Eraclito e Empedocle
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Eraclito ed Empedocle delineano due modelli assai diversi del divenire cosmico: fra l’altro, mentre Eraclito sembra indipendente dalla riflessione sull’essere di Parmenide, cui è più o meno contemporaneo, Empedocle, nato mezzo secolo dopo, dalla problematica di Parmenide è più chiaramente influenzato. Ma il pensiero di entrambi rivela un caratteristico intreccio di filosofia della natura e attenzione al destino individuale che si esprime, in entrambi, con accenti sapienziali.
L’opera di Eraclito di Efeso ci è giunta, né più né meno come per gli altri pensatori di età presocratica, in forma di frammenti, che il grande studioso ottocentesco Hermann Diels ha estratto con lungo e accurato lavoro filologico dalle fonti antiche, per poi riunirli nella classica raccolta dei Vorsokratiker (1903) cui tutt’oggi facciamo riferimento quando distinguiamo fra “testimonianze” indirette e “frammenti” (o citazioni letterali).
Ma nel caso di Eraclito il problema di interpretare una tradizione frammentaria è complicato ulteriormente dal fatto che, a quanto pare, egli stesso ha affidato il proprio messaggio a brevi detti “frantumati” e volutamente ambigui: il che gli è valso fin dall’antichità la qualifica di “oscuro” (skoteinos).
È significativo che Diels abbia rinunciato al tentativo di ricostruire la sequenza originale dei frammenti di Eraclito, come normalmente fa con gli altri presocratici, limitandosi a disporli secondo l’ordine alfabetico della fonte che li cita. Quest’operazione, apparentemente neutrale, ha contribuito in realtà ad accentuare la fisionomia aforismatica del pensiero di Eraclito, e alcuni studiosi si sono spinti fino a negare che egli sia stato autore di uno scritto organico. Quest’ipotesi è d’altronde contraddetta non solo dalla notizia antica che Eraclito avrebbe dedicato il suo libro presso il tempio di Artemide a Efeso (con un atto che, richiamando l’uso arcaico di esporre sulle pareti dei templi i testi legislativi, realizza una volontà di dare al proprio pensiero valore duraturo e sacrale), ma dal fatto che una lettura attenta dei frammenti rivela una serie di risonanze espressive e contenutistiche altamente calcolata, che poteva avere senso solo all’interno di un testo continuo. Va sottolineato, in ogni caso, il valore filosofico che di per sé riveste la scelta di una forma espressiva condensata ed enigmatica come quella dell’aforisma. Egli si rifà a un complesso di modelli di comunicazione della sapienza arcaica (la rivelazione misterica, l’oracolo, sia apollineo che sibillino, la sentenza morale, l’indovinello) che convergono nella finalità di costruzione di testi di difficile comprensione, con l’implicazione che l’autore di tali testi è in possesso di una conoscenza superiore, che rivela ai pochi capaci di intendere. L’espressione enigmatica, d’altronde, è aderente alla forma in cui per Eraclito la physis si manifesta, per segni la cui interpretazione è difficile per gli uomini.
Di default, ricordiamolo, la natura “ama nascondersi” (fr. 123), e occorre saper decrittare le indicazioni dei sensi per cogliere, al di là della trasformazione incessante esibita dalla realtà fenomenica, il principio sottostante di armonia. Su questo punto si innesta un altro tratto tipico dello stile di Eraclito: la polemica contro rappresentanti illustri del sapere arcaico che non hanno avuto l’intelligenza per scoprire la legge che governa la realtà: polemica che può essere feroce (contro Pitagora, per esempio), o può prendere la forma gustosa dell’aneddoto su Omero ingannato dai fanciulli.
Eraclito
Omero è ingannato dai fanciulli.
Sulla natura, fr. 22 B 56 DK
Gli uomini sono ingannati nel riconoscimento delle cose più evidenti similmente a Omero, che era il più sapiente di tutti i Greci. Quello lì, infatti, lo ingannarono dei ragazzi che uccidevano pidocchi dicendo: “Ciò che abbiamo visto e preso ce lo lasciamo dietro, mentre ciò che non abbiamo visto né preso lo rechiamo con noi”.
Che Eraclito sia autore di uno scritto unitario è suffragato anche dal fatto che ci è pervenuto grazie a Sesto Empirico un testo relativamente lungo e articolato, che si configura chiaramente come un proemio (perciò fra l’altro Diels, contravvenendo alla regola dell’ordine alfabetico, apre con esso la raccolta dei frammenti eraclitei).
In esso il filosofo delinea il contenuto del suo messaggio come un logos, “ragione” o “regola” del divenire, che gli uomini sono generalmente “incapaci di comprendere”. È significativo che il termine qui usato, axynetoi, sia attinto dal linguaggio dei misteri: coloro cui Eraclito si rivolge sono come “non-iniziati”, ed Eraclito si pone di fronte ad essi come il detentore di un sapere religioso, di cui annuncia la rivelazione. È da ricordare che logos in greco significa anche “discorso”: facendo leva sulla polisemia del termine greco, Eraclito porta l’attenzione sulle sue stesse parole, concepite come perfettamente aderenti alla realtà profonda che intende comunicare.
Eraclito
Il potere delle parole e del discorso
Sulla natura, fr. 22 B 1 DK
Questo logos che è sempre gli uomini sono incapaci di comprenderlo, sia prima di udirlo sia dopo averlo udito una prima volta. Infatti, benché tutto avvenga secondo questo logos essi assomigliano a gente inesperta, pur sperimentando proprio le parole e azioni che vado esponendo secondo la sua natura distinguendo ogni cosa, e dicendo come le cose stanno. Ma agli altri uomini sfugge quel che fanno da svegli, così come scordano quel che [fanno] dormendo.
Nell’ascoltarle gli uomini potranno uscire dall’isolamento solipsistico in cui usano vivere, e si apriranno alla comprensione di una legge “comune”, che avvolge loro stessi con la natura tutta.
Eraclito
Il potere delle parole per comprendere la realtà
Sulla natura, fr. 22 B 2 DK
Benché il logos sia comune vivono i più come se avessero una loro intelligenza privata.
Comprenderanno che questa è attraversata da una vera e propria “guerra” fra forze opposte, e che del resto proprio in questo consiste il principio d’ordine del cosmo.
Eraclito
Forze opposte governano il cosmo
Sulla natura, fr. 22 B 80 DK
È necessario rendersi conto che la guerra è comune, e la giustizia è lotta, e tutto avviene secondo contesa e necessità.
Nel momento in cui si concentra sul problema dell’ordine cosmico, e lo risolve, come già Anassimandro, in termini di equilibrio dinamico, Eraclito rivela che le radici del suo pensiero affondano nell’ambiente del naturalismo ionico. D’altronde la sua visione degli opposti fa spazio, oltre che agli effetti dell’interazione fisica fra masse cosmiche, alla tensione che si esprime nella relatività delle impressioni soggettive, al succedersi di stadi vitali ed esistenziali, alla incongrua applicazione di un determinato nome a un determinato oggetto.
Eraclito
Sulla natura, fr. 60 DK; fr. 48 DK fr. 60 DK
La via in su e in giù sono la stessa cosa.
fr. 48 DK
Nome dell’arco (biós) è vita (bíos), ma opera morte.
Eraclito è comunemente noto come il filosofo per cui “tutto scorre” (panta rhei) e “acque sempre diverse scorrono su coloro che entrano negli stessi fiumi” (fr. 12, cfr. frr. 49a, 91a). È un’immagine non scorretta ma sicuramente parziale, che molto deve a una prospettiva disegnata da Platone, personalmente assai intrigato da quella mobilità inafferrabile della realtà sensibile che è stata teorizzata a suo vedere da Eraclito, e che i suoi seguaci hanno portato all’estremo, fino ad asserire l’impossibilità di conoscerla e comunicarla (è possibile che Platone abbia conosciuto e frequentato in Atene uno di essi, Cratilo). Perciò sarà sempre bene insistere sul fatto che la mobilità è importante nella visione di Eraclito quanto la stabilità, e la contraddizione fra gli opposti altrettanto in rilievo rispetto alla loro unità. Per questo egli identifica il principio delle cose nel fuoco, che può essere simbolo tanto di massima mobilità quanto di massima permanenza. Esso è divino, come il principio fondamentale della realtà negli ionici, e in esso la contraddizione degli opposti si risolve in superiore unità.
Eraclito
Descrizione del dio
Sulla natura, fr. 22 B 67 DK
Il dio: giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame. Muta proprio come [il fuoco], quando si mescola agli aromi, prende nome secondo la fragranza di ciascuno.
Un’altra componente importante che l’immagine del filosofo del panta rhei può avere messo in ombra è il suo interesse per l’anima, che peraltro in questi ultimi tempi si è fatto molta strada nell’ambito degli studi di filosofia antica. La psicologia di Eraclito ha un’impostazione “fisicalista”, coerente del resto con la rappresentazione corporea (o legata a organi corporei) dell’anima e delle sue attività (sia vitali che cognitive) che è comune nella letteratura arcaica, da Omero alla poesia lirica e tragica, ai medici ippocratici.
E analogamente all’anima-aria di Anassimene, quella di Eraclito è fondamentalmente affine all’archè cosmica, dunque al fuoco. La documentazione su questo punto non è sufficiente a dire se la psyché eraclitea sia più precisamente una forma di vapore o soffio (comunque igneo) o una mescolanza di acqua e fuoco, o ancora di fuoco e aria. In ogni caso il variare delle sue proprietà di asciuttezza, mobilità, sottigliezza sia da un individuo all’altro sia in diverse fasi di una singola vita influisce direttamente sulla qualità dei processi cognitivi: in particolare, l’intelligenza si indebolisce se l’anima si inumidisce, per esempio in stato di ubriachezza o in vecchiaia (frr. 117, 118; la vecchiaia è vista evidentemente come un’età relativamente più umida, e l’umidità è morte per le anime: frr. 76, 77). La riduzione materialistica delle attività psichiche (cui probabilmente si connette una negazione dell’immortalità dell’anima individuale) non impedisce a Eraclito di dar voce a una delle prime affermazioni consapevoli sull’insondabile profondità della dimensione psichica, in altre parole, potremmo dire, della “coscienza”.
Eraclito
L’insondabilità della coscienza umana
Sulla natura, fr. fr. 22 B 45 DK; fr. 22 B 115 DK fr. 22 B 45 DK
Per quanto tu vada non riuscirai a trovare i confini dell’anima, percorrendo ogni strada: tanto profondo (bathys) è il logos che essa possiede.
fr. 22 B 115 DK
Dell’anima è (proprio) un logos che accresce se stesso.
Va visto in questo quadro un altro detto famoso, “è il carattere un daimon per l’uomo” (fr. 119), affermazione inequivoca dell’indipendenza del destino individuale dall’intervento di dèi o demoni protettori. Non è escluso che tale affermazione riposi su una determinata idea del formarsi del carattere nel gioco fra ragione e passione, se è corretto leggere nell’ultimo, controverso frammento che vogliamo considerare (fr. 85), l’idea che il fuoco di una passione come l’ira si nutre “a spese” di quello (più asciutto?) dell’anima e lo consuma: con l’implicazione, appunto, che le facoltà più elevate dell’anima possano essere obnubilate se la passionalità prevale.
Eraclito
Lo scontro tra le passioni
Sulla natura, fr. 22 B 85 DK
Combattere contro l’ira (thymoi) è difficile: quel che essa vuole, infatti, lo compra a prezzo dell’anima.
Nell’elaborazione del suo quadro del cosmo Empedocle di Agrigento mostra di riconoscere la forza dell’argomentazione di Parmenide sull’essere e il non-essere, ma punta sulla possibilità di costruire un modello del divenire che ne aggiri le difficoltà (non a caso, competitivamente, egli adotta come già Parmenide il solenne esametro della tradizione epica, e inoltre, come fa Parmenide nel suo proemio, si presenta come il portatore di una rivelazione di origine divina).
Postula infatti quattro elementi fondamentali, cui ascrive autoidentità, eternità ed eguaglianza di poteri, così soddisfacendo i requisiti richiesti per l’essere in base al ragionamento dell’eleata. Si tratta delle “radici” (rhizai) del fuoco, dell’aria, dell’acqua e della terra, il cui movimento è determinato dalle due forze di Amicizia e Contesa: da notare che tanto la denominazione delle “radici” quanto la connotazione emozionale delle due forze motrici sono spie del retaggio di quella concezione “organicistica” del cosmo che è alla base delle prime cosmologie ioniche, e che di qui discende anche il fatto che Empedocle assegni alle une e alle altre uno status divino.
Amicizia (che compare anche nella veste di Armonia o Cipride, ovvero Afrodite) unisce cose dissimili in composti che Contesa disgrega, separando ciò che è dissimile e facendo in modo che il simile si mescoli al simile. Proprio come i pittori possono riprodurre la varietà delle cose sensibili mescolando i diversi colori, Amicizia e Contesa producono “alberi e uomini e donne, e fiere e uccelli e pesci che si nutrono nell’acqua, e dèi dalla lunga vita ricchi in onori” (fr. 23). Perciò la fenomenologia del divenire non è frutto di mero inganno della percezione sensibile (il cui valore per la conoscenza della natura è tutt’altro che sottovalutato da Empedocle), ma riflette il mescolarsi delle quattro “radici”, in diverse proporzioni, sotto la spinta di Amicizia e Contesa.
Empedocle
Mescolanza e separazione delle quattro radici
Sulla natura, fr. 31 B 8 DK
[...] di nessuna delle cose mortali c’è nascita (physis),
né fine di distruttiva morte,
ma solo mescolanza e separazione di cose mescolate
che nascita vengon chiamate presso gli uomini.
La competizione fra queste due forze si stende lungo un movimento ciclico incessante, la cui articolazione è oggetto di controversia, probabilmente irrimediabile, fra gli interpreti di Empedocle. Certo è che in un qualche momento ha luogo un trionfo di Amicizia che si realizza nello Sfero, una perfetta mescolanza delle quattro radici, e che questa mescolanza viene a un certo punto aggredita da Contesa, che attraendo il simile verso il simile produce, via via, la completa separazione delle radici. Amicizia d’altronde si contrappone a questa disgregazione cercando di tenere mescolate le cose dissimili: il cosmo che conosciamo corrisponde per l’appunto a una delle fasi intermedie fra i due estremi del predominio di una delle due forze.
Ma la cosmologia non costituisce l’unico interesse di Empedocle. Vi sono anzi fondati motivi per ritenere che la sua preoccupazione principale sia di carattere religioso-escatologico, e la natura funga da cornice a un itinerario di salvezza spirituale dell’uomo: un connubio peculiare che ha indotto Werner Jaeger, nel suo celebre Paideia (1936) a definire Empedocle, felicemente, un “Centauro filosofico”. Di fatto la tradizione gli attribuisce due diversi scritti in esametri, l’uno dei quali, intitolato Sulla natura, dovrebbe avere carattere cosmologico, mentre l’altro, intitolato Purificazioni (Katharmói) avrebbe carattere religioso e morale. Ma l’intreccio di temi “scientifici” e preoccupazione soteriologica è, probabilmente, la nota caratterizzante di entrambi questi scritti, e la nuova documentazione offerta dalla pubblicazione (1998) del papiro di Strasburgo non ha fatto che confermarne l’inestricabilità, sì che resta estremamente difficoltoso attribuire molti dei frammenti tramandati all’uno o all’altro poema.
Le linee stesse della concezione escatologica di Empedocle sono difficili da ricostruire e se ne può isolare qui solo qualche punto relativamente sicuro. In un frammento la cui collocazione nell’uno o nell’altro poema è discussa, Empedocle si presenta come un essere semidivino (daimon) esiliato dall’esistenza beata, un tempo condivisa con altri dèi, in seguito a spergiuro e delitti di sangue commessi per adesione al lato oscuro di Contesa. La caduta del daimon è dunque connessa in qualche modo con la rottura dello Sfero? Certo è che esso è condannato da una legge di necessità cosmica a un viaggio espiatorio e travagliato prima attraverso le masse cosmiche, poi in corpi di diversi ordini di esseri animati, fino a prendere forma umana.
Empedocle
Un viaggio espiatorio
Sulla natura o Purificazioni, fr. 115 fr. 115
c’è un oracolo di Necessità, un decreto degli dèi, antico,
eterno, sigillato con vasti giuramenti:
quando uno, nella sua colpa, macchi le sue membra di un’uccisione,
ed egli anche [...] commetta errore pronunciando uno spergiuro,
i dèmoni, che hanno avuto in sorte lunghissima vita,
tre volte diecimila stagioni lontano dai beati vadano errando,
generandosi nel corso del tempo nelle più diverse forme di mortali
incrociando i dolorosi sentieri della vita.
Il furore dell’etere li scaccia infatti nel mare,
il mare li risputa sul suolo terrestre, la terra verso i raggi
del sole splendente, e quello nei vortici dell’etere:
se li passano fra loro, li odiano tutti,
e di costoro sono io pure, esiliato dal dio ed errabondo,
per fiducia nella Contesa furente.
fr. 117
già una volta infatti son stato e fanciullo e fanciulla
e arbusto e uccello e pesce muto che balza fuori dal mare.
In questa veste, si può presumere, il daimon-Empedocle non solo è giunto sulla soglia della liberazione finale dalla catena della metempsicosi, ma ha anche guadagnato la possibilità di presentarsi agli altri uomini come un dio dispensatore di verità su nascita e morte degli esseri naturali, di strumenti di dominio della natura, e perfino di rimedi agli affanni degli uomini, alle malattie, alla vecchiaia, conquistati nel suo lungo viaggio nel cosmo, e consolidati in uno stile di vita puro, improntato a pratiche vegetariane e rifiuto del sacrificio cruento.
Empedocle
Il dàimon-Empedocle
Sulla natura o Purificazioni, fr. 112
O amici, che nella grande città alla foce del biondo Akragas
dimorate, sul sommo, occupati in nobili opere,
approdi venerandi per gli ospiti, ignari di malvagità,
salve! Io fra voi come dio immortale, non più mortale
mi aggiro onorato fra tutti, come è giusto, cinto di bende e corone fiorite.
E da coloro presso i quali io giunga nelle fiorenti città,
uomini e donne, sono venerato: essi mi seguono
in fiumane di migliaia, per sapere la via che porta al guadagno,
gli uni avendo bisogno di oracoli, mentre gli altri per malattie
di ogni sorta hanno chiesto di udire voce che risana,
già da tempo trafitti da dolori molesti.
Sono da annotare qui le evidenti affinità con aspetti del pensiero di Pitagora, nonché con il movimento orfico, sotto il segno comune di quella connessione fra filosofia e preoccupazioni escatologiche che è caratteristica in questa fase del clima intellettuale dell’Italia del Sud. Ma da annotare anche che, nell’elaborare la nozione di un’entità come il daimon, che mantiene la propria identità attraverso mille vicissitudini, Empedocle reca un importante contributo all’approfondimento della dimensione della coscienza individuale.