalla tradizione, paiano intersecarsi: carmi giustapposti avevano, oltre al titolo complessivo, anche titoli speciali; così l'Etiopide e l'Iliuperside erano forse parte della Piccola Iliade, il Ritorno degli Atridi faceva parte dei Nosti, ecc. Così diventa chiaro come, mentre questi poemi nel loro complesso, per quel che si può vedere, fanno l'impressione di essere relativamente recenti, pur tuttavia non solo l'Odissea ma persino l'Iliade appaiano qua e là presupporre certe parti di essi: le parti erano questa volta più antiche dell'insieme e circolavano per conto proprio, prima che si pensasse a raccoglierle in unità; il che del resto deve essere avvenuto in un'età in cui il canto epico era ancora in fiore.
Già Proclo considerava come parte del ciclo anche i poemi tebani (probabilmente l'Edipodia, la Tebaide e gli Epigoni, ecc.), sebbene questa parte dei suoi riassunti sia andata perduta nel manoscritto A dell'Iliade. Quali ciclici figurano nelle storie letterarie moderne, ma solo in minima parte nella tradizione antica, almeno un poema sugli Argonauti (v.) ch'è presupposto dall'Odissea, la Presa di Echalia (Οἰχαλίας ἅλωσις), un poema su Eracle, la Danaide, l'Alcmeonide e molti altri carmi epici di cui ci rimangono scarsissime menzioni, ma che pure hanno fornito sia soggetto alla poesia posteriore, sia materiale alla mitografia.
L'epopea tra Omero e Antimaco. - La Grecia europea è, durante l'età nella quale fiorisce l'epos omerico, un paese rimasto addietro e addormentato. È probabile che abbiano contribuito a destarlo rapsodi che portavano d'oltremare i canti omerici. Certo il primo poeta della Grecia continentale di cui possiamo farci una idea chiara è, sì, beota, ma figlio di un Asiate di Cuma, è rapsodo, e scrive in lingua che vuole essere omerica, seppure non è sempre scevra d'influssi locali: vogliamo dire Esiodo (v.). Tutte le sue opere sono esametriche e appaiono destinate a diffusione rapsodica e almeno una, la Teogonia, contiene episodî che si potrebbero senza altro dire epici; un'altra, le Eee, era nelle singole parti, se non nel complesso, ancor più propriamente epica. E attribuito a Esiodo è un carme che almeno per la parte maggiore è epico e ch'è molto istruttivo per la storia dell'epopea nella madrepatria: lo Scudo di Eracle. Esso consiste di tre parti: la prima, minore, è costituita dal principio dell'Eea di Alcmena (v. esiodo, XIV, p. 330). Una semplice formula di trapasso introduce la narrazione dell'avventura di Eracle contro Cicno; ma questa stessa è spezzata da una lunga descrizione dello scudo di Eracle, composta evidentemente per emulare la descrizione dello scudo di Achille in Omero. Tale mancanza di unità si spiega soltanto con la trasmissione rapsodica. I rapsodi, poiché non potevano in una volta sola recitare tutto un poema, seguitarono, anche dopo che fu scritta l'Iliade, a recitare singoli episodî epici, non più nella forma in cui preesistevano ai grandi poemi omerici, ma ricavandoli da essi. E poiché questi non avevano unità, essi non avevano scrupolo di legare a volta a volta episodî di poemi diversi, ricucendoli alla meglio. Questa consuetudine rapsodica è assai importante per lo sviluppo posteriore: alcuni degl'inni omerici maggiori hanno origine dall'invocazione che il rapsodo rivolgeva a un dio prima d'incominciare la recitazione, ma hanno preso la forma e le dimensioni di un piccolo epos; e il cosiddetto epillio (v.; la parola è ignota alla dottrina degli antichi) ellenistico ha forse anch'esso la sua origine in questa recitazione di episodî singoli. Non a caso in certi carmi epici di Teocrito i trapassi sono bruschi quanto nello Scudo di Eracle.
Se i poeti che seguirono cronologicamente Esiodo nella Grecia di qua dall'Egeo siano stati più che epigoni, è difficile dire. Di essi ci è rimasto poco o nulla, per la concorrenza vittoriosa che nell'Attica le nuove forme drammatiche fanno all'epica. Ma la tragedia attica tratta quali note, leggende continentali che non poterono esserle trasmesse se non da poesia epica a noi non più nota. Da un certo punto in poi l'epopea deve combattere anche con la prosa, che fin da principio s'impadronisce di argomenti mitografici. L'epopea rimane forse più vitale di là dall'Egeo: una epopea rodia su Eracle, attribuita a Pisandro, sembra aver creato il tipo dell'eroe a noi noto dalle arti figurative. Un'altra Eraclea di Paniassi di Alicarnasso (morto verso il 460) era ancora ammirata dagli Alessandrini.
Antimaco e l'epos ellenistico. - Un Greco di Asia getta il ponte tra l'epos postomerico invecchiato e la nuova arte ellenistica: verso la fine del sec. V Antimaco di Colofone scrive (v. elegia) una Tebaide che suscita polemiche subito e ancora nell'età alessandrina. Tra gli ammiratori è Platone, tra gli avversarî Callimaco. Quel che ne sappiamo mostra che Antimaco precorre in molte cose l'età alessandrina: egli è infatti editore di Omero; va a caccia di espressioni rare (γλῶσσαι); predilige come gli Alessandrini gli esametri spondaici. Questo e non più di questo si ricava dalle scarse citazioni; ma sembrerebbe che bastasse a renderlo caro agli Alessandrini.
Invece Callimaco ne sparla. La mole dell'opera impediva ch'essa fosse tornita in tutti i particolari, come esigeva il gusto del sec. III. La dottrina dominante nell'Alessandria di quell'età è aliena dal grande epos: essa si contenta, quanto alle dimensioni, di quelle di una recitazione rapsodica, ma sostituisce l'epopea antica con merce più raffinata. Questo epillio, non più recitato da rapsodi artigiani che giravano il mondo, dinanzi a folle, ma tutt'al più dal poeta in convegni d'iniziati, era poi destinato alla lettura di tutti i "colti" (πεπαιδευμένοι) del grande mondo ellenistico.
Del resto la polemica di Callimaco doveva probabilmente servire a mascherare insieme e a legittimare la sua riprovazione per le Argonautiche del proprio contemporaneo Apollonio Rodio (v.). Questo poema, in quattro libri, era per Callimaco un anacronismo. Apollonio in verità riprende la leggenda epica degli Argonauti, e vi inserisce un'infinità di particolari mitografici rari, ma tenta, e in parte gli riesce, di trattarla in stile moderno. Questo si deve intendere della forma esterna e anche della cosiddetta forma interna e degli spiriti. L'epos di Apollonio tende a risolversi in una serie di episodî, di cui molti talmente arrotondati da sembrare a noi veri epillî. Uno degli episodî, rompendo una consuetudine dell'epos omerico, tratta di amore: la Medea di Apollonio è non tipo, ma carattere, trattato con quell'abilità psicologica della quale aveva dato il primo esempio la tragedia attica (specie Euripide e specie nella sua Medea, pur parecchio differente da quella apolloniana), e ha col suo esempio agito sui secoli. D'ora in poi la dottrina letteraria considera lecito mostrare nell'epos donne innamorate e descriverne le vicende: Virgilio continua per questo rispetto Apollonio, se pure la sua Didone è tutt'altro carattere. Ma anche in altro Apollonio ha avuto influsso su tutta la tradizione seguente: p. es. una certa sentimentalità che distingue alcuni eroi dell'epopea romana è già precorsa da Apollonio. E meglio apparirebbe tale continuità in particolari tecnici.
Nell'età ellenistica vi fu anche un epos propriamente storico: il cantore delle gesta di Alessandro, Cherilo di Iaso, ha soltanto la gloria della ridicolezza, ma almeno uno dei numerosi carmi di Riano, quello sulla seconda guerra messenica, era letto ancora dall'imperatore Tiberio. Questa produzione è perduta, ma vi si riannoda la ben più importante epopea storica romana, da Ennio in poi.
Di più, già per i contemporanei ha significato un poeta del secolo II a. C., Euforione, prediletto poi dalla cerchia di Catullo a dispetto di Cicerone, studiato da tutti i posteriori sino al principio dell'età bizantina. Ma egli è, nonostante le Chiliadi, piuttosto poeta di epillî che di epopee.
Epopea greca dell'età imperiale. - Carmi epici seguitarono a essere scritti durante tutta l'età imperiale. A noi di parecchi secoli non rimangono che nomi e titoli. Un carme del sec. III o IV sugli Argonauti, mediocre, è stato salvato dal nome del divino cantore a cui fu posto in bocca, Orfeo (v.). Orfeo prende parte alla spedizione e la narra: riflesso lontano del racconto di Ulisse nella reggia di Alcinoo. Su per giù dello stesso tempo è una prosecuzione dell'Iliade sino alla caduta di Ilio, che Quinto Smirneo mise insieme traducendo in linguaggio epico i manuali (influssi di Virgilio non sono esclusi, ma non paiono ancora rigorosamente provati).
Ma l'età nella quale gli Elleni già divengono Bizantini, il secolo V (la data si precisa male: v. ciro di Panopoli), produce di nuovo un'epopea originale. Nonno di Panopoli celebra in 48 libri la spedizione di Dioniso in India. Nell'azione rientrano a mo' di excursus infinite leggende. E il poeta le canta tutte con lo stesso pathos, con la stessa abbondanza di parole, specie di epiteti. Un'opera barocca, ma il capolavoro del barocco. Caratteristica è un'immensa sonorità: l'esametro di Nonno, così essenzialmente diverso da quello di Apollonio (e Callimaco) come questo da quello omerico, è stretto da leggi ben più severe, ma non ci accorgiamo mai dello sforzo. Col suo carme pagano in mezzo a un mondo già cristiano e bigotto, Nonno è divenuto classico: egli ha fatto scuola quanto a stile e più quanto a verso. Ed era letto ancora nella Bisanzio del sec. XIII.
Non reggono affatto al confronto con lui le epopee minori di due altri Egizî, La presa di Ilio di Trifiodoro e Il ratto di Elena di Colluto, le quali mostrano tuttavia la dipendenza da Nonno nelle osservanze ritmiche.
Bibl.: La bibliografia sotto i singoli poeti, specie sotto Omero. Per tutto ciò che è omerico e preomerico e per gli epigoni fino alla guerra persiana orienta bene W. Schmid, Griechische Literaturgeschichte, I, Monaco 1929. La migliore sintesi è U. v. Wilamowitz, Reden und Vorträge, 4ª ed., Berlino 1925, p. 37 segg.
Sulla poesia preomerica: U. v. Wilamowitz, Ilias und Homer, Berlino 1916. Per analogie di altri popoli: E. Drerup, Omero, Bergamo 1910, p. 11 segg.; id., Homerische Poëtik, I, Würzburg 1921, p. 27 segg.; particolarmente interessanti i confronti con gli Slavi: M. Murko, in Neue Jahrbücher für das klassischen Altertum, 1919, p. 173 segg.
Sull'esemplarità dell'epos omerico, specie per quel che riguarda decenza e riservatezza, fini osservazioni in J. Wackernagel, Sprachliche Untersuchungen zu Homer, Gottinga 1916, p. 224 segg. Per le similitudini H. Fränkel, Die homerischen Gleichnisse, Gottinga 1921.
I frammenti del ciclo epico sono raccolti da E. Bethe, Homer, II, Lipsia 1929, p. 150 segg.; il medesimo discute bene le questioni di principio, p. 204 segg. Per la storia dell'attribuzione dei singoli poemi nell'antichità U. v. Wilamowitz, Homerische Untersuchungen, Berlino 1884, p. 328 segg. La ricostruzione dei poemi di F. G. Welcker, Der epische Cyclus, Bonn 1835, 1849, è antiquata: di lavori più moderni v. specialmente E. Romagnoli, in Studi italiani di filologia classica, IX (1901), p. 35 segg.; U. Mancuso, in Memorie dei Lincei, s. 5ª, XIV (1911), p. 622 segg.; M. Schmidt, Troika, Gottinga 1907. Per il ciclo tebano E. Bethe, Thebanische Heldenlieder, Lipsia 1891.
Per l'epos postomerico sino all'ellenismo: U. v. Wilamowitz, Hellenistische Dichtung, I, Berlino 1924, p. 99 segg.
Epopea romana.
È indubbio che le stirpi italiche, come ebbero una loro religione, così ebbero un nucleo proprio di tradizioni e di leggende; ma nulla di tutto questo arrivò ad assumere una sua forma, indipendentemente dall'arte e dalla tradizione greca. Pertanto anche lo svolgimento dell'epopea in Roma non può considerarsi avulso dalle sorti di tale poesia in suolo greco, ma di questa rispecchia forme e fortune. Il che naturalmente non significa che la tradizione epica romana debba tutta considerarsi copia o innovazione, più o meno profonda, della greca.
All'epopea romana si suole nelle trattazioni far precedere un cenno sui carmi convivali. Tale poesia non ha alcuna importanza per quanto riguarda arte e forma della tradizione epica, la quale sorge d'un tratto già perfetta nei suoi caratteri e nella tecnica costruttiva, prendendo a proprio modello la poesia omerica in sé e nei successivi suoi sviluppi, ignorando completamente qualsiasi informe precedente in suolo romano. Ciò non ostante quest'epopea si presenta con un carattere proprio e singolare, al quale potrebbe non essere in tutto estranea la poesia conviviale, considerata come semplice elaboratrice di materia. Le testimonianze relative ai carmi convivali sono assai tenui, e per giunta è evidente nei dati di fatto la commistione di cose rispecchianti usi di età diverse e non meno l'accostamento della pratica, da lunghe età in disuso, a quella, vagamente somigliante, dei conviti greci: l'elaborazione di materiale leggendario in questi e consimili usi privati e pubblici potrebbe anche concedersi, ma come pura ipotesi; le testimonianze invocate ad affermarla (Plut., Numa, 5; Dion. Halic., I, 79) hanno semplicemente indotto in errore chi non si rendeva conto del valore meramente retorico del verbo ᾄδειν, ᾄδεσϑαι (cfr. anche R. Reitzenstein, in Hermes, XLVIII, 1913). Comunque sia di tutto questo, rimane inconcussa una verità, alla quale dagli studiosi di letteratura romana non è dato tutto il suo valore: l'epica romana è nata come epica storica, dalle medesime tendenze e dalla medesima materia da cui si è formata l'annalistica, che in suoi determinati atteggiamenti è epopea in prosa e alla tradizione poetica ha dato, e a sua volta da questa ha avuto, elementi di sostanziale importanza. Il sostrato è identico: come sfondo le origini favolose della stirpe da Enea a Romolo, come materia più vicina le gesta gloriose dei padri, che molto spesso da una sostanza reale sfumano nei vaghi colori della leggenda.
La traduzione dell'Odissea per opera di Livio Andronico è, materialmente, il primo poema epico di Roma; non poteva, forse, essere altrimenti, poiché occorreva lo stimolo e l'esempio, e come tale l'opera ha funzionato egregiamente. Non si può pensare Nevio senza questo precedente. Inoltre l'opera ha avuto il suo seguito, come tecnica di traduzione (cfr. F. Leo, Plautin. Forsch., 2ª ed p. 90 segg.), e ha avuto anche la sua discendenza nelle età successive: senza riandare le varie traduzioni omeriche di Cn. Mazio, Ninnio Crasso, Azzio Labeone, basti la versione delle Argonautiche per opera di P. Varrone Atacino e, se si vuole, il rifacimento in stile classicistico di questo poema da parte di Valerio Flacco. L'epopea indigena di Roma, quella che riflette sostanzialmente non soltanto gl'interessi materiali, ma assai più gl'ideali della stirpe, s'inizia col Bellum Punicum di Nevio, che con i suoi saturnî da una parte, con il suo tema storico dall'altra, collega Ennio a Livio Andronico e ci mostra un'evoluzione artistica, finita nei più tardi secoli della cultura romana. Come l'annalistica riprende la storia dalla leggenda lontana delle origini, così procede questa epica, che appunto creava una tradizione romana esemplare. Non preoccupata dapprima di ragioni teoretiche, di nessuna unità sostanziale, né di persona, né di fatto, né di luogo, percorreva una via propria, che, purtroppo, mutamenti di gusto prima, preoccupazioni teoriche poi che riportarono rigidamente all'esemplare omerico, finirono col troncare. La letteratura greca ha pure avuto, se si vuole, un'epopea storica, che ebbe sviluppo specialmente nell'età ellenistica (H. Schmitt, De Graecorum poesi historica quaestiones selectae, Giessen 1924; W. Kroll, in Sokrates, 1915); ricordare accanto al poema neviano i Μεσσηνιακά di Riano è in certo senso naturale e legittimo, ma profonde sono le differenze che dividono qui grecità da romanità. Da Riano, Nevio e, forse molto più, come tecnica, Ennio possono aver derivato, ma il poeta greco sembra aver rispettato una certa unità di tempo e di luogo, e certamente, come Omero, ha cominciato da un punto determinato e avanzato degli avvenimenti; i due Romani - anche Nevio, che aveva prescelto il tema monografico - si rifanno invece alle origini, cercando in esse il μυϑῶδες, che per altro sta come a cornice del lungo dramma, poiché la potenza fatale e divina è certamente immanente, ma non tuttavia presente in effetto nelle vicende narrate. Le quali, se in parte hanno nel giudizio nostro contenenza mitica, questa non avevano per i Romani, e gli eroi, attori di esse, assai raramente a mezzo tra l'umano e il divino, erano nella più parte uomini pensati con virtù umane. Questa epica è dunque precisamente quella che Aristotele non poteva riconoscere come tale, ma aveva in sé germi poetici, suscettibili di adeguato sviluppo, se fatti culturali non ne avessero troncato il cammino e il primo vero poema non fosse stato, quindi, anche l'ultimo; poiché Ennio, continuato da epigoni senza valore, veniva, prima con la opposizione neoterica e la corrente antiarcaica, poi con l'Eneide di Virgilio, a essere isolato, come esemplare di età irrimediabilmente e profondamente lontana.
Soltanto Lucano può considerarsi sotto qualche rispetto, con altri ideali artistici, nella corrente del poema storico, quale s'era iniziata con Nevio ed Ennio; e appunto per questo alla rigida critica era apparso aver composto una storia, piuttosto che un poema. Ormai il predominante classicismo, con i suoi pregiudizî, aveva soffocato ogni possibilità di nuovo sviluppo: le Puniche di Silio Italico, genuino frutto di esso, sono la chiara dimostrazione dell'impossibilità d'esistenza del poema storico in un clima di tal fatta. La mescolanza d'elementi eterogenei, il meraviglioso sparso sopra una realtà concreta e vicina nel tempo, senza facoltà di penetrazione, puro ornamento senza valore e privo d'ogni attrattiva, soffocavano quello che di vitale la materia poteva racchiudere in sé, falsificavano toni e colori, facevano nascere l'opera già morta.
Ciò nonostante, o si orientasse verso la tradizione encomiastica, di cui forniva esempî la grecità di Alessandro Magno e dei Diadochi, o cercasse un aiuto nell'applicare gelidameme dottrine scolastiche, l'epica storica ebbe una continuità degna di nota. Dei continuatori di Ennio si è detto: Ostio, Furio Anziate e altri, che sono figure dai lineamenti assai incerti. Varrone Atacino, autore d'un Bellum Sequanicum, che è ai limiti dell'ellenismo dei neoterici (e l'aver egli tradotto le Argonautiche di Apollonio Rodio e trattato corografia in versi è cosa molto importante per valutarne la personalità), Furio autore di una Pragmatia belli Gallici, ci richiamano un po' a Riano, molto a Cherilo, lodatore di Alessandro Magno: da Mecenate erano invano sollecitati alle lodi di Augusto e di Agrippa i lirici dell'età sua e della sua cerchia, ma i panegiristi non mancarono allora e non mancarono poi; poeti poveri nella vita e nell'arte. Genio poetico ebbe soltanto Lucio Vario, che fu certo raffinato artefice; Albinovano Pedone, che con i toni fortemente retorici, i quali vogliono infondere una nuova forma poetica nella materia storica, prepara in certo modo la maniera di Lucano; Rabirio, che canta la guerra di Ottaviano in Egitto; Cornelio Severo, che prende ad argomento la guerra di Ottaviano in Sicilia contro Sesto Pompeo, sono i continuatori di questa tradizione in età augustea, influenzati da Virgilio e dalla declamazione scolastica, come lo saranno i poeti delle età successive, che, se anche superstiti, hanno semplicemente valore in quanto rappresentano la tenace sopravvivenza del genere e l'importanza che esso aveva in Roma. Il periodo che corre da Adriano a Costantino è formato da secoli nei quali la poesia sembra ammutolita e le vicende dell'impero gravano fatalmente su molta parte della cultura letteraria. E non è molto migliore la condizione delle epoche successive; ma i fili della tradizione non sono irrimediabilmente spezzati. L'epopea storica di Claudiano, essenzialmente encomiastica, ritrova gli accenti della poesia retorica, glorificatrice d'imprese militari che, in mezzo a prosopopee retoriche e nel nimbo della solita mitologia ornamentale, hanno in lui il loro non ispirato, ma abile cantore. In Corippo, agli estremi limiti della letteratura classica, è l'ultima prova di questa forma d'epopea.
Importanza di forme letterarie non coincide necessariamente con valore poetico di esse. Nei documenti superstiti, eccettuato il poema lucaneo, l'epica storica romana è a stento degna di lettura; ma in sostanza è il più genuino prodotto, che per la sua persistenza, per la sua copia, differenzia le vicende del genere, da quelle che esso ha avuto nella letteratura greca.
L'epica classica, rispondente in tutto alle grandi tradizioni omeriche, non ha che un solo rappresentante, ma tale che basta per molti: Virgilio (v.). Non è questo il luogo in cui parlare come si dovrebbe della sua importanza, in sé, e dei suoi influssi: la tradizione delle età successive porta di massima la sua impronta e quelli che sono i suoi ideali artistici sono gl'ideali degli epici superstiti della età seguente, in particolare di Silio, Stazio e Valerio Flacco. Il suo classicismo induce quest'ultimo poeta al tentativo di rifondere nello stampo dell'epica classica il poema ellenistico di Apollonio. Una sola cosa conviene che qui sia rilevata: l'orgoglio nazionale, che aveva dato a Nevio ed Ennio l'ispirazione di cantare gesta romane, è anche in Virgilio elemento operante, sebbene sotto altre forme. Certo dell'assurdità di prendere ad argomento la semplice realtà storica, egli si rivolse al mito, che nei predecessori funzionava da semplice antefatto e però non usciva da una mediocrità artistica di pseudostoria; questo egli svolse, elaborò, ravvivò con i più scelti procedimenti d'arte, ma a questo seppe conservare il valore di favola non conclusa in sé, ma viva di elementi preparatori di nuove sorti e di nuovi destini: le dure lotte d'Enea contengono in sé le vicende della storia di Roma; quelle che erano note preparatorie per gli arcaici sono per Virgilio la ricca materia; ciò ch'era materia sostanzialmente esposta con le forme della cronaca in versi è da lui o proiettata, come in formazione, nella luce del passato, o adombrata con l'abilità dei mezzi artistici, ch'egli sapeva accortamente usare. Ciò ch'era vitale nella tradizione epica storica, Virgilio seppe mantenere in vita e in ciò è sostanzialmente riposta l'originalità e romanità dell'opera sua, all'infuori di quel che è episodico o pura espressione di sentimentalità personale e fantasia poetica.
Con questo si potrebbe considerare esaurito ciò che riguarda le linee caratteristiche di un'epopea romana. Il poema epico-mitologico non ha caratteri differenziatori, di sostanziale valore, rispetto alla tradizione greca. Le Eracleidi, le Teseidi, le Amazonidi romane - tutte le epopee degli amici che invano Ovidio si è ingegnato d'immortalare (Ep. ex Ponto, IV, 16, 5 segg.) -, perdute, senza gran danno per noi, le vicende di Cerere e Proserpina, sono in sostanza esercitazioni poetiche, che hanno, non meno dell'Achilleide e della Tebaide di Stazio, la corrispondente faccia nell'epopea ellenica. Le Metamorfosi stesse di Ovidio sono opera che deve essere considerata sul medesimo piano delle Trasformazioni di Nicandro e delle Metamorfosi di Partenio o dell'Ornitogonia di Boio. Il significato e il valore artistico è riposto tutto nella personalità del poeta e il valore, se valore vi è, della singola opera non riguarda la tradizione del genere nel suo insieme. Forse non privo di una certa importanza, per comprendere il fenomeno letterario, è l'osservare che la grande fioritura di questa produzione segue immediatamente la pubblicazione dell'Eneide: in parte una moda - pueri patresque severi fronde comas vincti cenant et carmina dictant (Hor., Epist., II, 1, 109) - in parte l'incitamento a emulare ogni forma di poesia greca, spontaneo in un'età nella quale la cultura aveva raggiunto il suo più alto culmine. Ai limiti fra l'epopea e la poesia didascalica è la composizione etiologica, che nei Fasti ovidiani ha la sua forma di ἓν ἄεισμα διηνεκές.
Bibl.: Studî sulla storia della poesia latina in genere (Ribbeck, Plessis e altri), non mancano; non mancano neppure opere che abbiano per tema la storia della poesia epica (cfr. la bibliografia presso la letteratura dello Schanz. I, i, p. 7, 3ª ed.), ma considerandone lo svolgimento per determinate età e confini: quindi puramente espositivi. Vedi anche l'introduzione di G. Pascoli alla sua notissima antologia della poesia epica latina (Epos, 2ª ed., Livorno 1911).
Medioevo ed età moderna.
Epopea popolare. - Epopea germanica. - Sorta per generazione spontanea dall'istinto di poesia della stirpe, favorita da particolari contingenze storiche e condizioni di vita, l'epopea germanica è, fra tutte le medievali, la più ricca. Se già i canti su Arminio accennati da Tacito negli Annali avessero intonazione epica, o non piuttosto fossero semplici lirico-eroici elogia come quasi certamente erano le poesie che l'ambasciatore bizantino Prisco ricorda, recitate da due barbari, dopo il banchetto alla corte di Attila, non è possibile congetturare. Certo anche in Germania, come in Grecia, l'epopea vera e propria, Heldenepos, fu per secoli preceduta da "canzoni eroiche" Heldenlieder, di più ristretta materia, di più rapidi sviluppi, e di meno diffuso, più patetico e drammatico stile. A. Heusler ne fa risalire le origini ai Goti, quando sulle rive del Mar Nero svilupparono circa il 200 la loro prima civiltà. Ma tali Lieder ricevettero il più potente impulso più tardi, dalla grandiosa vicenda dell'epoca delle trasmigrazioni. Dal primo attivo mescolarsi dei Germani nella storia dell'impero romano, fino allo stabilirsi del dominio longobardo in Italia fu tutto un incalzarsi di movimenti di popoli e di avvenimenti grandiosi che non poterono passare senza produrre una profonda impressione sull'immaginazione di quegli uomini ancora primitivi. Il sentimento fondamentale dell'unità della stirpe, sovrastando a tutte le lotte interne, fece sì che la materia leggendaria sorta dalla storia di un singolo popolo venisse sentita come spirituale patrimonio comune, e gli eroi Goti, Burgundî, lo stesso unno Attila, venissero evocati nella poesia, non meno e più ancora che presso il popolo d'origine, anche presso gli altri popoli fratelli: presso i Franchi, gli Anglosassoni, gli Scandinavi.
Tutte le cronache latine e il Widsid anglosassone testimoniano presso le corti l'esistenza di poeti. Se non per lo scaldo scandinavo, per il quale sono conservate molte testimonianze, ma solo dal secolo IX in poi, per lo scop inglese esiste più d'una documentazione che il Heldenlied era tra le forme di poesia predilette. Al disopra delle materialità della vita di ogni giorno il poeta suscitava la visione delle lotte e delle passioni di personaggi, il cui solo nome bastava a commuovere il cuore di tutti, ed evocando le gesta del passato teneva desto negli animi lo spirito eroico, in cui la stirpe aveva trovato le ragioni della sua grandezza. La romantica teoria che i Heldenlieder fossero nati miracolosamente dal popolo è così definitivamente tramontata. Del resto la sicurezza con cui è trattata la forma metrica (il germanico verso allitterativo composto di due emistichî e raggruppato variamente in gruppi di 2-5 versi, ora chiusi in un giro costante con concomitanza dello sviluppo sintattico, ora invece liberi e di volta in volta diversi), la fermezza e lucidità dell'intento psicologico, la sobria potenza sintetica della rappresentazione rivelano l'opera di un poeta esperto.
Molti di questi Heldenlieder (i più per il carattere orale della composizione) sono andati perduti: s'intravedono attraverso il confronto di posteriori elaborazioni in verso e in prosa; si ricostruiscono in qualche modo attraverso gli accenni del Widsid e attraverso le notizie e traduzioni e riduzioni in latino che Jordanes e Paolo Diacono e, soprattutto, Saxo Gramaticus ne inserirono nelle loro cronache e storie; ma nemmeno l'interesse che Carlomagno mostrava per essi è bastato a salvarli dall'oblio: nel fervore cristiano dell'età nuova, il primo movimento - anche se non durevole - fu di reazione contro tali documenti della paganità. Tuttavia a farcene conoscere non solo l'intonazione ma l'intima struttura bastano gli esempî rimasti: i quali sono sostanzialmente i seguenti: 1. il frammento di un Lied anglosassone sul combattimento alla Finnsburg, a cui è dedicato pure un episodio del Beowulf; 2. il Hildebrandslied alto-tedesco, su Hildebrand, il fido Waffenmeister di Teodorico; 3. i Lieder dell'Edda di Soemund, particolarmente i più antichi: la Sigurdkvidha forma (sulla leggenda di Brunilde e della morte di Sigfrido), la Volundarkvidha (su Wieland il fabbro), la Atlakvidha (su Attila e la fine del regno dei Burgundî), il Hamdhismal (su Ermanarico), il Lied sulla Hunnerslagt (sulla battaglia dei Campi Catalaunici).
Non è poesia storica. Non soltanto altri elementi vi si mescolano, motivi varî provenienti da leggende antiche, da riecheggiamenti dell'epica classica e, specialmente, da fiabe e miti religiosi germanici, benché solo nell'Edda s'incontrino veri Götterlieder, composti in un secondo tempo sull'esempio e secondo il modello dei Heldenlieder; non solo tutti i riferimenti a concrete contingenze storiche sono dimenticati, ma anche, in conformità con il carattere individualistico-feudale della vita sociale del tempo, i conflitti di popoli vengono risolti in personali conflitti dei capi e alle più complesse cause di ordine storico sono sostituiti semplici impulsi di passione individuale. Una cosa sola conta: la tempra di umanità dell'eroe, qualunque essa sia: il giovane eroe nell'espansione radiosa delle sue forze, l'implacabile despota, il guerriero fedele, il perfido consigliere, la vergine amante, la vendicatrice demoniaca; e questa umanità appare sempre stilizzata grandiosamente, semplificata in istinti elementari. Non i fatti in sé interessano, ma il modo come gli uomini vi si comportano. L'azione è ridotta con sommarî trapassi ai momenti culminanti e la vita vi è colta e rappresentata come presente, immediata, con greggia durezza e intensità d'espressione che talvolta ha del visionario. Nata da una storia piena di grandezza ma fosca, la poesia, tragica anch'essa e cupa, ne proietta lo spirito in un trasfigurato mondo di fantasia, in cui gli eroi vanno con lineare fatalità incontro al loro destino.
Questo esclusivo rilievo dei valori interiori della vita spiega come per tanti secoli, pur in mezzo a un così vasto mutare di luoghi e di tempi, i Heldenlieder abbiano potuto conservare intatta la loro vitalità, anche dopoché furon privi di quella forza conservatrice che è rappresentata dalla musica e dal canto. È certo difatti che quelli giunti fino a noi erano recitati: in Germania, per la quale è testimoniata largamente nei secoli anteriori l'unione di musica e di poesia ancora alla fine del sec. VIII, la libera struttura metrica del Hildenbrandslied esclude la possibilità di un accompagnamento melodico: in Scandinavia, dove la struttura strofica dei Lieder renderebbe possibile il canto, è accertato che la poesia era soltanto recitata. Del resto lo stesso perdersi dell'accompagnamento musicale che dovette in origine essere uguale, poté anche, per la maggiore facilità della trasmissione, contribuire a un rapido diffondersi dei Lieder nelle sfere del popolo.
La mancanza di una rigida divisione di caste, la quale sopraggiunse soltanto più tardi, la comunanza e unità di vita in cui condottieri e popolo erano congiunti, fecero sì che assai presto i Lieder, composti presso le corti dei potenti, passassero anche al popolo e il popolo li sentisse come suoi. Se si tiene presente che il periodo originario della composizione dei Lieder dovette essere non troppo posteriore agli eventi che vi diedero origine, e può perciò essere stabilito fra il sec. IV e il VII, e che d'altra parte già nel sec. VIII leggende gotiche, burgundiche, franche appaiono diffuse presso tutti i popoli germanici dell'Occidente e del Nord (il Hildebrandslied fu trascritto da due monaci a Fulda verso l'800; i Lieder più antichi dell'Edda sono del sec. IX, ma già verso l'800 risulta che la leggenda eroica tedesca era nota ai Norvegesi, i quali la portarono poco dopo con sé in Islanda) la partecipazione del popolo a un così vasto diffondersi dei Lieder appare evidente. Già dal sec. IX in poi, nei paesi scandinavi, la poesia eddica sembra anzi addirittura contrapporsi come "poesia di popolo" e poesia di "ammaestramento" alla poesia culta coltivata dagli scaldi presso le corti. Così più tardi anche in Germania solo l'epica cavalleresca garà considerata, accanto alla lirica, come poesia d'arte, i cui cultori hanno il loro nome legato alla propria opera, mentre gli altri restan confusi con la massa innominata del popolo. Il popolo fu così il conservatore della poesia eroica antica, dalla quale in più tardi secoli del Medioevo l'epopea germanica sorse, quando l'uso del libro scritto sostituì la trasmissione orale, rendendo possibili narrazioni più lunghe e complesse e, d'altro canto, per la lontananza storica della materia, anche l'immediata prorompente ispirazione, da cui i Heldenlieder erano nati, venne naturalmente a cedere il posto a una più pacata intonazione.
Assai presto incominciò a prodursi il passaggio dall'una all'altra forma di poesia: l'anglosassone Beowulf risale al principio del 700 (v. beowulf), alla seconda metà del sec. X appartiene il Waltharius Manufortis, che Eccheardo (v.), monaco di San Gallo, compose liberamente in esametri latini sulla leggenda di Gualtiero di Aquitania, trattata già anche in un epos anglosassone della metà del sec. VIII, il Waldhere, conservato in due frammenti di una sessantina di versi. Tuttavia alla sua piena manifestazione l'epopea germanica giunse soltanto qualche secolo dopo, col Nibelungenlied.
La vecchia teoria del Lachmann, che il Nibelungenlied non sia se non una giustapposizione di 20 Heldenlieder preesistenti, è ormai tramontata (v. tuttavia la difesa che ancora ne tenta lo Sperber in Festschrift für Jellinek, 1928). Che nei Heldenlieder sia da cercarsi, anche per il Nibelungenlied, l'"originaria pulsante vita della poesia", è indubitato. Ma non si vede come un gruppo di Lieder insieme riunito abbia potuto offrire, senza organica rielaborazione, un'epica continuità; non solo, ma il tono stesso della poesia è fondamentalmente cambiato. È, con l'epopea, una poesia nuova e diversa dalla precedente, che compare e trova nel Nibelungenlied la sua maggiore espressione. Alla condensazione drammatica del Heldenlied è succeduta una distensione spesso uniforme della materia, tale che nelle zone intermedie fra i momenti culminanti del poema il racconto epico si affloscia in una monotona cantilena; alla esaltata tensione del contrasto delle passioni è succeduta una gioia del narrare che ha portato con sé anche la gioia nuova della descrizione fastosa e, più ancora, della vicenda avventurosa. È vero che, nel poema come nei Heldenlieder, il destino sovrasta tutte le vicende degli uomini; ed è vero che, nel poema come nei Heldenlieder, la sorte di singoli individui è nel centro della poesia; ma ora non si ha più la leggenda di alcuni singoli eroi, ma quella intera di un popolo; sulla parte in cui si canta la vicenda d'amore e di morte di Sigfrido prevale la seconda in cui si piange la rovina di tutti gli eroi di una stirpe; e il destino che dall'alto incombe, dappertutto presente, è uno solo: la Morte. L'esaltante ebbrezza della contemplazione dell'eroe era alla base dell'ispirazione dei Heldenlieder, cosicché l'eroe, anche morendo, vinceva; ora, nella coscienza della stirpe, il sentimento che domina è quello del rimpianto per l'immenso e pauroso tramonto di tanta grandezza, e tutto il poema è come una cieca corsa alla morte: "Morti riposino i morti...". Qui la canzone finisce: quando il poema si chiude con queste parole, nessun'alba nuova s'annunzia sulle tenebre di tanta rovina. Tutto ciò non si può riportare all'epoca quando il Heldenlied fu in fiore.
Certo il poeta che al principio del '200 compose in Austria il testo del poema a noi giunto, riflettendovi insieme con il color dell'eloquio anche le immagini del suo Danubio, ebbe nella sua opera dei precursori; e ad una Nibelungennot in latino, composta per Piligrim vescovo di Passau alla fine del sec. X c'è, ad es., un accenno nella Klage; e attraverso la Thidreksaga scandinava s'indovinano le linee di un poema che già alla metà del sec. XII univa il motivo della morte di Sigfrido con il motivo della rovina dei Nibelungi. La più gran parte della leggenda eroica tedesca confluisce nel Nibelungenlied, e il vasto favore di cui questo godette spiega come tutta una fioritura di altri poemi vi facesse seguito.
Uno solo, benché di gran lunga il più importante, presenta una materia leggendaria di natura e di origine diversa: la Gudrun, composta, pare, nella Stiria verso il 1240, in Nibelungenstrophen, sopra leggende antiche dei Germani del Nord: anche la tonalità della poesia vi è più sfumata e moderna, e la composizione più fusa e unitaria. Negli altri poemi leggende gotiche, unne, franco-burgundiche, merovingiche, longobarde s'innestano l'una nell'altra, ora riprendendo motivi antichi, ora mescolandosi con motivi locali e complicazioni in combinazioni nuove, ora togliendo motivi nuovi ai romanzi cavallereschi e alla Spielmannsdichtung, ma conservando sempre con la materia e con i personaggi del Nibelungenlied un più o meno stretto legame. La Rabenschlacht, del principio del sec. XIII, conservata fino a noi in un'elaborazione trecentesca di Heinrich der Vogeler, narra la morte dei figli di Attila e il tentativo di Teodorico di riconquistare il suo regno, fino all'assedio di Ravenna; la Dietrichs Flucht dello stesso Heinrich der Vogeler congiunge verso il '300, ma rifacendosi a elaborazioni anteriori, la leggenda di Teodorico con quella di Ermanarico, presentato come suo zio; e un episodio della leggenda è trattato nello Alpharts Tod (metà sec. XII); Biterolf und Dietleib, composto verso la metà del sec. XIII, mette la leggenda di Teodorico in relazione con quella di Sigfrido; e lo stesso motivo è ripreso e sviluppato dal Rosengarten della prima metà del sec. XIII. Il Laurin, del principio del '300, detto anche Piccolo Rosengarten, perché anch'esso pone la scena dell'azione nelle Dolomiti, fa liberare da Teodorico la sorella di Dietleib, che il nano Laurin aveva portato con sé nel suo regno montano; mentre lo Eckenlied, della prima metà del sec. XIII, lo aveva invece fatto combattere con il gigante Ecke a Verona, così, nella prima metà del sec. XIII, anche la Dietrichs erste Ausfahrt, conservata fino a noi nel Virginal, aveva messo Teodorico a combattimento con i Draghi. Il nano Alberico, custode del tesoro nel Nibelungenlied, è presentato come padre dell'eroe del poema Ortnit della metà del sec. XIII, in cui risonanze tenaci di leggende vandale e slave antiche si mantengono vive, pur essendo trasportata la scena dell'azione nell'Italia superiore; e la leggenda di Ortnit si mescola con quella franco-merovingica di Wolfdietrich, nel Wolfdietrich, di cui son conservate quattro redazioni diverse, tutte del secolo XIII: il rapporto fra Wolfdietrich e Berchtung, duca di Merano, richiama quello di Teodorico e di Hildebrand. La figura di Teodorico sta 1iel centro di questo mondo epico; e verso il 1250, nella poesia nordica, dove il Heldenlied non ebbe il suo sbocco nell'epopea, ma in una ricca saga in prosa, la figura di Teodorico, saggio principe, raccolse difatti direttamente intorno a sé tutte queste leggende nella Thidreksaga. In quel medesimo tempo Snorri Sturluson redigeva l'Edda (v.) in prosa e nella Volsungasaga si raccoglievano ancora una volta i dispersi elementi della storia di Sigfrido. In un unico mondo di eroica leggenda si congiungeva la vita di tutta la stirpe germanica, dal medio Danubio fino all'Islanda. La stampa del Hürner Siegfried sulla giovinezza di Sigfrido (1528), e i Volksbücher sullo stesso tema mostrano la vitalità della leggenda nella coscienza del popolo, ancora nel sec. XVI.
Bibl.: Sulla leggenda v. W. Grimm, Die deutsche Heldensage, 3ª ed. R. Stig, Gütersloh 1889; L. Uhland, Die germanische Heldensage, in Schriften, I, VII, VIII; Simos, Die germanische Heldensage, in H. Paul, Grundriss der germanischen Philologie, III; O. L Jiriczec, Deutsche Heldensagen, Lipsia 1898; F. von der Leyen, Die deutschen Heldensagen, Monaco 1912; F. Panzer, Märchen Sage und Dichtung, Monaco 1905; id., Studien zur Germanischen Sagengeschichte, Monaco 1912; L. Wolff, Die Helden der Völkenwanderungszeit, Jena 1928; H. Schneider, Germanische Heldensage, Berlino 1928; H. M. Chadwick, The eroic Age, Cambridge 1912.
Sul Heldenlied e sull'epopea cfr.: A. Heusle, Lied und Epos in germanischen Sagendichtung, Dortmund 1905; id., Die altegermanische Dichtung, Berlino 1926; W. P. Ker, Epic and Romance, 2ª ed., Londra 1908; F. Panzer, Das althochdeutsche Volksepos, Lipsia 1903; J. Meier, Werden und Leben des Volksepos, Lipsia 1909; A. E. Schönbach, Das Christentum in der altdeutschen Heldendichtung, Graz 1897; H. Schneider, Heldendichtung, Ritterdichtung, Gentliche Dichtung, Lipsia 1925; S. Singer, Mittelalter und Renaissance, Tubinga 1910. Cfr. inoltre, per l'epopea scandinava, A. Olrik, Danmarks Heldedigtning, Copenaghen 1903-10; v. anche Edda, Bibl.; e per l'epopea tedesca v. Nibelungi, Bibl. Eccellenti, anche con contributi nuovi di ricerca, sono gli articoli di A. Hensler, in Reallexikon der germanischen Altertumskunde: v. particolarmente nel vol. I, Heldenepos e Heldenlied e nel vol. II, Heldensage, nonché i singoli articoli sui principali personaggi della leggenda da Dietrich von Bern a Siegfried.
Epopea romanza. - Al centro dell'epopea romanza è l'epopea francese, sulla cui origine e la cui storia v. canzoni di gesta. L'epopea francese possiede il più grande poema eroico del mondo cristiano neo-latino, la Chanson de Roland, nel quale non è esaltato soltanto l'eroismo individuale, né si celebra la sola potenza conquistatrice di una nazione, ma sono anche simboleggiati i supremi ideali della civiltà cattolica e romanza. Nelle lotte dei due popoli, il cristiano e il saraceno, e delle due fedi. nelle vittorie e nelle conquiste della spada di Orlando messa a servizio dell'Impero e della Croce, nella vita "penosa" e insonne di Carlomagno si proiettano le luci d'un'età e d'una società, che sono tutte pervase di mistico ardore.
Le diverse geste - quella che continua e amplia l'azione di Carlomagno (v. anche carolingi: La poesia eroica carolingia), quella di Garin de Monglane (Guillaume d'Orange, Aimeri de Narbonne, Girart de Vienne, ecc.) imperniata sulle lotte aspre e generose d 'intere schiatte cavalleresche in difesa della loro cristianità, quella di Doon de Mayence (Doon, Raoul, Gerart, Ogier, Gormond et Isembart, ecc.) che celebra la ribellione dei grandi feudatarî - sono materiate quale più quale meno d'uno spirito guerriero, teso verso eroismi concreti, luminoso riflesso di grandi tradizioni storiche e di nobili aspirazioni morali.
Meno universali, rispetto al mondo romanzo e cristiano, sono gli aspetti dell'epopea spagnola; ma altrettanto forte e schietto ne è lo spirito nazionale. Mentre la Chanson de Roland presuppone una vasta unità politica e morale già costituita e consapevole della propria missione religiosa e cavalleresca, il Cantar de Mio Cid (v. cid) rispecchia invece una società più regionale e feudale, caratteristica della Castiglia. Sebbene circoscritto ed elementare nelle sue geste e nei suoi ideali, il poema del Cid traduce tuttavia il travaglio di un popolo che vuole superare la frammentarietà politica per una più organica compagine nazionale e che è costretto a difendere i proprî confini, la propria esistenza e la propria fede minacciati dal mondo islamico. Sorta più tardi della francese, l'epopea castigliana ne deriva non pochi elementi, che servirono a G. Paris per documentarne la diretta derivazione dalla Francia. Viceversa R. Menéndez Pidal, fondandosi su una presunta tradizione epica dei Visigoti e sul carattere germanico di consuetudini morali e giuridiche che sembrano sopravvivere nella società descritta dall'epopea castigliana, propugna la teoria delle origini germaniche, che sarebbero state quindi comuni alla Francia e alla Spagna. Sempre con lo stesso metodo di astrazione, J. Ribera, riferendosi ad atteggiamenti e motivi arabi, cercava a sua volta di localizzare l'origine dell'epopea nell'Andalusia musulmana, con una tesi parallela a quella prospettata per la genesi della lirica neolatina. Ma su queste teorie, che trasportano il problema in epoca assai remota e ne cercano la soluzione in antecedenti astratti, prevalgono le dottrine di Milá y Fontanals, di Menéndez y Pelayo e dello stesso Menéndez Pidal (quest'ultimo sulla traccia di P. Rajna), che presuppongono l'esistenza di una ricca fioritura giullaresca di Cantares de gesta, composti in versi alessandrini (o polimetri, ma sempre sulla base dell'alessandrino), dei quali ci è pervenuto il solo Cantar de Mio Cid, mentre gli altri, perduti, sopravviverebbero o incorporati e assimilati alla prosa delle cronicas, o ripresi nei romances del sec. XV. Comunque, come le origini dell'epica francese vanno ricercate nelle particolari tradizioni storiche, religiose, letterarie e nelle aspirazioni civilizzatrici della Francia nei secoli XI-XIII, così quelle dell'epica spagnola nella particolare tradizione della Castiglia, che, pur avendo un substrato comune con il resto del mondo romanzo-germanico e pur attingendo alla cultura della Francia e della Provenza, ha un suo peculiare clima storico. Dai contatti con le genti musulmane, la Spagna traeva esigenze e costumi di vita e d'arte: oltre alla leggenda del Cid, anche quella dei Siete Infantes de Lara (v. lara) si sviluppa ai confini delle due civiltà, entro la fitta rete degl'interessi particolaristici e regionali, ma sempre sullo sfondo della minuta e tenacissima lotta dei due popoli; e in uno stesso ambiente feudale si dispiega l'azione del Poema de Fernán Gonzalez (v. fernán), in basi dell'autonomia castigliana e promovendo la riconquista cristiana. Da ciò il carattere realistico e quasi documentario dell'epopea spagnola, tutta intesa a ritrarre la propria terra con precisione geografica e con storica verosimiglianza, e da ciò il suo tono artistico che si affisa sulla realtà senza grandiosità astratte e senza mistiche aspirazioni, ma con una profonda concretezza umana e morale. Creazione essenzialmente spagnola sono i romances (v. romance) che nei secoli XV-XVI si sovrapposero alla produzione epico-cavalleresca: in essi ritornano vecchie leggende e ripalpitano ideali eroici dell'antica Castiglia feudale e religiosa (Re don Rodrigo, Bernardo del Carpio, Fernán González, Garcí Fernández, e ancora il Cid, gl'Infanti di Lara, ecc.); ma per lo più hanno un carattere lirico-narrativo e palesano un'elaborazione dotta.
Bibl.: G. Paris, Histoire poétique de Charlemagne, Parigi 1865; P. Rajna, Le origini dell'epopea francese, Firenze 1884; J. Bédier, Les legendes épiques, voll. 4, 2ª ediz., Parigi 1914-21; M. Milà y Fontanals, De la poesía heróico-popular castellana, Barcellona 1874; R. Menéndez Pidal, L'épopée castillane, Parigi 1910; id., Poesía popular, in Revista de filología esp., III (1916); J. Ribera, Discurso leído en la Ac. de Hist., Madrid 1915; J. Cejador y Frauca, El Cantar de mío Cid y la epopeya castellana, in Rev. hisp., XLIX (1920); C. Viñas Mey, Sobre el origen e influencia de los cantares de gesta, in Rev. de los archivos, 1922. V. anche la bibl. sotto cid; romance; canzoni di gesta.
Le peculiari vicende storiche dell'Italia durante il Medioevo e particolarmente il succedersi, nel dominio della penisola, di sempre diverse genti straniere, come ritardarono il deciso affermarsi di una salda coscienza unitaria italiana, impedirono che si formasse una vera e propria epopea nazionale, a meno di non considerare come tale quel poema sui generis che è la Divina Commedia. Il poema di Dante, che il Vico, con profondo intuito, chiamò "l'Omero della ritornata barbarie", è non soltanto la voce delle genti cristiane del Medioevo, ma anche e soprattutto la voce d'Italia, è veramente il libro delle origini italiane. Del resto l'epopea carolingica si propagò presto in Italia, almeno fino dal sec. XII, e nella bassa valle del Po diede origine a una letteratura di tipo cavalleresco che dall'ibrida lingua in cui ci è giunta (un misto di antico francese e di dialetto veneto) è detta letteratura francoveneta e francoitaliana. Una vasta compilazione ciclica su Buovo d'Antona, sulla madre e la giovinezza di Carlomagno, ecc., raffazzonata di su racconti francesi da un anonimo giullare veneto (sec. XIII o inizî del XIV), e due poemi d'invenzione per gran parte italiana (l'Entrée d'Espagne di Niccolò da Verona e la Prise de Pampelune d'un anonimo padovano) sono le tre composizioni più note di questa letteratura, che si mantenne viva fin dopo la metà del sec. XIV e fu continuata nell'Italia settentrionale e più largamente in Toscana, da poemi e racconti prosastici in volgare, moltiplicatisi giù per tutto il sec. XV e i primi decennî del XVI. Tra i numerosi poemi di composizione giullaresca, il più notevole è forse la Spagna, che mette capo al racconto della rotta di Roncisvalle e fu composto verso la fine del sec. XIV, probabilmente qualche tempo prima che Andrea da Barberino (v.) componesse in prosa I Reali di Francia. D'invenzioni carolingiche, anzi per gran parte d'un poema giullaresco anonimo dell'ultimo Trecento e della Spagna, materiò il suo Morgante Luigi Pulci (v.) dando a quei racconti l'impronta vigorosa della sua personalità di uomo e di poeta.
Parallelamente ai poemi e ai romanzi carolingici, il Medioevo italiano produsse componimenti epici d'argomento bretone, e altri d'argomento classico. Quelli d'argomento bretone sono per lo più traduzioni o rimaneggiamenti di originali francesi, come un Tristano in prosa del secolo XIII e qualche più tardo poemetto su Febusso e su Lancillotto, o adattano favole bretoni a personaggi diversi dai primitivi protagonisti; quelli d'argomento classico attingono a scrittori della decadenza latina, direttamente o più spesso attraverso rifacimenti francesi, racconti classici che, rivissuti da spiriti medievali, sono profondamente trasformati e assumono un colorito feudale e cavalleresco (v. cavalleresca, poesia). Con maturità d'arte e finezza di gusto, il Boiardo (v.) rifonderà in uno schema di personaggi e di avvenimenti carolingi la materia bretone e la classica ad esprimere una cavalleresca concezione della vita, propria della sua anima nobile e amorosa, e l'Ariosto, seguitando la materia trattata dal conte di Scandiano, riplasmerà leggende bretoni e classiche e carolingiche nella più originale e più insigne opera poetica del Rinascimento italiano, annullando la tradizione nell'individualità.
Epopea slava. - Nessuna delle letterature slave ha avuto una vera epopea. Non già che a esse mancassero la disposizione epica o la materia; ma l'una e l'altra hanno avuto la loro espressione esclusivamente in singoli canti epici di cui soltanto alcuni e soltanto esteriormente (per opera cioè di studiosi della materia epica e non alla battaglia di Kosovo e intorno alla figura leggendaria di Marko Kraljević presso i Serbi, e quello intorrno ai bogatyri di Kiev presso i Russi.
Di questi canti soltanto il breve Canto della schiera d'Igor (v. igor; bylina) si avvicina veramente all'epopea, per il suo andamento epico, come pure per il suo contenuto, uno squarcio di vita feudale russa del sec. XII. Anche i canti epici degli Slavi meridionali riflettono condizioni storiche, medievali e recenti e la loro origine va messa in rapporto, sia pure non bene precisabile, col periodo in cui, prima dell'invasione turca, ebbe forte sviluppo nel centro della penisola balcanica il sistema feudale. Creati da un fiorente stato di cultura, essi hanno potuto mantenersi fino ai nostri giorni soprattutto per il ricordo che di quest'epoca di splendore si ebbe nei secoli successivi, ricordo che essi stessi contribuirono fortemente a trasmettere ai posteri. Meno pronunziato è il carattere epico dei canti popolari bulgari, e scarso quello delle dumy ucraine. Nei brevi canti polacchi, il contenuto epico, che una volta forse vi prevaleva, è andato perduto per la forte riduzione che essi hanno subito dalla tradizione orale.
Epopea riflessa. - Col rinascere degli studî dell'antichità classica si va affermando l'epopea riflessa, condotta sull'esempio dei poemi classici e regolata dal concetto che del genere letterario "epopea" le "poetiche" vengono via via elaborando. È, in massima, un prodotto, senza alcun afflato di spirito nazionale, chiuso nelle dottrine e nelle ambizioni dei letterati.
Letteratura italiana. Gl'incunabuli dell'epopea riflessa in Italia si debbono cercare nelle cronache e storie versificate e nei canti storici, più o meno frequenti dal sec. X al XIV. Citiamo il Panegyricus Berengarii imperatoris di anonimo (sec. X), i Gesta Roberti Wiscardi (1088-1111) di Guglielmo Pugliese, la Vita della contessa Matilde (morta nel 1115) di Donizone da Canossa, il Liber maiolichinus de gestis Pisanorum illustribus (1115) di Enrico pisano, i Frederici Aenobardi gesta (1152-60) di anonimo, i Gesta Friderici I di Goffredo da Viterbo (morto nel 1200?), il Carmen de rebus Siculis (1189-95) di Pietro da Eboli (morto nel 1221?). E la serie continua sino al sec. XIV, quando Antonio Pucci, ser Gorello, Buccio di Ranallo e altri scrivono per il popolo rozzi poemetti storici e cronache rimate in volgare.
Col sorgere dell'Umanesimo, i poemi di Virgilio e più tardi d'Omero, e i poemi storici di Lucano e più tardi di Silio Italico, divennero i modelli su cui la poesia epica fu plasmata. Ecco l'Africa che meritò al Petrarca l'incoronazione poetica, poema in cui la narrazione liviana della seconda guerra punica, arricchita e ornata di ricordi virgiliani e ciceroniani, è tutta pervasa d'un nuovo spirito di poesia, la poesia della grande storia di Roma concepita e sentita come l'espressione della Provvidenza, reggitrice dei destini del genere umano nell'andare dei secoli. Ed ecco il Teseida del Boccaccio (intorno al 1340), primo tentativo di poema eroico in volgare, che, nobilitando la popolare ottava, diede il metro alla futura poesia italiana narrativa.
L'epica latina del Quattrocento cantò preferibilmente avvenimenti contemporanei a fine encomiastico: esempî, l'Esperide di Basinio Basini, che celebra le vittorie (1448 e 1453) di Sigismondo Pandolfo Malatesta; la Sforziade di Francesco Filelfo e altri poemi di Giammario Filelfo e d'altri. Intanto fioriva, con Niccolò Ciminello, Lorenzo Spirito, Antonio Cornazzano e altri, la poesia storica dotta e popolareggiante in ottava e terza rima. Gli umanisti narrarono in forma epica omerico-virgiliana anche fatti mitologici (per esempio, Maffeo Vegio e il predetto Basini cantarono l'impresa del vello d'oro), e fatti di storia sacra, come lo stesso Vegio, Macario Muzio, Battista Spagnoli, superati più tardi da Iacopo Sannazzaro (De partu Virginis, 1526), da Marco Girolamo Vida (Cristiade, 1535), da Pier Angelio da Barga (Siriade, 1591). E questa tradizione continuerà sino alla fine del sec. XVII, con l'arcadico Puer Iesus (1690) di Tommaso Ceva.
La Poetica di Aristotele, tradotta nel 1498 in latino da Giorgio Valla, a cominciare dal Trissino (1529), divenne la gran fonte a cui ricorsero i teorici della poesia. Nel 1547 usciva alla luce l'Italia liberata dai Goti di esso Trissino, che voleva mostrare con l'esempio come dovessero essere applicate le regole d'Aristotele e come si dovesse imitare l'Iliade. Nella dedicatoria a Carlo V del suo pedestre poema, il Trissino, esponendo brevemente i criterî a cui s'era attenuto, affermava che nessun poema "eroico" era stato composto in italiano prima del suo, venendo così ad escludere dal novero dei poemi eroici quelli del Pulci, del Boiardo, dell'Ariosto. Insorsero a difesa di quest'ultimo G. B. Giraldi Cinzio e G. B. Pigna (1554): ma i critici (Speroni, Scaligero, Minturno, Castelvetro, Patrizi e altri) si diedero a elaborare sottilmente il concetto di poema eroico, nettamente differenziandolo dal poema romanzesco o cavalleresco, finché con Torquato Tasso (Discorsi sul poema eroico, 1594) si costituì quella teoria del poema eroico, che fu seguita da tutti i trattatisti sino a mezzo il sec. XIX. Il poema eroico è, per il Tasso, "una imitazione d'azione illustre grande e perfetta, fatta narrando con altissimo verso a fin di giovar dilettando": il che importa che il poema eroico, a differenza del romanzesco, pur non rifuggendo dal maraviglioso, debba essere fondato sulla storia; abbia unità d'azione; faccia sempre squillare l'epica tromba, mantenga insomma un tono costantemente alto; miri ad alto fine, e non soltanto al diletto.
Il Trissino aveva scelto come metro epico il verso sciolto: ma con l'Avarchide di Luigi Alamanni, piatta imitazione della Iliade (pubblicata postuma nel 1570), e col Costante (1565) di Francesco Bolognetti, venne prevalendo l'ottava rima, il metro tradizionale, dal Boccaccio in poi, dell'epica italiana. Torquato Tasso che nel Rinaldo (1562) aveva felicemente tentato un poema che, pur derivando la materia dai romanzi di cavalleria, avesse unità d'azione e s'attenesse alle forme dell'epopea classica, appagò finalmente, con la Gerusalemme liberata (1ª ediz., 1581), il desiderio dei critici italiani d'avere un poema che potesse gareggiare con l'Iliade e con l'Eneide.
La Gerusalemme liberata piacque tanto, che gli epigoni del Tasso oltrepassano, nel secolo XVII, il centinaio. Alcuni poemi si riattaccano proprio alla Gerusalemme; come l'Erminia (1605) del Chiabrera, autore anche dell'Amedeide e della Gotiade, il Boemondo (1651) di Giovan Leone Semproni, il Tancredi di Ascanio Grandi. I due migliori poemi del Seicento sono indubbiamente la Croce racquistata (1611) di Francesco Bracciolini e il Conquisto di Granata (1650) di Girolamo Graziani. Storicamente notevoli l'Enrico o vero Francia conquistata di Giulio Malmignati, da cui il Voltaire trasse alcune invenzioni per la Henriade, e il Mondo nuovo (1628), poema di Tommaso Stigliani sulla scoperta dell'America. Della smania epico-eroica che aveva invaso i poeti del Seicento, idolatri del Tasso, si burlarono gli autori di poemi eroicomici, tra i quali citiamo (lasciando da banda l'Eneide travestita di G. B. Lalli da Narni, morto nel 1637), oltre alla Secchia rapita del Tassoni, che è il capolavoro di questa specie, lo Scherno degli dei del Bracciolini e il Malmantile riacquistato di Lorenzo Lippi, il quale, mettendo in rima novelle da donnicciole, dichiarava di fare "tutto il rovescio della medaglia della Gerusalemme Liberata". Nati da ispirazione letteraria, questi poemi eroicomici acquistano valore d'arte cioè riescono ad essere efficaci espressioni d'anime, quando l'episodio spicciolo o, comunque, l'ispirazione extraletteraria prende il sopravvento e riesce a dare al poema un contenuto di più profondo interesse.
Lo Scherno degli dei si può in verità considerare come parodia del poema mitologico, che, già coltivato nel Cinquecento, ammiratore e frequente traduttore d'Ovidio, piacque al Seicento, che tutto si rispecchia nel lussureggiante Adone (1623) di G. B. Marino. A riscontro dei poemi mitologici si possono citare i poemi sacri che si scrissero sin dalla fine del Cinquecento: esempî, le Lacrime di S. Maria Maddalena (1187) e l'Angeleida (1590), da cui forse il Milton trasse l'idea del Paradiso perduto, di Erasmo di Valvasone; la Creazione del mondo (1508) di Gaspare Murtola; la Strage degl'innocenti (1633), la più popolare opera di G. B. Marino.
Il Settecento ebbe non pochi poemi eroici e poemetti (tra i quali non dimenticheremo l'Etruria liberata dell'Alfieri), e qualche tentativo di poema in prosa, e poemi religiosi e poemi d'imitazione dantesca: opere nate morte. Abbondantissima e spesso felice la produzione di poemi giocosi e satirici: si leggono ancora con interesse, oltre il Ricciardetto del Forteguerri e la Marfisa bizzarra di Carlo Gozzi, che si possono considerare come parodie del poema cavalleresco, il Poema tartaro e gli Animali parlanti del Casti, la Fata galanti (1762) e il Don Chisciotti e Sanciu Panza (1787) del Meli, la Rete di Vulcano del Batacchi.
Nella prima metà del sec. XIX troviamo una nuova abbondante fioritura di poemi, circa una cinquantina, caduti anch'essi come i loro confratelli dei due secoli precedenti, nel meritato oblio. I classicisti rimanevano fedeli naturalmente al poema di tipo classico; e i seguaci del Romanticismo non disdegnarono scriver poemi per mostrare ai primi come questo genere letterario dovesse essere trasformato secondo le esigenze dei tempi. Abbiamo dunque poemi eroici (i poemi napoleonici del Cesarotti, del Monti, ecc.; il Camillo o Vejo conquistata, 1815, di Carlo Botta; l'Italiade, 1819, di Angelo Maria Ricci; i poemi colombiani di Bernardo Bellini, Lorenzo Costa e Massimina Fantastici Rosellini; i Lombardi alla prima crociata, 1836, di Tommaso Grossi, ecc.); poemi mitologici (il Cadm0 di Pietro Bagnoli, la Teseide di Teresa Bandettini, il Prometeo e la Feroniade del Monti); poemi religiosi (il S. Benedetto di A. M. Ricci, il Salvatore di David Bertolotti); poemi giocosi ed eroicomici (il Poeta da teatro del Pananti, i Paralipomeni del Leopardi).
Ma la poesia narrativa risorse con forme assai diverse dalle antiche, con poemi più brevi e atti più a suscitar commozione che meraviglia: cantiche dantesche (Bassvilliana e Mascheroniana del Monti, Una notte di Dante di Giovanni Marchetti); ampie novelle poetiche (Sestini, Grossi, Pellico, Campagna, Padula, Tommaseo, Prati, Zanella, Fogazzaro); poemi lirici (I profughi di Parga del Berchet, l'Esule di Pietro Giannone, ecc.).
In anni più a noi vicini, la sfortuna dei tentativi epici dell'ultimo Prati e del Rapisardi è compensata dalla fortuna dei frammenti epici, di cui diede esempî insigni il Carducci, seguito dal D'Annunzio, dal Marradi, dal Pascoli. Ma non è detto che la nota, un po' sofistica, sentenza del Manzoni debba essere senza appello. Di una "narrazione poetica di cose memorabili" il popolo avrà sempre vaghezza: lo dimostra la popolarità dei poemi romaneschi (Villa Gloria e La scoperta dell'America) di Cesare Pascarella.
Bibl.: P. Rajna, Storia ed epopea, in Archivio storico italiano, 1909; U. Foscolo, Poemi narrativi italiani, in Opere, X, p. 132 segg.; G. B. Cereseto, Della epopea in Italia considerata in relazione con la storia della civiltà, Napoli 1859; A. Belloni, Il poema epico e mitologico, nella collez. Storia dei generi letterari italiani, Milano; B. Zumbini, Dell'epica cristiana italiana e straniera, in Studî di letter. comparata, Bolonga 1931. Per l'epica del sec. XVII: A. Belloni, Gli epigoni della "Gerusalemme liberata"), Padova 1895. Per l'epica nel sec. XVIII, G. Natali, Il Settecento, Milano 1929, pp. 1028-32; per l'epica nella prima metà del sec. XIX, C. Tenca, Epici moderni in Italia, in Prose e poesie scelte, I, Milano 1888.
Letteratura francese. - Decaduto e definitivamente chiusosi nei secoli XIV-XV il ciclo dell'epopea nazionale e religiosa, le dottrine umanistiche della Pleiade, concepivano il genere epico sulla traccia del poema classico e il loro più autorevole precettista, il Ronsaid, modellava sull'Odissea e sull'Eneide il primo tentativo (Franciade, 1572) rimasto incompiuto e infecondo. Né, certo, era, più concreto lo spirito del Du Bartas, che intendeva fare opera viva e attuale soltanto con il sostituire al contenuto pagano una biblica storia dell'umanitȧ (Semaine, 1578-90). Viceversa, la passione eroica, riflessa dall'immediatezza della vita storica, riviveva, al di là d'ogni teorica, nel D'Aubigné (Les Tragiques, 1616), la cui opera tuttavia rimaneva solitaria e senza echi: ché il Seicento, a mano a mano che s'inoltrava, accentuava gl'interessi razionalisti e teorici a discapito del fervore poetico, e proprio attorno al genere epico accendeva la lunga e violenta disputa della Querelle des anciens et des modernes (v. antichi e moderni), definendo e schematizzando l'estetica del Rinascimento e contribuendo a chiarire e affinare la sensibilità critica. Ma i poemi che accompagnano siffatte predilezioni sono pletorici e prosastici, frutto di pedantesca esercitazione e di erudita faciloneria; e la loro genesi spirituale si determina più per documentare i preconcetti estetici dell'autore che per imperiosa necessità lirica. L'esuberante produzione - per es.: Moyse (1653) del Saint-Amant, Saint Louis (1653) di P. Le Moyne, Saint Paul (1654) di A. Godeau, Le Pharsale de Lucain (1654) di G. de Brébeuf, Alaric (1654) di G. Scudéry, La Pucelle ou la France Chrestienne (1657) del Desmarets, i poemi biblici di J. de Coras (1663-65), Charlemagne (1664) di Louis Le Laboureur, Childebrand (1666) di J. Carel, Saint-Paulin (1686) del Perrault, ecc. -, se attesta, nella ricerca di un contenuto cristiano e nazionale, lo sforzo di rendersi più moderna e più aderente allo spirito contemporaneo, è meritevole complessivamente delle censure e della satira del Boileau.
Più tardi, Voltaire s'illudeva di dare alla Francia l'equivalente dell'Eneide: ma la Henriade (1728) si affermava come opera d'arte per la particolare sensibilità lirica di qualche episodio e di qualche quadro, più che per il soggetto nazionale e gli schemi classici e italiani a cui intendeva tenacemente adeguarsi. Comunque è il tentativo più notevole, poiché per il Settecento e i primi dell'Ottocento il poema epico vive ai margini della vita letteraria - cfr.: Les Incas (1777) del Marmonte, Achille à Scyros (1805) di Luce de Lancival, Charlemagne à Pavie (1808) del Millevoye, l'Atlantide (1812) e la Panhypocrisiade (1819-32) di N. Lemercier, Napoléon en Egypte (1828) di A. Bartélemy, la Divine Epopée (1840) e Jeanne d'Arc (1845) di Alèxandre Soumet, ecc. - e interessa tutt'al più, come documento storico e morale, mentre rappresenta quasi sempre un episodio artistico nell'opera dello stesso autore, che si rivela meglio in altri atteggiamenti fantastici e con altro contenuto umano. La poesia, rinnovata dal movimento romantico - anche quando riprende spiriti e forme della poesia classica o ricanta miti eroici, religiosi o filosofici - è sempre penetrata da un interiore individuale lirismo.
Bibl.: H. Rigault, Histoire de la querelle des Anciens et des Modernes, Parigi 1859, e la bibl. sotto la voce antichi e moderni; F. Brunetière, L'évolution des genres dans l'histoire de la littérature, Parigi 1890; J. Duchesne, Histoire des poèmes épiques français du XVIIe siècle, Parigi 1870; R. Toinet, Quelques recherches autour des poèmes du XVIIe siècle, Tulle 1899-1907; E. M. Mustoxidi, Histoire de l'esthétique française, Parigi 1920.
Letterature spagnola e portoghese. - Con il Cinquecento si diffonde anche in Spagna il gusto del poema classico e storico, ricalcato su schemi estetici del Rinascimento italiano: la Historia Parthenopea (1516) di Alarico Hernández, il Carlo famoso (1566) di Luis Zapata, La Austríada (1584) di Juan Rufo hanno interesse cronachistico; si distacca La Araucana di Ercilla (v.), ultimo poema della grandezza spagnola.
In Portogallo la vita storica medievale, che pur vi si era svolta fervida e combattiva come nel resto della penisola, non aveva lasciato nella letteratura se non qualche episodica risonanza lirica e qualche prosastico documento di cronaca. Solo nel Cinquecento, sotto l'influsso dei grandi modelli latini e italiani, nel periodo delle grandi scoperte e delle grandi conquiste marinaresche, i Lusiadas del Camões (v.) celebrano con voci virgiliane e richiami mitologici e atteggiamenti umanistici le nuove glorie della nazione lusitana e i suoi novelli eroi. La Elegiada (1588) di L. Pereira Brandão, il Condestabre (1609) di Rodrigues Lobo, Alfonso Africano (1611) di Vasco Mousinha, l'Hèspanha Libertada di Bernarda Ferreira, Malaca conquistada (1634) di Francisco de Sá de Meneses, la Insulana (1635) e Phenix da Lusitania (1649) di Manuel Tomás, la Ulyssea (1636) di Gabriel Pereira de Castro, Ulissipo (1640) di A. de Sousa de Macedo, la Destruição de Hespanha (1671) di André da Silva Mascarenhas, Viriato tragico (1696) di Brás Garcia de Mascarenhas, e così via, sono per tutto il Cinque e il Seicento echi più o meno fedeli - ora più classicheggianti e astratti, ora più storici e biografici - della conquista e della politica lusitana: vi manca lo spirito eroico del loro grande modello, e si giustificano entro la piatta tradizione del genere letterario.
Letterature germaniche. - Se ugualmente vasta fu l'influenza di Omero e di Virgilio sulla letteratura inglese e su quella germanica, tale del poema epico fu invece relativamente più scarso. In Inghilterra si ebbero poemi epici varî, specie nel Rinascimento, in inglese e in latino; e all'influenza classica si mescolò più tardi l'influenza anche del Tasso; ma il grandeggiare dell'epopea religiosa creata da Milton nel Paradiso perduto ne interruppe lo sviluppo, senza che nulla di particolarmente notevole si fosse prodotto. La tendenza descrittiva e moraleggiante spinse poi la poesia verso le forme del poema didattico o idillico. E anche nel romanticismo, mentre la reazione alla classicità allontanava dagli antichi modelli, il rinascere dello studio della poesia medievale non condusse a un rinascere dell'epoca medievale: la forma poetica narrativa del romanticismo inglese fu la novella in versi, da Byron a Scott.
E anche in Germania i poemi latini e tedeschi del secolo XVII, che si accompagnarono alle poetiche susseguentisi senza tregua da Opitz in poi, sono tutti di scarso interesse: il suo maggior poema la letteratura tedesca presenta nel secolo seguente nella Messiade del Klopstock, dove tuttavia il pathos lirico sommerge spesso la concretezza della visione e l'influenza essenziale fu, per l'affinità dell'ispirazione religiosa, quella di Milton. Mentre il poema idillico giungeva, con la Luise del Voss e il Hermann und Dorothea del Goethe, a una stilizzazione che fu tipica anche per gli altri paesi, ogni tentativo epico nel pieno senso della parola restò frammento come in Der ewige Jude del Goethe. Una ripresa di tentativi si ebbe ancora nel sec. XIX, per opera fra altri di Lenau (Die Albreginzer) e di Hamerling (Ahasverhs in Rom); ma i soli momemi che vi hanno vita sono quelli lirici. La leggenda eroica medievale rivisse bensì, ma in forma di dramma e di dramma musicale, per opera di Hebbel e di Wagner.
Le uniche letterature presso cui la moderna poesia conobbe una rinascita epica fumno le scandinave. In Danimarca Oehlenschläger (Aladdin, Helge, ecc.), in Svezia Isaias Tegnér (Frithjofs saga) diedero al proprio popolo il poema tipico dello spirito nazionale.