ERBARIO
Deve intendersi con il termine e. un libro, in uso dall'Antichità classica fino agli ultimi decenni del sec. 15°, che raccoglie descrizioni delle piante e delle loro virtù farmacologiche, spesso accompagnate dai nomi con cui ciascuna essenza vegetale era conosciuta nelle varie lingue e da notizie sul loro habitat (Singer, 1927). Poiché la semplice descrizione non era sufficiente a garantire l'esatta identificazione delle singole piante, il testo fu ben presto integrato anche con le raffigurazioni di queste e dunque nell'analisi di un e. i due elementi, testo e immagine, devono essere esaminati contestualmente. Soprattutto a partire dal sec. 11° alle immagini delle piante vennero spesso associate anche figure umane, con la finalità di esplicitarne più chiaramente le virtù officinali o per esemplificare particolari metodi di raccolta. Gli e. sono dunque documenti di fondamentale importanza sia per la storia delle scienze botaniche e farmacologiche, sia per quella dell'illustrazione scientifica.Nel corso del sec. 4° a.C. l'e. acquisì una precisa tipologia testuale e figurativa, che anche successivamente, per il peso e l'autorità della tradizione, non subì sostanziali modifiche. La convinzione infatti che ogni erba contenesse specifiche sostanze terapeutiche implicava il rifiuto di modificare descrizioni e immagini codificate nel tempo e per questo le piante - raffigurate per lo più nella loro interezza, con foglie, fiori, frutti e radici, in una visione frontale e bidimensionale e con un'accentuata struttura simmetrica - furono copiate e ricopiate da un manoscritto all'altro, andando con il tempo incontro a un processo di codificazione simbolica e quindi alla perdita di precisi riferimenti alle essenze vegetali che crescevano in natura. Quello che emerge da questo processo è un linguaggio figurativo convenzionale, sovente schematico e astratto, che evidentemente non doveva presentare difficoltà di interpretazione per l'occhio addestrato dello specialista, ma che anzi garantiva l'immediato riconoscimento dell'essenza vegetale e quindi delle sue proprietà terapeutiche. Va tuttavia sottolineato, sulla scorta di Pächt (1950), che in questo fenomeno di trasmissione delle immagini la tradizione pittorica dell'e. classico non andò mai interamente perduta; è infatti possibile individuare un continuum nelle sequenze figurative che dal mondo greco si riconnettono alle immagini naturalistiche del primo Rinascimento. Se testo e figure rimasero per secoli sostanzialmente invariati, l'e. fu però un testo vivo: l'uso pratico cui era destinato fece sì che i possessori lo postillassero, con una frequenza che non si riscontra in altri codici, con glosse e integrazioni, frutto della loro concreta esperienza.Sulla base del saggio di Singer (1927), il primo a tracciare una convincente storia evolutiva degli e., gli studiosi si sono dedicati, seppure con forti differenziazioni metodologiche, a precisare l'origine e l'evoluzione dei filoni iconografici che si rifanno alle diverse tradizioni o ad analizzare monograficamente i singoli codici. Se Pächt (1950) e Baumann (1974) hanno rivolto la loro attenzione soprattutto al problema dell'illustrazione dal vero, Weitzmann (1971) e Blunt e Raphael (1979) hanno privilegiato l'individuazione dei percorsi stilistici che connettono i vari codici. A Degenhart e Schmitt (1968-1980) va il merito di avere idealmente riuniti fogli di e. che nel tempo erano stati squadernati e dispersi in collezioni diverse.Estensore del più antico e. di cui è pervenuta notizia sembra essere stato Diocle di Caristo, medico ateniese vissuto intorno al 350 a.C., i cui scritti avrebbero influenzato anche l'opera naturalistica di Aristotele. Un consistente nucleo di testi botanici è invece riferibile allo scolaro ed erede dello stesso Aristotele, Teofrasto, medico di Ereso (ca. 372-287 a.C.), che li compilò al seguito delle truppe di Alessandro Magno. Particolarmente significativi sono alcuni paragrafi del nono libro della sua Πεϱὶ ϕυτῶν ἱστοϱία (Historia Plantarum), che si configura appunto come un erbario. Intorno al 200 a.C., il poeta alessandrino Nicandro di Colofone trattò, nei due poemi Theriaca e Alexipharmaca, dei veleni vegetali e dei loro antidoti e i suoi scritti furono quasi certamente illustrati anche con immagini di piante, come può dedursi da un codice del sec. 9° (Parigi, BN, Suppl. gr. 247).Altri due personaggi vissuti nel sec. 1° a.C., che incisero profondamente sulle conoscenze botaniche e sulla tipologia degli e., furono Mitridate VI Eupatore re del Ponto (132-63 a.C.) e il suo medico e rizotomista personale, Crateva. Del primo è nota, anche attraverso la testimonianza offertaci da Plinio nella Naturalis Historia, la perizia nel maneggiare veleni e antidoti vegetali, mentre il secondo fu autore di un'opera sulla natura e sull'uso terapeutico delle erbe. Secondo la testimonianza di Dioscoride (v.), medico militare e naturalista del sec. 1° d.C., sarebbe stato proprio Crateva il primo a compilare un e. figurato, purtroppo perduto, accludendo alle immagini delle piante brevi notazioni circa le loro proprietà curative.Il più antico e. figurato noto della tradizione occidentale è il c.d. papiro Johnson, risalente al sec. 4° d.C., rinvenuto nel 1904 in Egitto (Londra, Wellcome Inst. for the History of Medicine Lib.); si tratta di un frammento di pagina che presenta, con sufficiente chiarezza, le immagini di due piante, un sýmphyton (consolida) e un phlómos (forse tasso barbasso), accompagnate da una breve descrizione in greco dell'essenza e dei suoi usi officinali. Non è improbabile che l'artista che eseguì queste immagini si sia ispirato a un precedente e. più che alla realtà naturale.L'opera di Crateva, anche se non è pervenuta direttamente, può tuttavia essere ricostruita attraverso il più importante e. figurato dell'Antichità, il c.d. codice di Anicia Giuliana (Vienna, Öst. Nat. Bibl., Med. gr. 1), redatto a Costantinopoli in onciale greca intorno al 512. L'opera godette di immediata fortuna: le numerose annotazioni apposte a lato delle immagini, in ebraico, greco, arabo, latino, attestano che passò in molte mani fino a che, nel 1568, attraverso la mediazione di Ogier-Ghislain de Busbecq, ambasciatore imperiale presso la Sublime Porta, essa venne acquistata da Massimiliano II d'Asburgo dietro pagamento di cento ducati d'oro. Il codice è in realtà una collazione di vari testi medico-naturalistici, tra cui il De materia medica (Πεϱὶ ὕληϚ ἰατϱιϰῆϚ) del già citato Dioscoride.Nei cinque libri che compongono l'opera del celebre medico-naturalista vengono descritte ca. seicento tra piante, erbe, radici, balsami, contestualmente alle loro virtù terapeutiche. Questo e., che costituì la più diffusa fonte del sapere botanico nel corso di tutto il Medioevo fino agli inizi dell'età moderna, trovò diffusione attraverso due stesure testuali, una in cui le essenze vegetali sono presentate in ordine alfabetico, l'altra in cui compaiono raggruppate secondo criteri di affinità. Il codice di Vienna, redatto per Anicia Giuliana (v.) appartiene al primo gruppo, dal momento che la descrizione delle essenze vegetali procede per ordine alfabetico ed è corredata da ben trecentoottantatré straordinarie immagini di piante, alcune di uccelli e una di un corallo. Le piante, raffigurate a colori e a piena pagina, sempre dotate di fiori e radici, sono facilmente riconoscibili, sebbene anch'esse non siano derivate direttamente dalla realtà naturale, ma da prototipi più antichi oggi perduti.Due mani si riconoscono nelle tavole: a un primo artista si deve una serie di undici essenze vegetali connotate da un forte realismo (per es. rovo, asfodelo, argemone, violetta), che sembrano risalire alla tradizione classica rappresentata da Crateva, mentre a un secondo artista è riconducibile un più numeroso nucleo di immagini piuttosto schematiche, conseguenza inevitabile di repliche reiterate. Il codice è inoltre corredato da cinque tavole iniziali di grande interesse iconografico, se pure in uno stato di accentuato degrado. La prima e la seconda (cc. 2v, 3v) presentano due consessi di sette celebri medici dell'Antichità; la terza (c. 4v) mostra al centro la personificazione dell'Invenzione (Héuresis) che offre una mandragola a Dioscoride; il cane morente, ancora legato con una funicella alla radice del vegetale, ricorda l'uso di far estipare questa pianta, magica per eccellenza, da un animale, onde preservare il raccoglitore dalla morte che lo avrebbe colpito inevitabilmente. Di grande significato la quarta tavola (c. 5v), nella quale l'Attenzione (Epínoia) è intenta a sorreggere una pianta fresca di mandragola affinché il pittore Crateva, seduto di fronte al cavalletto, possa raffigurarla dal vivo; sulla destra appare Dioscoride intento a redigere il suo trattato. Nell'ultima (c. 6v) Anicia Giuliana è dipinta in trionfo, a lato delle personificazioni della Saggezza (Phrónesis) e della Magnanimità (Megalopsychía), mentre un putto le offre il manoscritto miniato.Accanto al codice di Vienna è opportuno ricordare altre redazioni del testo dioscorideo alfabetico. Una delle più antiche è un codice risalente al sec. 7° (Napoli, Bibl. Naz., ex Vind. gr. 1, già Suppl. gr. 28) le cui immagini, questa volta più d'una per pagina, derivano dallo stesso prototipo di cui si era valso l'autore del codice viennese ma, rispetto a questo, esse appaiono caratterizzate da una minore aderenza al dato naturale, sebbene la disposizione delle piante sulle pagine denoti una particolare eleganza e un accentuato gusto decorativo.Altri codici dioscoridei, pur derivando dalla medesima tradizione iconografica, se ne discostano in maniera più o meno accentuata a causa di numerose interpolazioni. Uno di questi (Parigi, BN, gr. 2179), redatto in Egitto nel sec. 9°, offre ben tre immagini non antropomorfiche di mandragola, mentre un codice (New York, Pierp. Morgan Lib., M.652), eseguito a Costantinopoli nello stesso periodo - anche se a questo proposito tra gli studiosi esistono opinioni divergenti -, è eccezionalmente ricco di immagini, in quanto presenta ben settecentocinquanta figure di piante, molte delle quali però, pur riproducendo le stesse essenze vegetali presenti nel codice viennese, se ne discostano profondamente sotto il profilo iconografico. Altri due manoscritti dioscoridei, molto più recenti, dal momento che risalgono addirittura al sec. 15°-16°, sono conservati rispettivamente a Padova (Bibl. del Seminario Vescovile) e a Roma (BAV, Chigi F.VII.159). Nel primo, databile alla metà del Quattrocento ed eseguito a Costantinopoli, l'immagine del rubus fruticosus è assai prossima a quella raffigurata nel codice di Anicia Giuliana, mentre nel secondo, più tardo e mancante del testo, ma corredato dai nomi delle piante officinali redatti in greco o in latino, a una serie di immagini iniziali, repliche di quelle del codice viennese, se ne aggiungono altre del tutto estranee a questo, molte delle quali raffiguranti alberi e animali, dipinte più rozzamente e riunite quattro o cinque per pagina. Alla fine dell'opera ricompaiono, pur con talune modifiche, le miniature raffiguranti il consesso dei sette medici, quella con Héuresis, qui denominata Sophía, nell'atto di consegnare la mandragola a Dioscoride, e quella con Epínoia, anch'essa chiamata Sophía, che offre la madragola al pittore, che un'iscrizione identifica con "Zographus pictor". Nel manoscritto romano invece del ritratto di Anicia Giuliana sono state aggiunte due raffigurazioni del corpo umano maschile nudo, ritratto di fronte e dal dorso.A partire dal sec. 9° gli e., in particolare quello di Dioscoride, si diffusero rapidamente anche in ambito arabo, dove la maggior parte di essi vide la luce tra il 12° e il 13° secolo.Intorno all'854 il testo del medico cilicio venne infatti tradotto direttamente dal greco da Stephanos, figlio di Basileos, un cristiano che viveva a Baghdad al tempo del califfo alMutawakkil (847-861). Per talune essenze vegetali il traduttore, non riuscendo a trovare il corrispondente termine arabo, si limitò a trascrivere quello greco. A Córdova, intorno al 950 il testo venne successivamente sottoposto a un'accurata revisione da parte del dotto monaco Nicola e in quell'occasione alle piante tradizionalmente illustrate ne furono aggiunte altre, dando così origine a una nuova tipologia testuale e iconografica.Gli e. arabi denunciano spesso, come emerge per es. dal codice dioscorideo dipinto nel 1229 (Istanbul, Topkapı Sarayı Müz., A.III 2127), accanto a elementi naturalistici di ascendenza classica mutuati attraverso la cultura bizantina, altri propri della tradizione orientale. Le essenze vegetali raffigurate presentano soluzioni fortemente decorative, evidenti soprattutto nell'articolazione delle foglie disposte ai due lati del fusto, concepito come asse di simmetria. Purtroppo disperso è un e. fatto redigere dal vero, in Libano, dal botanico arabo Ibn al-Sūrī (1179-1242), che soleva ordinare al suo pittore di ritrarre le piante appena estratte dal terreno (Sarton, 1927-1948, II, 2, p. 649). Variamente datato è un codice a Parigi (BN, arab. 4947), iconograficamente assimilabile al Dioscoride di New York (Pierp. Morgan Lib., M.652).Anche i primi e. latini furono tradotti da quelli greci e anch'essi vennero immediatamente corredati da immagini. Nel sec. 6° apparvero due versioni del testo di Dioscoride, una denominata Lomabardus e l'altra Vulgaris, e più o meno contemporaneamente venne tradotta anche l'opera sui semplici (erbe medicinali) di Galeno; profonda fu l'influenza che ambedue questi autori esercitarono sugli e. medievali. Il testo di Dioscoride subì tuttavia pesanti interpolazioni con altri testi, sia riferiti allo stesso medico cilicio, come Herbae foeminae, sia di altri autori, come il Liber medicinae ex animalibus di Sesto Placito Papirense. Ulteriore confusione fu originata poi dal fatto che all'opera dioscoridea fu sovente associato un trattatello sull'erba betonica scritto dal medico romano Antonio Musa (sec. 1° a.C.-1° d.C.).I testi compilati intorno al 400 furono attribuiti a un certo Apuleio, identificato prima con il poeta Lucio Apuleio (sec. 2°), ma ben presto ricondotti a un omonimo di volta in volta denominato Platonico, Barbaro o pseudo-Apuleio. Il nome del presunto autore di questi e. - noti con i titoli di Herbarius Apulei Platonici, De medicaminibus herbarum liber uno, Herbarium de Sextus Apulieus Barbarus, De herbarum virtutibus - potrebbe derivare, secondo l'ipotesi di Anderson (1977), dall'errata interpretazione di una delle tre scene mitologiche che solitamente compaiono all'inizio dell'opera, che ritrae rispettivamente Peleo, padre di Achille, lo stesso Achille e il centauro Chirone, maestro dell'eroe greco, che secondo la tradizione avrebbe appreso l'arte di curare con le erbe direttamente da Diana. L'ignoranza della mitologia classica e il fraintendimento degli amanuensi avrebbero portato a interpretare Peleus come Apuleius e a scambiare la figura di Achille con quella di Platone, in seguito a sua volta identificato con Plateario, il celebre medico salernitano vissuto nel 12° secolo.Uno degli elementi di novità che caratterizza l'e. di Apuleio è l'accentuata presenza di elementi magici, che non trova riscontro nei testi greci. Uno spazio sempre più consistente vengono ad assumere anche le concezioni medico-alchemiche, come quella degli umori, sui quali si riteneva che i composti di erbe esercitassero un'influenza determinante.Dell'e. di Apuleio, a partire dal sec. 6°, si diffusero tre archetipi, che oggi vengono identificati attraverso altrettante lettere greche: α, il più corretto, che ricorre nei codici di maggior rilievo; β, caratterizzato da immagini più naturalistiche; γ, versione che compare nei manoscritti più antichi.Fondamentale è il codice illustrato di Apuleio redatto in Italia meridionale nel sec. 6° o agli inizi del 7°, conservato a Leida (Bibl. der Rijksuniv., Voss. lat. Q 9). Le immagini che lo decorano non sono né particolarmente raffinate, né particolarmente aderenti alla realtà naturale, ma il suo peculiare interesse consiste nel fatto che esso servì da prototipo per numerosi e. prodotti in seguito in tutta l'Europa occidentale. Altri e. di Apuleio furono copiati presso le abbazie benedettine di Montecassino (Montecassino, Bibl., 97; Hunger, 1935) e di Bury St Edmunds in Inghilterra (Oxford, Bodl. Lib., Bodley 130; The Herbal of Apuleius Barbarus, 1925). Il primo, contenente vari scritti di soggetto medico e caratterizzato da figure schematiche e geometricamente stilizzate, risale al sec. 10° e costituisce un significativo esempio della produzione di uno dei centri più attivi di trasmissione di cultura, anche scientifica, dell'Alto Medioevo. Nel codice inglese, accanto a numerose immagini convenzionali, si può isolare un gruppo improntato a un inusuale realismo (per es. il cardo di c. 37v), forse opera di un monaco che preferì ispirarsi a essenze vive, piuttosto che rifarsi a una consolidata tradizione grafica. È infine da ricordare anche l'e. conservato a Lucca (Bibl. Statale, 296), risalente probabilmente al 9° secolo.L'opera di Apuleio godette di ampia fortuna, tanto che nel sec. 11° venne tradotta in anglosassone, come testimonia un codice oggi a Londra (BL, Cott. Vit. C.III). Il miniatore, che la replicò da un manoscritto dell'Italia meridionale, non si diede la pena, secondo la prassi usuale, di verificare su esemplari vivi le essenze vegetali che andava raffigurando, sicché non poche sono le piante che, proprie dell'habitat mediterraneo, sono del tutto estranee al patrimonio floristico inglese.Una particolare tipologia assunsero nel corso del sec. 13° alcuni e. anglonormanni nei quali le piante, finalizzate a un precipuo intento decorativo, finirono per perdere ogni caratterizzazione naturalistica. Poste all'interno di cornici o su sfondi dorati o vivacemente colorati, esse sono talmente stilizzate da non permettere alcuna identificazione sistematica o riferimento all'essenza che intendono raffigurare. Un significativo esempio di questo gruppo di opere è fornito dal codice, risalente al 1200 ca., che riproduce l'Herbarius Apulei Platonici e altri testi di medicina (Londra, BL, Sloane 1975).Anche nel raffinato e. di Apuleio redatto in Germania nel sec. 12° (Windsor, Eton College Lib., 204), nel quale sono tra l'altro trascritti passi del testo dioscorideo, le immagini dei vegetali ripropongono la consueta astrazione, sebbene l'opera si apra con due scene assai realistiche e movimentate in cui sono ritratti alcuni rizotomisti intenti a estrarre i semplici dal terreno, e quindi a trattarli sotto l'attenta guida del medico.Un'altra famiglia di e. ebbe origine nell'Italia meridionale, nell'ambito della celebre scuola medica sorta a Salerno, che conobbe il massimo apogeo nel corso del sec. 12° e cui va il merito di aver rielaborato e unificato le correnti del pensiero terapeutico greco, latino e arabo. Testi e autori si affollano, creando non agevoli problemi di identificazione tra Giovanni e Matteo Plateario, Matteo, Bartolomeo e Tommaso Ferrario, Cofone e Urso. Particolarmente interessante è un'opera sui semplici, le cui varie redazioni sono oggi note come Tractatus de herbis, Secreta Salernitana o, dall'incipit del testo, Circa instans. Nell'opera sono descritte ca. cinquecento essenze vegetali, ciascuna corredata dai termini greci e latini e talvolta anche da quelli volgari e, ove possibile, dalla segnalazione delle varietà conosciute e da notizie sull'habitat, venendo così a costituire uno strumento teorico e pratico di primaria importanza per i medici e gli erboristi.L'e. salernitano, redatto da un esponente della famiglia Plateari, forse Matteo, recuperò massicciamente l'esperienza dioscoridea e si diffuse rapidamente in tutta Europa. Tradotto già a partire dal sec. 13° in francese, inglese, olandese, tedesco, danese, provenzale ed ebraico, contribuì in maniera incredibile all'approfondimento della scienza botanica; da esso trassero una congerie di notizie i più importanti enciclopedisti medievali, come Tommaso di Cantimpré, Alberto Magno e Vincenzo di Beauvais; nel 1422 la Facoltà di medicina di Parigi lo impose addirittura come codex agli erboristi. Ovviamente la diffusione e l'uso pratico dell'opera generarono numerose varianti testuali, soprattutto perché i copisti, sovente essi stessi gente del mestiere, non esitarono ad apportarvi modifiche frutto della loro personale esperienza. Gli stessi miniatori interpretarono più liberamente gli schemi vegetali, inserendo nelle scene particolari di loro invenzione.Ciò che caratterizza nettamente questi codici rispetto agli e. precedenti è infatti l'apparato iconografico: alle illustrazioni delle piante, spesso improntate a un innegabile realismo, ne vennero aggiunte altre che raffigurano i più svariati organismi animali o sostanze minerali che trovavano frequente impiego nella terapia medica o da cui si usava estrarre i medicamenti. Vivaci sono poi le scene di genere, dedicate soprattutto al rinvenimento e alla raccolta dei semplici, che spesso contribuirono ad arricchire e diversificare i vari Circa instans. Questi nuovi dizionari pittorici di semplici, oltre ad assolvere alle finalità didattico-scientifiche per cui erano stati progettati, consentirono così di abbinare all'uso pratico anche il godimento estetico derivante dall'osservazione delle gradevoli e animate immagini che li adornavano.Due codici salernitani piuttosto importanti redatti in Italia sono conservati a Londra (BL, Egert. 747; Sloane 4016). Sul primo, prodotto nell'Italia centrale e risalente agli inizi del sec. 14°, attirò l'attenzione Pächt (1950), che non solo lo ritenne uno dei più antichi, ma addirittura annoverabile fra i capisaldi di quella rinascita del realismo che contraddistinse molti e. a partire dal Trecento. Anche studi più recenti concordano nell'affermare che non si tratta di veri e propri studi dal vero, quanto piuttosto di una rivisitazione critica di alcune immagini fornite dalla tradizione e del loro confronto con esemplari vivi, come si evince per es. dalla flessuosa immagine del convolvolo (c. 104v). Il secondo manoscritto - composto da illustrazioni a piena pagina, alcune delle quali, come quella dedicata alla raccolta delle ciliege, denunciano una freschezza d'ispirazione e un intento narrativo solitamente estraneo agli e. - è più prossimo ai Tacuina sanitatis. Esso fu certamente eseguito tra la fine del sec. 14° e l'inizio del 15° per un ricco committente appassionato di cose di natura, da un miniatore di area lombarda come denunciano le immagini degli animali dipinti a c. 50r.Altri importanti codici riconducibili ai Circa instans sono: un manoscritto (Firenze, Bibl. Naz., Pal. 586), di origine spagnola o provenzale, redatto intorno alla metà del sec. 14°, particolarmente ricco di scene e personaggi; due codici (Modena, Bibl. Estense, B.E. Lat. 993; Est. 28), originari della Francia e risalenti alla metà del sec. 15°, ambedue corredati da piccole immagini di piante e di personaggi vivacemente colorati; un codice più tardo (Bruxelles, Bibl. Royale, IV.1024), anch'esso redatto in francese.Nel corso dei secc. 14° e 15° fu prodotto, soprattutto in Italia, un gran numero di e. spesso in volgare o in un latino intriso di volgarismi, frutto di diverse provenienze testuali e figurative, nei quali è anche possibile individuare il persistere di tradizioni orientali (Baltrušaitis, 1955). Ancora una volta si è di fronte a opere di carattere essenzialmente empirico, redatte o fatte redigere da gente del mestiere, che se ne serviva come strumenti per il proprio lavoro e dove frequenti sono le interpolazioni con elementi magici, alchemici e religiosi. Formule magiche, scongiuri, preghiere cristiane, figure di angeli, diavoli, animali fantastici sono infatti associati alle immagini delle essenze vegetali, quasi sempre rigidamente schematiche o del tutto irreali, come denunciano le estese radici zoomorfiche o antropomorfiche che sovente le corredano. È il caso per es. del c.d. e. di Trento (Mus. Prov. d'Arte, 1591), dell'e. di maestro Ghino a Firenze (Laur., Rediano 165), dell'e. sempre a Firenze (Bibl. di Botanica dell'Univ., 106), dell'e. di Pavia (Bibl. Univ., Aldini 211), di un codice di Venezia (Bibl. Naz. Marciana, 4758), o del manoscritto, appartenuto al naturalista-pittore cinquecentesco Gherardo Cybo (Fermo, Bibl. Com., 18).In questa eclettica e variegata famiglia si distingue sotto il profilo stilistico un codice (Lucca, Bibl. Statale, 196), nel quale un abile e nient'affatto ingenuo artista ha sottoposto a una personale revisione gli stereotipi vegetali offerti dalla tradizione.La storia degli e. medievali si chiude con due opere prestigiose, che, pur riassumendo in sé alcuni elementi caratteristici degli e. antichi, preannunciano le innovative esperienze che caratterizzarono lo studio e la raffigurazione botanica tra il 15° e il 16° secolo. Si tratta dell'e. Carrarese (Londra, BL, Egert. 2020), che nel sec. 16° figurava nella biblioteca del celebre naturalista e bibliofilo bolognese Ulisse Aldrovandi, e del Liber de simplicibus di Benedetto Rinio (Venezia, Bibl. Naz. Marciana, lat. VI, 59).Nell'e. Carrarese, che si riconnette in parte alla tradizione salernitana, è inserito un trattatello di botanica del medico arabo Serapion il Giovane, vissuto in Spagna nel sec. 9°, trascritto in volgare dal monaco padovano Jacopo Filippo per Francesco II Novello da Carrara, ultimo signore della città veneta, deposto nel 1403. Non è certo casuale che quest'opera sia stata eseguita a Padova, centro artistico vivacissimo tra il finire del sec. 14° e gli inizi del 15°, la cui Università era all'avanguardia anche nell'ambito degli studi scientifici. Dovendosi il manoscritto configurare come opera di lusso, l'amanuense ebbe l'accortezza di lasciare ampio spazio per le illustrazioni, ma purtroppo solo una cinquantina delle pagine membranacee poterono essere riempite da un artista anonimo, ma di grande ingegno, che, guardando direttamente alla natura, seppe offrire immagini di piante, spesso ritratte con fiori e frutti, di straordinaria evidenza e di raffinata eleganza, vivificate da un delicato e sicuro cromatismo del tutto ignoto agli e. coevi. Quest'opera suggerisce un approccio assolutamente nuovo all'essenza vegetale, che non appare più semplicemente squadernata sul foglio, ma si colloca di fronte allo spettatore quasi immersa nell'atmosfera reale. Tra le tavole più giustamente celebrate sono quella della vite (c. 28r), quella dei teneri e flessuosi asparagi, che sembrano spuntare dal terreno (c. 5v), e quella del cetriolo (c. 162v), che si incurva elegantemente a occupare la parte inferiore della pagina che lo scritto gli riserva.Il secondo codice, che risale al 1445-1448, fu redatto dal medico di Conegliano Niccolò Roccabonella, addottorato a Padova nel 1410, mentre l'apparato illustrativo spetta al pittore veneziano Andrea Amadio, di cui non si possiede alcuna notizia. Il codice è tuttavia noto con il nome del suo successivo possessore, il medico veneziano Benedetto Rinio (m. nel 1565). Ritenuto all'origine dipinto dal vero, è stato poi dimostrato da Pächt (1950) che Amadio aveva in realtà riprodotto puntualmente le essenze vegetali già illustrate nell'e. Carrarese. Ma poichè l'e. di Rinio presenta anche numerose essenze vegetali che non compaiono nell'e. Carrarese, è stato ipotizzato che esse siano derivate da un prototipo oggi perduto, comune ai due testi, che includeva però un numero maggiore di piante rispetto a quelle raffigurate nel testo di Serapion. Sebbene ridotto a livello di copiatore, Andrea Amadio assolse comunque brillantemente il suo compito, offrendo ottima prova della sua abilità pittorica, soprattutto nelle tavole raffiguranti l'anguria (c. 41r), la peonia (c. 164r) e il papavero rosso (c. 162r), con i fiori che mostrano la faccia frontale e posteriore dei petali, svariati boccioli e le capsule ricolme di semi.La fortuna testuale e iconografica degli e. era tale da conservarsi pressoché inalterata nei primi incunaboli, che ebbero oltretutto il merito di allargarne in maniera determinante la diffusione. L'Herbarium Apulei, il primo a essere stampato, vide la luce a Roma tra il 148l e il 1483 a opera di un anonimo stampatore cui era stato commissionato dal medico Filippo di Lignamine. L'opera si compone di centotrentuno capitoli, ciascuno dei quali dedicato a un'essenza vegetale; queste, trattate non in ordine alfabetico, erano corredate dei consueti termini greci e latini, mentre l'apparato iconografico consiste di centotrenta immagini alquanto rozze, ricavate da matrici lignee o metalliche. Come fonte per il testo e le illustrazioni fu usato un manoscritto dell'abbazia di Montecassino, oggi perduto, corredato da figure tracciate schematicamente e non colorate. Alcune delle tavole incise sono assimilabili a quelle del citato codice di Londra (BL, Cott. Vit. C. III).In un periodo in cui gli e. avevano già da alcuni decenni raggiunto un livello tecnico ed estetico assimilabile a quello dell'e. Carrarese, quest'opera potrebbe configurarsi come un episodio anacronistico, se non avesse riscosso una grande fortuna e non fosse stata immediatamente seguita da numerosi altri e. illustrati a stampa, come l'Herbarius Latinus, uscito a Magonza nel 1484, o il Tractatus de virtutibus herbarum, pubblicato a Vicenza nel 1499. A questi primi e. a stampa spetta il merito di aver agevolato la nascita di una diversa tipologia di opere, nelle quali le vivae eicones denunciano un approccio sperimentale e uno studio scientifico delle essenze vegetali ormai moderni.
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