BENTIVOGLIO, Ercole
Nacque a Bologna il 15 maggio 1459 da Sante, signore della città, e da Ginevra Sforza. Aveva appena tre anni quando il padre lo mandò "a Fiorenza a farlo nutrire alli Medici" (Ghirardacci, p. 180); e praticamente si tenne poi sempre lontano da Bologna, forse anche in conseguenza della morte precoce del padre e delle nozze di Ginevra con Giovanni Bentivoglio.
Rivoltosi al mestiere delle armi, entrò dapprima al servizio di Lorenzo de' Medici, partecipando nel 1486 alla guerra di Sarzana contro i Genovesi, e dopo la conquista di Pietrasanta fu nominato governatore di questa piazzaforte. Nel 1487 partecipò alla fastosa cerimonia delle nozze di Annibale Bentivoglio con Lucrezia d'Este e ricevette in questa occasione un'alta onorificenza militare da Giovanni Bentivoglio, a dimostrazione ufficiale della cordialità dei loro rapporti. In questo periodo sposò Barbara di Marsilio Torelli, conte di Montechiarugolo.
Dopo la cacciata dei Medici da Firenze, il B. rimase al servizio della Repubblica e nel 1496 prese parte alla guerra contro Pisa, ottenendo un buon successo sul condottiero veneto Giampaolo Manfroni, che attirò in un agguato e sconfisse presso il castello di Bientina; fortificatosi poi presso Pontedera, riuscì brillantemente a tener testa, soprattutto in virtù della sua conoscenza dei luoghi, al forte contingente veneziano guidato dal provveditore Giustiniano Morosini. Fu quindi per qualche mese al servizio di Siena ed il 23 luglio 1497 passò a quello di Alessandro VI, al comando di cento uomini d'arme; partecipò col Valentino alla conquista della Romagna ed il 20 ott. 1500, dopo l'insurrezione di Pesaro contro Giovanni Sforza, prese possesso della città, ricevendo in consegna la rocca da Galeazzo Sforza.
Nel 1502 il B. passò nuovamente al servizio dei Fiorentini ed invano tentò di recuperare Arezzo ribellatasi: arrivò, infatti, davanti alle mura della città, quando la rocca, strenuamente difesa dal vescovo Cosimo de' Pazzi, era caduta nelle mani di Piero de' Medici, Vitellozzo Vitelli, Fabio Orsini e Giampolo Baglioni. Il 1° maggio 1503 la Repubblica di Firenze affidò al B. la carica di governatore generale delle milizie, con una provvigione di 1.200 fiorini d'oro.
Durante l'assedio di Pisa del 1504 il B., completamente d'accordo in questo con il commissario di guerra Antonio Giacomini Tebalducci, si oppose al disegno del gonfaloniere Pier Soderini - sostenuto anche da Niccolò Machiavelli - di deviare l'Arno presso Pisa, in modo da impedire ogni comunicazione tra la città assediata ed il mare. Il Soderini ed il Machiavelli sostenevano che all'opera sarebbero state sufficienti 40.000 giornate di lavoro; mentre il B. ed il Giacomini ritenevano che sarebbero occorse almeno 200.000 giornate: non solo, ma che l'opera sarebbe stata di utilità assai dubbia. Nonostante il parere contrario dei responsabili militari il Soderini insistette nel suo progetto: i lavori vennero cominciati ed assai presto le previsioni del B. ebbero una chiara conferma, sicché si dovettero interrompere le opere e togliere l'assedio.
Nel luglio del 1505 il B., mentre guidava l'esercito fiorentino al soccorso di Piombino, decise di affrontare, nonostante il contrario parere dei Dieci della guerra, Bartolomeo d'Alviano che tentava di avvicinarsi a Pisa per impedirgli di congiungersi con Gian Paolo Baglioni. Alla Torre di San Vincenzo, il 17 di quel mese, avvenne lo scontro, che si concluse con una completa vittoria dei Fiorentini: l'Alviano si salvò a stento, fuggendo con pochi compagni, ed il B. catturò più di un migliaio di prigionieri, oltre a numerosi cavalli, carri ed insegne.
La vittoria di San Vincenzo, che liberava d'un tratto Firenze dalla minaccia dell'Alviano, fu indubbiamente sopravvalutata dalla Signoria fiorentina e dallo stesso Bentivoglio. Questi propose ai Dieci di sferrare un colpa decisivo contro Pisa. La proposta del B. fu tenacemente avversata nel Consiglio Maggiore: non mancavano, infatti, tra i consiglieri coloro che dubitavano delle qualità militari del B., ritenuto, come scrisse poi il Guicciardini., "uomo prudente e di grande giudizio nel disegnare, ma di poco animo e male atto a mettere in esecuzione" (Storia d'Italia, p. 261). Prevalse, tuttavia, il parere del gonfaloniere Soderini, favorevole alla proposta del B.: il 19 agosto gli Ottanta ed il Consiglio Maggiore deliberarono il finanziamento dell'impresa. Fu deciso di assoldare 6.000 nuovi fanti, di inviare al B. vari pezzi di artiglieria e di premiarlo per la sua vittoria sull'Alviano promovendolo al grado di capitano generale. Latore delle decisioni del governo al B. fu il Machiavelli, che rimase presso l'esercito per tutta la campagna.
L'8 settembre il B. era sotto e mura di Pisa: aperta con le artiglierie una larga breccia presso la porta Calcesana, lanciò le fanterie all'attacco della città. I fanti fiorentini fecero però una così cattiva prova, che, dopo altri due tentativi, il 14 settembre il B. decise di rinunziare all'impresa. Dell'insuccesso il governo fiorentino ritenne responsabile il B., che nel 1506 fu privato della carica di capitano generale e successivamente licenziato.
Il B. conservò tuttavia la stima del Machiavelli, che al principio di quell'anno, pubblicato il Decennale primo, gliene aveva inviato in omaggio una copia. Il B., che si trovava allora a Cascina, ancora al servizio della Repubblica, mandò in risposta al segretario fiorentino, il 25 febbraio, una lettera notevole per la consapevolezza della decadenza italiana: dopo aver lodato l'arte con cui erano stati illustrati i principali avvenimenti del decennio, esortava il Machiavelli a continuare l'opera, "perché, se bene questi tempi sono stati e sono tanto infelici, che el ricordargli rinnova e accresce a noi altri dolori non picholi, pure c'è gratissimo che queste cose scripte in verità pervengono a chi verrà dopo noi... perché cognoscendo la mala sorte nostra de questi tempi, non ce imputino che siamo stati cativi preservatori dello honore e reputacione ittallica...". E concludeva col triste presagio di tempi ancora peggiori, "parendome che a questa ultima ruina quel pocho che ci resta concorra como a cosa desiderata: e certamente per quanto porta l'umano judicio, non si può sperare che male, se quello che salvò il popolo d'Israel da le mani de Faraone non ce apre in mezo questo fluctuante mare inopinata via a salvarse, como fu quella" (Machiavelli, Lettere, pp. 145 s.).
Abbandonato il servizio dei Fiorentini, il B. entrò in quello di Giulio II, che lo inviò presso l'esercito pontificio comandato da Francesco Maria Della Rovere. Da questo momento si perdono le sue tracce. Nell'Arte della guerra (p. 98) il Machiavelli fa cenno ad "uno suo scritto" sulle milizie cittadine, ma non se ne hanno maggiori notizie.
Fonti e Bibl.: I. Nardi, Istorie della città di Firenze, Firenze 1888, I, pp. 272, 301, 305, 307, 308; C. Ghirardacci, Della historia di Bologna parte terza, in Rerum Italic. Script., 2 ed. XXXIII, 1, a cura di A. Sorbelli, pp. 171, 180, 215, 236, 300, 337, 338; Doc. ined. sulla fam. e la corte di Alessandro VI, a cura di M. Menotti, Roma 1917, pp. 45, 100; F. Guicciardini, Storia d'Italia, a cura di C. Panigada, Bari 1929, I, pp. 2, 59-261; II, pp. 37, 153, 157-159; Id., Storie fiorentine del 1387 al 1509, a cura di R. Palmarocchi, Bari 1931, pp. 111, 222, 230, 273, 278; Id., Dialogo e discorsi dei reggimento di Firenze, a cura di R. Palmarocchi, Bari 1932, p. 166; N. Machiavelli, Il Principe e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, a cura di S. Bertelli, Milano 1960, pp. 251 5.; Id., Arte della guerra, a cura di S. Bertelli, Milano 1961, p. 98; Id., Lettere, a cura di F. Gaeta, Milano 1961, pp. 144-146; Id., Legazioni e commissarie, a cura di S. Bertelli, Milano 1964, I, p. 239; II, pp. 847, 857, 888, 984.