equalità e inequalità
L’elaborazione teorica delle categorie di e. e i. è interamente consegnata a un unico testo, il cap. lv del libro I dei Discorsi. Sebbene solitaria, si tratta tuttavia di una pagina di grande rilevanza, in cui M. compie un tentativo originale e innovativo, anche e soprattutto rispetto alle sue stesse precedenti posizioni, con il quale si propone di dimostrare lo strettissimo nesso che intercorre tra la struttura sociale e le istituzioni politiche. Una pagina che, pur tra luci e ombre, lascia un’impronta duratura sul suo approccio ai fenomeni della politica, se si pensa che il binomio e. e i. diventerà nei suoi ultimi scritti criterio d’intervento politico, nel Discursus florentinarum rerum, il progetto di riforma delle istituzioni fiorentine composto negli anni immediatamente successivi alla morte di Lorenzo de’ Medici, duca di Urbino (1519) – e di analisi storiografica, nelle Istorie fiorentine – la grande storia di Firenze avviata su commissione del cardinale Giulio de’ Medici, il futuro papa Clemente VII, nel novembre del 1520. Il rilievo che il binomio e. e i. assume nelle sue opere più tarde induce a ipotizzare che il cap. lv vada ascritto all’estrema fase compositiva dei Discorsi – che cadrebbe proprio intorno al 1520 – configurandosi, quindi, come l’approdo ultimo della riflessione politica di Machiavelli.
Va detto, però, che il ricorso congiunto dei termini equalità e inequalità si ha anche in Discorsi I xvii, dove si discute della possibilità d’instaurare o restaurare una repubblica in presenza di una condizione di corruzione politica generalizzata e radicata. Nella chiusa del capitolo, M. scrive:
Perché tale corruzione e poca attitudine alla vita libera nasce da una inequalità che è in quella città, e volendola ridurre equale è necessario usare grandissimi straordinari, i quali pochi sanno o vogliono usare, come in altro luogo più particolarmente si dirà (§ 16).
Sarebbe, tuttavia, azzardato da ciò concludere che in Discorsi I xvii si riscontri una presenza, oltreché nominale, anche sostanziale dei concetti di equalità e inequalità. In effetti, il capitolo non va oltre lo stabilire una connessione meramente formale ed esteriore di e. e i. con la corruzione, senza veramente provare a riempire i due termini di un contenuto determinato e a farne effettivo strumento di analisi della materia esaminata. Rimane dunque, come si diceva e come peraltro convalida il rimando contenuto nello stesso passo citato in Discorsi I xvii, il solo cap. lv quale testo cui rivolgersi per scoprire cosa M. intenda con la distinzione e. e i. e quale ruolo vi assegni nel determinare la dinamica dei fatti sociopolitici.
E. e i. designano due diversi assetti sociali, anzi, gli unici due possibili assetti che una società può assumere secondo Machiavelli. Il fattore discriminante, che fa la differenza tra una società equale e una inequale, è la presenza/assenza di una ben precisa figura sociale, quella dei «gentiluomini». La presenza dei «gentiluomini» fa sì che una società sia da definirsi inequale, mentre, invece, la loro assenza rende una società equale. Ma chi sono i «gentiluomini»? M. ne distingue due tipi che, chiaramente, costituiscono semplici gradazioni di un medesimo e fondamentalmente identico genere: anzitutto, i «gentiluomini» sono coloro che «oziosi vivono delle rendite delle loro possessioni abbondantemente, sanza avere cura alcuna o di coltivazione o di altra necessaria fatica a vivere» (§ 18); secondariamente, sono «quelli che oltre alle predette fortune comandano a castella, e hanno sudditi che ubbidiscono a loro» (§ 19). Non ci vuole molto a riconoscere in queste definizioni le figure sociali dei grandi proprietari terrieri e della nobiltà feudale. È la loro assenza/presenza quella che, dunque, a giudizio di M. dà a una società la sua peculiare fisionomia. Che sia proprio così, risulta evidente dalla cura con cui M. invita a non assimilare la grande borghesia ai «gentiluomini». Benché, per esempio, anche nella «Republica viniziana» si trovino «gentiluomini», essi però sono tali
più in nome che in fatto, perché loro non hanno grandi entrate di possessioni, sendo le loro ricchezze grandi fondate in sulla mercanzia e cose mobili; e di più nessuno di loro tiene castella o ha alcuna iurisdizione sopra gli uomini (§§ 31 e 32).
Non è, quindi, la ricchezza mobiliare quella che per M. incide sul profilo di una società. Anche in presenza di un pronunciato divario economico tra le classi, non si deve parlare di inequalità. Questa è invece unicamente connessa a situazioni in cui vi sia un gruppo sociale che disponga del controllo effettivo di parti del territorio che pur sempre dovrebbero cadere sotto la sovranità dello Stato centrale.
L’aspetto più interessante di questo discorso riguarda indubbiamente le conseguenze che da esso ne discendono sul piano dell’analisi e dell’operatività politica. In Discorsi I lv, M. giunge alla conclusione che ogni riflessione di tipo politico-istituzionale deve tener conto dell’assetto sociale. Non è possibile alcuna valutazione delle forme di governo in astratto, sulla base di criteri tutt’interni alla politica che, da soli, sarebbero in grado di stabilire una scala che le collochi lungo un asse che vada dalla migliore alla peggiore. Le forme di governo vanno piuttosto giudicate a partire dalla tipologia sociale di cui aspirano a essere espressione e organizzazione politico-istituzionale. Non solo: il nesso tra struttura sociale e forme politiche è per M. di natura tale per cui il primo momento condiziona il secondo. Non si possono interscambiare indifferentemente le forme di governo fra loro, essendo ciascuna di esse invece adatta a un particolare tipo di società. Nel dettaglio, questo vuol dire che a società equali dovrà corrispondere la forma politica della repubblica, mentre a quelle inequali la forma della monarchia.
Ma perché per M. l’abbinamento deve essere proprio equalità/repubblica e inequalità/monarchia, e non, per ipotesi, l’inverso? Per rispondere, occorre tenere conto di due ordini di motivi, peraltro strettamente connessi: a) le condizioni sociali minime che consentono l’impianto di una repubblica; b) le conseguenze politiche che derivano dall’esistenza di «gentiluomini». Nella repubblica, l’esercizio del potere è fondato sul principio dell’imperio della legge. Affinché dunque una repubblica possa essere istituita, requisito indispensabile è che nessuno si trovi in una posizione che gli consenta di porsi al di sopra della legge o, per dirla con le parole di M., della «civile equalità» (Discorsi I ii 21). Ma proprio questo è lo stato di cose che si verifica nelle società inequali, dove i gentiluomini possiedono un potere personale – «castella» e «sudditi» – che consente loro di rivaleggiare con la stessa autorità pubblica. Una repubblica, pertanto, si troverebbe nell’impossibilità materiale d’imporre il rispetto della legge a chi detiene, di diritto e di fatto, un potere privato confrontabile con quello statale. Questo, e null’altro, spiega per M. come «il regno di Napoli, Terra di Roma, la Romagna e la Lombardia» non abbiano mai potuto assumere forma di repubblica. E, infatti, «in quelle provincie non è mai surta alcuna republica né alcuno vivere politico, perché tali generazioni di uomini sono al tutto inimici d’ogni civilità» (I lv 20-21).
L’inequalità impedisce, dunque, che si verifichino le condizioni minime per il funzionamento delle istituzioni repubblicane, che sono quindi compatibili unicamente con società equali. Invece, per la sua capacità di esprimere un supplemento di potere coercitivo rispetto alla repubblica, sarà la monarchia la forma politica adatta a circostanze sociali caratterizzate da inequalità:
La ragione è questa, che dove è tanto la materia corrotta che le leggi non bastano a frenarla, vi bisogna ordinare, insieme con quelle, maggior forza, la quale è una mano regia che con la potenza assoluta ed eccessiva ponga freno alla eccessiva ambizione e corruttela de’ potenti (§ 23).
Il vincolo stringente che la struttura sociale impone alle istituzioni politiche deve, secondo M., essere tenuto sempre bene a mente dal fondatore di Stati, affinché eviti grossolani errori che comprometterebbero la sua opera alla radice. Grave azzardo sarebbe allora tentare di realizzare una repubblica in condizione di inequalità, così come, all’opposto, segno di inavvedutezza sarebbe costituire un regno in presenza di equalità. E qualora si volesse comunque instaurare una forma di governo laddove manchino le condizioni atte a riceverla, allora andrebbe prioritariamente effettuato un profondo rivolgimento della società, che crei l’indispensabile sintonia tra piano sociale e piano politico:
Trassi adunque di questo discorso questa conclusione: che colui che vuole fare dove sono assai gentiluomini una republica, non la può fare se prima non gli spegne tutti; e che colui che dove è assai equalità vuole fare uno regno o uno principato, non lo potrà mai fare se non trae di quella equalità molti d’animo ambizioso e inquieto, e quelli fa gentiluomini in fatto, e non in nome, donando loro castella e possessioni e dando loro favore di sustanze e di uomini, acciocché, posto in mezzo di loro, mediante quegli mantenga la sua potenza ed essi mediante quello la loro ambizione, e gli altri siano constretti a sopportare quel giogo che la forza, e non altro mai, può fare sopportare loro (§ 27).
Come agevolmente si nota, quella sviluppata nel cap. lv del primo libro dei Discorsi rappresenta una riflessione di notevole portata, con la quale M. sottrae la discussione sulle forme di governo all’alquanto formalistica impostazione cui la tradizione del pensiero politico l’aveva per lo più consegnata, incanalandola lungo sentieri che paiono anticipare quelli che, solo a grande distanza di tempo, saranno percorsi dalla riflessione politica e sociologica. La connessione tra sostrato sociale e istituzioni politiche potrebbe infatti ben essere uscita dalla penna di qualche pensatore contemporaneo.
Riconosciuto ciò, non si può tuttavia sorvolare sulla presenza di alcune vistose smagliature nell’argomentazione di Machiavelli. Smagliature che finiscono per irrigidire lo schema interpretativo elaborato dal Segretario fiorentino, provocando, in certi casi, perfino un impoverimento delle analisi storico-politiche rispetto a quelle che aveva formulato in precedenti occasioni; nonché giudizi che urtano vistosamente contro l’evidenza della realtà. Sono due in particolare i punti critici dell’argomentazione machiavelliana. Il primo riguarda la perfetta simmetria che egli pone tra gli effetti politici che derivano dall’inequalità e quelli prodotti dall’equalità. È facile però rendersi conto che le cose non stanno così. Se è pacifico riconoscere che l’inequalità è incompatibile con la repubblica, non vi è però alcuna ragione per cui si debba ritenere che l’equalità non possa tollerare, oltre quello repubblicano, anche un assetto monarchico. A differenza dell’inequalità, non si vede infatti quale restrizione al campo di possibilità delle forme istituzionali l’equalità eserciti. E, invero, nel corso del suo ragionamento, M. mostra solamente il carattere selettivo dell’inequalità, limitandosi invece ad assumere aprioristicamente che l’equalità faccia altrettanto. Il secondo punto critico consiste nell’avere fatto dell’equalità la condizione al tempo stesso necessaria e sufficiente della repubblica. Ora, che l’equalità sia la condizione necessaria perché si impianti il «vivere libero» risulta chiaro da quanto già detto e non richiede che si aggiunga altro; ma nient’affatto evidente è che essa sia anche condizione sufficiente. Infatti, l’equalità, affermando la preminenza della legge su ogni potere privato, garantisce unicamente che si dia il presupposto minimo per l’istituzione di una repubblica, ma di per sé non ne assicura permanenza e stabilità. Se così non fosse, l’esperienza storica dovrebbe sempre e comunque mostrare ordinamenti repubblicani in corrispondenza di assetti sociali equali.
Gli effetti di tali smagliature, per rimanere al termine adoperato, si avvertono già all’interno del cap. lv, e proprio nei passi che si sono sopra riportati, quando se ne faccia una disamina attenta e ravvicinata. Se la raccomandazione che M. rivolge a colui che voglia dar vita a una repubblica, circa la necessità che egli debba rimuovere preventivamente l’inequalità, appare ben fondata, non così invece è per il precetto indicato all’aspirante fondatore di una monarchia
di trasformare uno stato di equalità in uno di inequalità, per creare con ciò un folto e potente ceto di gentiluomini che abbiano dominio su «castella» e «sudditi». Esso, infatti, sembra dettato più da una vocazione suicida che da saggezza politica, dal momento che il novello principe, traducendolo in pratica, verrebbe sin dall’inizio della sua esperienza di governo a disporre di un potere dimidiato avendo egli stesso, con la sua inopinata iniziativa, suscitato i concorrenti che quotidianamente glielo contenderanno. Come spiegare, dunque, quest’indicazione operativa? La risposta è che M. ha ragionato sulla base di una premessa errata, traendone sì, poi, la conseguenza logicamente corretta, ma non certo quella politicamente più congrua. È stata la convinzione, erronea, che e. e i. ponessero vincoli tra loro simmetrici alle istituzioni, a spingerlo a ritenere che la prima andasse rimossa e instaurata la seconda da parte di chi si accingeva a fare un regno. Ma non è tutto: una volta dichiarato che occorreva suscitarli, M. non poteva, ovviamente, poi sostenere che i gentiluomini andassero tenuti sotto scacco dal principe. Sarebbe stato davvero troppo: crearli per reprimerli. Ma la proposta che quindi M. avanza di un’alleanza tra monarca e gentiluomini, seppure in qualche modo coerente con il punto di partenza del suo ragionamento, dà luogo tuttavia a una grave contraddizione. E infatti, solo poche righe sopra – come si è avuto modo di vedere – avendone perfettamente inquadrato la natura, M. aveva sostenuto esattamente il contrario, e cioè che la mano regia doveva, con la sua forza, servire a reprimere le ambizioni eversive e sediziose dei gentiluomini, «inimici di ogni civiltà».
Questa contraddizione si ritrova, replicata quasi alla lettera, nel Discursus florentinarum rerum. Qui, riferendosi alla nobiltà milanese, M., in ravvicinatissima sequenza, prima scrive: «perché tra di loro sono tanto estraordinarii, che le leggi non bastano a reprimerli, ma vi bisogna una voce viva, e una potestà regia che gli reprima» (§ 49), per poi subito dopo aggiungere che, dovendosi produrre inequalità dove si vuole stabilire un regno, il futuro sovrano dovrà fare corpo unico proprio con i gentiluomini: «Perché un principe solo, spogliato di nobilità, non può sostenere el pondo del principato: però è necessario che infra lui e l’universale sia un mezzo che gli aiuti a sostenerlo» (§ 50). Rispetto al cap. lv dei Discorsi, il Discursus presenta anche un elemento di novità che, tuttavia, non contribuisce certo ad aggiungere rigore all’argomentazione machiavelliana. Ci si riferisce al giudizio sulla monarchia francese. Per un ventennio M. non aveva perso occasione per manifestare la sua ammirazione per la Francia, un regno in cui non solo la potenza della nobiltà era stata assai ridimensionata, ma anche in cui leggi e istituzioni costituivano una garanzia per la popolazione contro gli abusi di potere che potevano venire dallo stesso monarca, al punto che in Discorsi I xvi 27 si legge: «In esemplo ci è il regno di Francia, il quale non vive sicuro per altro che per essersi quelli re obligati a infinite leggi, nelle quali si comprende la sicurtà di tutti i suoi popoli». E l’ammirazione per la Francia si trova perfino ribadita nello stesso cap. lv, dove, unitamente alla Spagna, è lodata per i suoi molti e buoni «ordini» che, nella generale corruzione della modernità, consentivano che il Paese fosse ben governato (§ 8). Questo giudizio, frutto, come s’è detto, non di una valutazione episodica e affrettata, viene letteralmente ribaltato nel Discursus, dove la Francia è raffigurata come un regime oppressivo, in cui ciascuno strato sociale esercita un dominio assoluto e dispotico su quello a esso sottostante: «Vedesi questo in tutti gli stati di principe, e massime nel regno di Francia, come e’ gentiluomini signoreggiono e’ popoli, e’ principi e’ gentiluomini, e il re e’ principi» (§ 52). Ora non essendo intervenuta alcuna mutazione istituzionale tra la redazione dei Discorsi e la composizione del Discursus che abbia nel frattempo trasformato la Francia in un regime tirannico, un sì radicale cambiamento di giudizio può avere una sola spiegazione: una volta che ne aveva legato inesorabilmente il destino all’inequalità, M. doveva considerare ogni monarchia una tirannide. Sia nel caso che dovesse tenere a freno i gentiluomini sia che con il loro sostegno dovesse mettere sotto stretto controllo il popolo, la monarchia poteva ormai assumere unicamente i tratti di un regime autoritario e repressivo, tirannico appunto. Ma si trattava di una posizione che palesemente non aveva alcun fondamento storico ed era piuttosto il risultato dell’imposizione di uno schema concettuale malamente predeterminato a una realtà che vi riluttava.
Vero è che l’acquisizione del nesso fra piano sociale e politico consente a M. di dare una valida spiegazione, nelle Istorie fiorentine, al perché Milano, a differenza di Firenze, non avesse mai potuto prendere forma di repubblica. Infestata di gentiluomini e divisa in fazioni sotto il controllo di signorotti che si erano inurbati, era stata appunto l’inequalità a impedire che i modi del vivere libero attecchissero nella città lombarda. E anche quando sembrò, per un momento, alla morte di Filippo Maria Visconti, che l’ora della repubblica fosse infine suonata, l’inequalità una volta di più fece sentire la sua forza vincolante sulle istituzioni, tanto che i milanesi non poterono fare altro che sottomettersi a un nuovo principe, gettandosi tra le braccia di Francesco Sforza. Tuttavia, la rigida ed esclusiva dipendenza delle forme di governo dalla base sociale che M. stabilisce a partire dal cap. lv dei Discorsi diventa poi un pesante velo che gli ombreggia la vista, non consentendogli di scorgere le molteplici e complesse ragioni della precaria esistenza della Repubblica fiorentina. Se l’equalità andava considerata la condizione necessaria e sufficiente per l’esistenza di una repubblica, perché quindi all’equale Firenze era toccata una sorte tanto diversa e infelice rispetto all’altrettanto equale Roma? M. non avrebbe avuto difficoltà a trovare la risposta, solo che avesse avuto chiaro che l’equalità da sola non era garanzia della stabilità e della prosperità di una repubblica. Altri fattori parimenti indispensabili erano richiesti perché una repubblica potesse condurre una vita non stentata e scossa da continue crisi, una volta che l’equalità ne avesse consentito l’instaurazione. Si trattava di fattori che M. certo non ignorava, tanto a lungo se n’era occupato nei Discorsi, ma che, ora, pensava di potere mettere da parte, credendo di essere venuto in possesso della chiave capace di penetrare senza residui la dinamica della vicenda politico/sociale. Eppure, M. sapeva bene che non era stata l’equalità a fare di Roma la più grande e libera Repubblica dell’antichità. L’equalità aveva potuto far sì che la Repubblica nascesse, ma, a mantenerla in vita e a farla crescere erano stati anche altri fattori: i buoni costumi, una religione che incitava al sacrificio dell’interesse privato in nome del bene pubblico, gli ordinamenti e le leggi che diluivano le tensioni sociali nell’alveo della legalità istituzionale, la straordinaria concentrazione di uomini virtuosi che ne avevano costellato l’esistenza e che misero mente e braccio al servizio della patria. Tutte cose che invece erano mancate a Firenze. Essa non ebbe salde ed efficienti istituzioni capaci di garantire l’ordinato svolgimento della vita sociale, i suoi cittadini pensarono sempre prima al bene proprio che a quello della loro città, le sue fazioni non inclinarono al compromesso, ma all’annientamento dell’avversario, la virtù individuale fu spesa per coltivare l’ambizione personale.
Fosse riuscito a dare una precisa determinazione concettuale alla correlazione tra la struttura sociale e quella politica, M. avrebbe potuto disporre di uno strumento euristico supplementare, capace di conferire ulteriore profondità alla sua già straordinaria capacità di analisi. In questo caso, avrebbe potuto senz’altro continuare a rallegrarsi del cammino compiuto da Firenze che, all’inverso di Roma, era passata «da una disaguaglianza a una mirabile ugualità» (Istorie fiorentine III i 2), senza però trarne, come invece fece, facili auspici sulla possibilità che quest’unica condizione recasse in dote anche buone ed efficienti istituzioni; né, in Discorsi I lv, avrebbe imputato al mancato incontro con un savio datore di leggi la sola causa per cui la sua città non prese mai forma stabile di repubblica, verso cui la sua equalità pur la predisponeva favorevolmente. A M. non sarebbe infatti sfuggito che, per quanto rilevante, l’equalità da sola non poteva bastare a dare solide fondamenta a una repubblica, la cui esistenza richiede molto altro che non la semplice assenza dell’inequalità.
Bibliografia: G. Sasso, Intorno a due capitoli dei Discorsi, in Id., Studi su Machiavelli, Napoli 1967, pp. 111-59; M. Marietti, Machiavelli. L’eccezione fiorentina, Fiesole 2005; G. Inglese, Per Machiavelli. L’arte dello Stato, la cognizione delle storie, Roma 2006, pp. 148-49; G.G. Balestrieri, «Equalità» e «Inequalità» in Machiavelli, «Teoria politica», 2007, 28, pp. 129-37.