Abstract
L’equo compenso per l’avvocato è frutto di un articolato processo normativo che affonda le sue radici nell’evoluzione legislativa, dottrinale e giurisprudenziale dell’istituto. La sua finalità è di impedire il verificarsi di un ingiusto squilibrio, a danno dell’avvocato, tra l’attività prestata da quest’ultimo e il compenso professionale determinato dal cliente/committente, considerato parte forte del rapporto giuridico.
Durante i primi anni del nuovo millennio, i principi nobili del diritto al compenso, necessariamente equo, testé affrontati e maturati fin dagli albori della scienza giuridica, deviano verso una nuova sponda che intravede, e successivamente equipara, l’attività professionale a quella commerciale, incidendo, così, nel rapporto di committenza privata, attraverso l’esclusione della nullità in caso di pattuizione del compenso in deroga ai minimi, e in quello di committenza pubblica, attraverso la prevalente importanza data al prezzo, quale elemento di valutazione nelle gare, rispetto alla bontà e alla ricchezza scientifica dell’opera prestata.
Il decreto Bersani, d.l. 4.7.2006, n. 223, convertito con l. 4.8.2006, n. 248, infatti, rivoluziona profondamente il sistema sino ad allora inteso e praticato, superando sia l’inderogabilità dei minimi tariffari, attraverso l’introduzione della stipula del patto di quota lite, sia i divieti della costituzione di società interprofessionali e di pubblicità.
È con il decreto Monti, d.l. 24.1.2012, n. 1, convertito con l. 24.3.2012, n. 27, che il compenso dell’avvocato viene investito dagli effetti della liberalizzazione prevista dalla norma, rinviando, in via preferenziale, al potere negoziale delle parti la stipula di un vero e proprio contratto d’opera professionale, pattuito tra il cliente e l’avvocato al momento del conferimento dell’incarico, previo obbligo del preventivo, dettagliato per ogni fase e adeguato all’importanza dell’opera, con il quale il professionista rende noto al cliente il grado della complessità dell’incarico.
Il ricorso al d.m. 20.7.2012, n. 140, pertanto, riveste un carattere residuale della disciplina, consentendone il richiamo e il rispetto nelle sole circostanze in cui il preventivo risulti omesso, carente o errato, nonché in caso di condanna alla rifusione delle spese legali alla controparte.
La l. 31.12.2012, n. 247, sulla nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense, pur confermando quanto previsto dalla l. n. 27/2012, intervenendo su quest’ultima in regime di specialità circoscritta alla categoria degli avvocati, in relazione al conferimento dell’incarico e alla relativa determinazione del compenso dell’avvocato, legittima l’eventuale pattuizione di un compenso inferiore ai previsti minimi tariffari, finanche prevedendo al co. 1 dell’art. 13 la facoltà di esercitare l’incarico a proprio favore e in forma gratuita.
Una successiva modifica al co. 5, invece, è stata apportata dall’art. 1, co. 141, lett. d), l. 4.8.2017, n. 124, che ha sottratto al testo iniziale le parole «a richiesta», ponendo come effetto un limite al potere di scelta della forma, oggi obbligatoriamente scritta e libera da qualunque vincolo riconducibile alla preliminare volontà espressa dal solo cliente.
Un punto di svolta, mirato ad un giusto equilibrio tra il compenso del professionista e l’attività da quest’ultimo prestata, è rappresentato dalla l. 4.12.2017, n. 172 che, convertendo con modificazioni il d.l. 16.10.2017, n. 148, ha introdotto il principio dell’equo compenso per l’avvocato.
Le ragioni per le quali il legislatore ha inteso occuparsi della regolamentazione di un compenso equo per l’avvocato, il cui presupposto poggia sulla giusta proporzione tra quantità e qualità di attività prestata rispetto al contenuto e alle caratteristiche della prestazione, sono rinvenibili nella necessità di offrire una maggiore tutela al professionista che vede quale committente un soggetto il cui status gli riconosce un forte potere contrattuale.
Inoltre, la stessa ratio si uniforma all’armonia giuridica degli ordinamenti europeo e nazionale, che reputano meritevole di tutela il lavoro professionale (art. 15 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, 2016/C 202/02) e la dignità della persona, della retribuzione e del compenso adeguato per il lavoratore (artt. 3 e 36 Cost.).
All’uopo, l’art. 19 quaterdecies l. n. 172/2017 ha introdotto l’art. 13 bis, rubricato Equo compenso e clausole vessatorie, all’interno della l. n. 247/2012, collocandolo non a caso tra la disciplina del conferimento dell’incarico e quella del perfezionamento del mandato professionale, finalizzato alla regolamentazione di quei rapporti professionali intercorrenti tra l’avvocato e determinati clienti.
Infatti, in un’ottica consumeristica del mercato europeo, l’avvocato risulta equiparato al consumatore ogniqualvolta si presenti un rapporto giuridico, sotto forma di convenzione, con «imprese bancarie e assicurative, nonché … imprese non rientranti nelle categorie delle microimprese o delle piccole e medie imprese, come definite nella raccomandazione 2003/361CE della Commissione, del 6 maggio 2003» e per tale motivo considerato la parte debole del contratto «con riferimento ai casi in cui le convenzioni sono unilateralmente predisposte dalle predette imprese».
Equo sarà, pertanto, il compenso determinato nelle convenzioni che, conformemente ai parametri previsti dal regolamento di cui al decreto del Ministro della giustizia, adottato ai sensi dell’art. 13, co. 6, risulterà proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale.
Ciò evidenzia il mutamento del ruolo dei parametri forensi che da una posizione di richiamo residuale, avvenuta durante la più estesa liberalizzazione degli ultimi anni, ritrovano una centralità come punto di riferimento del giusto compenso.
Di non secondario interesse è la espressa unilateralità della predisposizione della convenzione da parte del committente, che lascia intendere all’interprete l’esclusione, attraverso questa scelta, dell’applicazione della norma agli accordi raggiunti a seguito di trattativa totale o parziale delle parti; codesta interpretazione è rafforzata da una pacifica presunzione fino a prova contraria, il cui onere incombe sull’impresa.
Il descritto art. 19 quaterdecies l. n. 172/2017, oltre ad introdurre l’art. 13 bis all’interno della l. n. 247/2012, ha anche definito i margini di applicabilità dell’istituto, prevedendo che: i) le disposizioni introdotte si applichino, in quanto compatibili, anche alle prestazioni rese dai professionisti di cui all’art. 1 della l. 22.5.2017, n. 81, anche iscritti agli ordini e collegi, i cui parametri sono definiti dai decreti ministeriali adottati ai sensi dell’art. 9 d.l. n. 1/2012, conv. con l. n. 27/2012 (art. 19 quaterdecies, co. 2); ii) la p.a., in attuazione dei principi di trasparenza, buon andamento ed efficacia delle proprie attività, garantisca il principio dell’equo compenso in relazione alle prestazioni rese dai professionisti in esecuzione di incarichi conferiti dopo la data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto (art. 19 quaterdecies, co. 3); iii) dall’attuazione delle disposizioni del presente articolo non derivino nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica (art. 19 quaterdecies, co. 4).
A distanza di pochi giorni dalla promulgazione della l. n. 172/2017, il legislatore è intervenuto nuovamente in materia di equo compenso con la l. 27.12.2017, n. 205, la quale, all’art. 1, co. 487 e 488, ha apportato diverse modifiche.
Infatti, il co. 487, modificando l’art. 13 bis l. n. 247/2012 e precisando il dettato normativo, sostituisce le parole «tenuto conto dei» con le parole «e conforme ai», limitando in questo modo la libertà di valutazione del compenso, determinato nelle convenzioni, vincolando la sua conformità ai parametri previsti.
In ultimo, il co. 488 ha introdotto all’art. 19 quaterdecies l. n. 172/2017, il co. 4-bis, che esonera dagli obblighi delle disposizioni previste gli agenti della riscossione che, comunque, garantiranno la pattuizione di compensi adeguati all’importanza dell’opera, tenendo anche conto dell’eventuale ripetitività delle prestazioni richieste.
Nel diritto civile, le clausole vessatorie sono quelle condizioni generali del contratto «che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l’esecuzione ovvero sanciscono a carico dell’altro contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria» (art. 1341, co. 2, c.c.).
Tale disposizione, però, non si applica ai contratti del consumatore; infatti, l’art. 33 c. cons. prevede che «nel contratto concluso tra il consumatore e il professionista si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto».
Detto principio è insito nell’art. 13 bis, co. 4, l. n. 247/2012, che al capoverso successivo enuclea e considera vessatorie quelle clausole che consistono: «a) nella riserva al cliente della facoltà di modificare unilateralmente le condizioni del contratto; b) nell’attribuzione al cliente della facoltà di rifiutare la stipulazione in forma scritta degli elementi essenziali del contratto; c) nell’attribuzione al cliente della facoltà di pretendere prestazioni aggiuntive che l’avvocato deve eseguire a titolo gratuito; d) nell’anticipazione delle spese della controversia a carico dell’avvocato; e) nella previsione di clausole che impongono all’avvocato la rinuncia al rimborso delle spese direttamente connesse alla prestazione dell’attività professionale oggetto della convenzione; f) nella previsione di termini di pagamento superiori a sessanta giorni dalla data di ricevimento da parte del cliente della fattura o di una richiesta di pagamento di contenuto equivalente; g) nella previsione che, in ipotesi di liquidazione delle spese di lite in favore del cliente, all’avvocato sia riconosciuto solo il minore importo previsto nella convenzione, anche nel caso in cui le spese liquidate siano state interamente o parzialmente corrisposte o recuperate dalla parte; h) nella previsione che, in ipotesi di nuova convenzione sostitutiva di altra precedentemente stipulata con il medesimo cliente, la nuova disciplina sui compensi si applichi, se comporta compensi inferiori a quelli previsti nella precedente convenzione, anche agli incarichi pendenti o, comunque, non ancora definiti o fatturati; i) nella previsione che il compenso pattuito per l’assistenza e la consulenza in materia contrattuale spetti soltanto in caso di sottoscrizione del contratto».
Si appalesa con estrema evidenza, quindi, il fine del legislatore di tutelare l’equo compenso, ancor più se si considera che l’art. 1, co. 487, lett. b), l. n. 205/2017, ha eliminato l’inciso, previsto in precedenza, «salvo che siano state oggetto di specifica trattativa e approvazione» tra le parole «vessatorie» e «le clausole», dimostrando, pertanto, la bontà della ratio appena affermata e impedendo all’autonomia negoziale delle parti di andare in deroga al principio tutelato.
Gli effetti previsti in caso di patologia del negozio giuridico, a seguito della presenza delle clausole considerate vessatorie ai sensi dei co. 4, 5 e 6, che comportano la lesione del diritto all’equo compenso, producono, a vantaggio esclusivo dell’avvocato, la sola nullità delle stesse, rimanendo valido il resto del contratto.
Deputato all’accertamento della non equità del compenso è il giudice, il quale, nel pronunciarsi, oltre a dichiarare la nullità relativa alla vessatorietà delle clausole suindicate, dovrà tenere conto dei parametri previsti dal regolamento, di cui al decreto del Ministro della giustizia adottato ai sensi dell’art. 13, co. 6, al fine di determinare il quantum debeatur.
Nonostante l’introduzione dell’art. 13 bis all’interno della l. n. 247/2012 abbia comportato una maggiore tutela del diritto all’equo compenso per l’avvocato, alcune lacune normative hanno sollevato dubbi interpretativi, specie inerenti all’aspetto del diritto intertemporale, non definendo l’attuale disciplina il destino giuridico dei contratti in corso.
Si pensi alla mancata previsione esplicita nel testo di legge riferita ai rapporti già in essere e il relativo regime transitorio da seguire, oppure l’avvenuta abrogazione del co. 9, dell’art. 13 bis dopo l’entrata in vigore dell’art. 1, co. 487, lett. d), l. n. 205/2017, che indicava, a pena di decadenza, il termine di ventiquattro mesi dalla data di sottoscrizione delle convenzioni entro il quale esercitare l’azione diretta alla dichiarazione della nullità di una o più clausole delle convenzioni di cui al co. 1, dell’art. 13 bis l. n. 247/2012.
Negli atti di approfondimento della disciplina dell’equo compenso del 24.9.2018, pubblicati dal Consiglio Nazionale Forense, parte della dottrina (Alpa, G., L’equo compenso per le prestazioni professionali forensi, in AA.VV., La disciplina dell’equo compenso, CNF, Roma, 2018, 5 ss.) interviene in merito ai contratti in corso.
Su tale punto è opinione prevalente che la nullità sopravvenuta «possa dispiegare effetto solo per i contratti non perfetti o esauriti. Per i contratti esauriti, poiché la nullità sopravvenuta incide sugli effetti e non sull’atto (secondo Santoro-Passarelli, seguito da Gentili, ma la questione è tuttora controversa in dottrina), non è possibile ricorrere al rimedio della nullità delle clausole perché il contratto non produce più alcuno effetto. Nel caso di contratti in corso, trattandosi di contratti di durata ma non a consegne ripartite, anche per le cause che sono state concluse è possibile far valere la nullità delle clausole di cui è sopraggiunta la nullità. A meno che la convenzione (o il contratto individuale) non precisino che ogni incarico ha una sua autonomia, e se la causa si è conclusa ed è considerata separatamente rispetto alla prosecuzione del rapporto, non è possibile recuperare per il passato quanto dovuto in più in considerazione della insufficienza della remunerazione con riguardo all’equità del compenso» (Alpa, G., L’equo compenso per le prestazioni professionali forensi, loc. cit).
La mancata previsione suesposta, al contrario, non è presente all’art. 19 quaterdecies l. n. 172/2017, che al co. 3 recita: «La pubblica amministrazione, in attuazione dei principi di trasparenza, buon andamento ed efficacia delle proprie attività, garantisce il principio dell’equo compenso in relazione alle prestazioni rese dai professionisti in esecuzione di incarichi conferiti dopo la data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto».
Invero, un ulteriore interrogativo potrebbe scaturire dalle circostanze in cui si collocano le condizioni generali della convenzione, antecedenti alla normativa, e i singoli incarichi agli avvocati, conferiti in data successiva alla sua entrata in vigore.
Difatti, se da un lato l’attività svolta dal professionista viene quantificata al suo completamento per determinare il compenso complessivo, dall’altro la circoscritta previsione temporale, con effetti dall’entrata in vigore della legge, nei soli rapporti tra il professionista e la pubblica amministrazione, lascia pacificamente intendere che in quei rapporti con il committente privato, in attesa dell’adeguamento della stessa convenzione alle condizioni introdotte, il compenso dovrà essere equo secondo i parametri forensi vigenti (Monticelli, S., L’equo compenso dei professionisti fiduciari, in Nuove leggi civ., 2018, 299 ss.).
Pertanto, il compito di valutare la direzione del percorso interpretativo intrapreso, se favorevole o meno all’avvocato, è demandato al giudicante, anche in considerazione del fatto che «a fronte dell’entrata in vigore della nuova disciplina, i clienti forti stanno immediatamente adottando le misure del caso», accelerando verso «una sorta di fuga dalla convenzione, sostituita – se così si può dire – dal contratto d’opera professionale predisposto dal cliente forte per il singolo incarico al singolo avvocato già convenzionato» (Minervini, E., L’equo compenso degli avvocati e degli altri liberi professionisti, Torino, 2018, 48).
Alla luce della novità legislativa che ridisegna i confini dell’equo compenso per l’avvocato, la giurisprudenza civile e amministrativa iniziano ad approcciarsi all’istituto con pronunce che tendono a confermare i principi e la ratio della voce in esame.
Infatti, la Corte Suprema di Cassazione, in accoglimento dei ricorsi proposti, cassando le decisioni impugnate, ha stabilito che il raggiungimento dell’equo compenso è conseguito attraverso l’applicazione del decreto del Ministero della giustizia 10.3.2014, n. 55, che non prevale sul precedente d.m. n. 140/2012 per via del principio della successione temporale, ma agisce nel rispetto del principio di specialità, in quanto precisa i criteri a cui il giudice dovrà attenersi e dai quali non potrà discostarsi (Cass., sez. II, ord., 17.1. 2018, n. 1018; Cass., sez. II, ord., 31.8.2018, n. 21487).
A sostegno dell’orientamento esposto, è stato evidenziato anche il periodo storico in cui i due decreti furono emanati. Ricordiamo, infatti, che il d.m. n. 140/2012, introdotto in seguito al d.l. n. 1/2012, conv. con l. n. 27/2012, è intervenuto allo scopo di favorire la liberalizzazione della concorrenza e del mercato, anche nel rispetto delle indicazioni europee, mentre il successivo d.m. n. 55/2014, al contrario, ha impedito la libertà di pattuizione del compenso al di sotto dei minimi tariffari, che avrebbe comportato una palese lesione del principio di equità, volto a bilanciare la complessiva attività prestata dall’avvocato e il giusto onorario da questi maturato.
L’orientamento adottato dal giudicante civile trova un’armonia con quello del giudice amministrativo che, intervenendo sul rapporto economico tra il professionista e la p.a., regolamentato dal bando di gara dell’ente, accoglie le ragioni sollevate dai professionisti ricorrenti basate: i) sul principio dell’equo compenso e la sua inviolabilità; ii) sulla non congruità del rapporto tra la prestazione a titolo gratuito e i soli vantaggi curriculari e di immagine; iii) sull’estensione del principio in essere alla p.a. e la sua osservazione, indipendentemente dalle esigenze di riequilibrio finanziario, che non possono prevalere sugli altri principi dell’azione amministrativa, tra cui quelli di proporzionalità e di ragionevolezza, compreso, pertanto, quello dell’equo compenso per le prestazioni professionali (TAR Calabria, 2.10.2018, n. 1507; TAR Campania, ord., 25.10.2018, n. 1541).
Fonti normative
Artt. 3, 36 Cost.; art. 1341 c.c.; art. 1, co. 487, lett. a), l. 27.12.2017, n. 205; art. 19 quaterdecies l. 4.12.2017, n. 172; art. 1 l. 4.8.2017, n. 124; artt. 13, 13 bis l. 31.12.2012, n. 247; art. 9 l. 24.3.2012, n. 27; art. 2 l. 4.8.2006, n. 248; art. 33 d.lgs. 6.9.2005, n. 206.
Bibliografia essenziale
AA.VV., La disciplina dell'equo compenso, CNF, Roma, 2018, 5 ss.; Battaglia, S., Compenso, in Grande dizionario della lingua italiana, III, Torino, 1971, 401; Battaglia, S., Equità, in Grande dizionario della lingua italiana, V, Torino, 1972, 220 s.; Battaglia, S., Equo, in Grande dizionario della lingua italiana, V, Torino, 1972, 223 s.; Battaglia, S., Onorario, in Grande dizionario della lingua italiana, XI, Torino, 1981, 998; Bianca, C.M., in Diritto civile, III, Milano, 2000, 353 ss.; Calasso, F., Equità (storia), in Enc. dir., XV, Varese, 1966, 65 ss.; Frosini, V., Equità (nozione), in Enc. dir., XV, Varese, 1966, 69 ss.; Minervini, E., L’equo compenso degli avvocati e degli altri liberi professionisti, Torino, 2018, 48; Monticelli, S., L’equo compenso dei professionisti fiduciari, in Nuove leggi civ., 2018, 299 ss.; Pezzano, G., Onorario, in Enc. dir., XXX, Varese, 1980, 175 ss.; Romano, S., Equità (dir. priv.), in Enc. dir., XV, Varese, 1966, 83 ss.; Trabucchi, A., Equità, in Grande dizionario enciclopedico, VII, Torino, 1987, 531.