CONSALVI, Ercole
Nacque a Roma l'8 giugno del 1757 dal marchese Giuseppe di Tuscania, e da Claudia dei conti Carandini, ma era di origini plebee: suo nonno Brunacci era stato adottato dai marchesi Consalvi. Perduto il padre nel 1763, fu affidato al cardinale Andrea Negroni, il quale nel 1766 lo inviò ad Urbino a studiare grammatica, umanità e retorica nel collegio degli scolopi. Nel 1771 il Negroni, che da prelato era stato uditore dei cardinale duca di York (allora vescovo di Frascati), fece entrare il C. nel seminario-collegio di Frascati. Qui il C. studiò retorica, filosofia, matematiche e teologia, ma non prese gli ordini sacri: primo indizio di una vocazione più ecclesiasticopolitica che religiosa. Dall'ottobre 1776 all'ottobre 1782 il C. frequentò l'Accademia dei nobili ecclesiastici di Roma, nella quale studiò giurisprudenza e storia ecclesiastica, avendo come docente di quest'ultima l'ancora influentissimo ex gesuita F. A. Zaccaria, "sempre intransigentemente impegnato contro tutte le nuove idee, in campo politico o religioso" (Pignatelli, Le origini settecentesche, p. 759). A questo però il C. non si legò minimamente; al contrario: come scriverà orgogliosamente nelle Memorie (p. 8), non fece "mai la corte al celebre abate Zaccaria..., il quale, essendo stimatissimo dal Papa, aveva con le sue relazioni favorevoli sulli talenti e studii di molti miei compagni fatto la loro fortuna" (tra costoro i futuri cardinali Pacca e Severoli). Grazie alle sue doti di intelligenza e di cultura e in virtù del proprio talento e del proprio fascino, il C. iniziò una brillante carriera ecclesiastica. Già nell'aprile 1783 cameriere segreto soprannumerario del papa, nel luglio 1784 fu nominato prelato domestico e, poco dopo, referendario della Segnatura (prima sua carica politica). Nell'agosto 1786 divenne ponente della Congregazione del Buon Governo, ossia relatore sulle richieste delle Comunità locali (città, terre e castelli) dello Stato della Chiesa: una carica che gli consentì di studiare la multiforme, ma stagnante, realtà finanziaria ed economica dello Stato, proprio mentre tale realtà veniva messa in movimento, per iniziativa del tesoriere generale Fabrizio Ruffo, dall'istituzione delle dogane ai confini e dal correlativo regolamento per le Comunità, comportante tra l'altro l'abolizione delle gabelle relative alla circolazione intema delle merci. Rifiutata la nunziatura di Colonia, che venne conferita al Pacca, il C. fu nominato nell'aprile 1789 giudice votante del tribunale della Segnatura e nel 1792 uditore di Rota; successivamente fu incaricato della sistemazione degli ecclesiastici espulsi o fuggiti dalla Francia rivoluzionaria, e nel 1796 divenne assessore della Congregazione militare in quell'occasione istituita da Pio VI. Arrestato, il 13 febbr. 1798, dai Francesi del generale Berthier, il C. fu rinchiuso in Castel Sant'Angelo e poi espulso dallo Stato. Fu prima a Napoli e successivamente a Livorno: ai primi di Settembre gli riuscì di incontrarsi a Ema, presso Firenze, con Pio VI, che, deportato da Roma, era stato costretto dai Francesi ad alloggiare con una corte ridotta presso la certosa di Firenze. Fu in quell'occasione che il pontefice, prima di essere trasferito (marzo 1799) a Valence nel Delfinato, ordinò al C. di raggiungere a Venezia i cardinali ivi rifugiatisi sotto la protezione austriaca.
Con la morte di Pio VI (29 ag. 1799) e con il conclave apertosi a Venezia il 30 nov. 1799 ebbe inizio la grande carriera politica del Consalvi.
Fu per sua iniziativa, infatti, che il conclave veneziano usci da una prolungata situazione di stallo. Questa era stata creata dall'opposizione della candidatura Bellisomi, appoggiata da Braschi (cardinale nipote del deceduto pontefice), alle manovre dell'Austria, che, sperando in tal modo di poter ottenere più facilmente le Legazioni, appoggiava la candidatura dell'arcivescovo di Ferrara, cardinale Mattei, firmatario della pace di Tolentino (19 febbr. 1797), sostenuto dal cardinale Antonelli. In quell'occasione il C., che era prosegretario del conclave, comprese che all'Antonelli occorreva concedere la soddisfazione di apparir lui il proponente del candidato di riserva del partito di Braschi. In tal modo si pervenne, il 14 marzo 1800, all'elezione di Pio VII nella persona del benedettino Chiaramonti, già vescovo di Tivoli e di Imola.
Tornato a Roma, il nuovo papa, in segno di riconoscenza, ma anche di simpatia e fiducia, prima lo nominò prosegretario di Stato (15 marzo 1800) e poi cardinale diacono e segretario di Stato (11 ag. 1800). Ebbe così inizio quello che può essere definito il primo segretariato dei C., in una situazione di crisi economico-finanziaria, appesantita duramente dalla perdita delle province più ricche passate a far parte della ripristinata Repubblica cisalpina, oltre che dalle requisizioni e forniture imposte da Austriaci, Francesi e Napoletani.
Lo stato d'animo con il quale il C. si accinse ad affrontare il gravoso suo nuovo compito fu da lui più tardi, nelle Memorie (p. 145), cosi ricordato: "La Rivoluzione aveva tutto cambiato e molto distrutto. Da questo male potevasi, nel ripristinare le cose, cavare un bene. Per quanto fossero sagge le instituzioni del governo pontificio, è però fuor di dubbio che alcune erano degenerate dalla loro primiera origine; altre erano state mescolate, alterate, corrotte; altre non convenivano più ai tempi, alle nuove idee, ai nuovi usi. Gli effetti stessi della Rivoluzione e lo spirito della medesima, che col cessare di lei non era cessato, dimandavano delle considerazioni e dei riguardi, per il vantaggio stesso del governo che si doveva ristabilire, non che dei governati". Èqui già prefigurata una sorta di juste-milieu consalviano, tanto determinato nel risanamento e rafforzamento del vecchio edificio statuale quanto aperto alle sollecitazioni dei tempi nuovi, reclamanti quanto meno una politica di dispotisino illuminato e l'abbattimento dei privilegi parassitari che impedivano la trasformazione delle antiquate strutture pubbliche romane in uno Stato moderno.
Il primo privilegio abolito dal C. fu quello, detenuto dal cardinale camerlengo Braschi, consistente nella facoltà di rilasciare le licenze per le tratte di esportazione (anche dei grani, nonostante i tentativi di riforma settecenteschi) e di circolazione interna delle merci e le licenze per le importazioni (anche qui: nonostante le precedenti riforme). Questo ed altri provvedimenti, come la parziale divisione del latifondo e la corresponsione di un'indennità agli acquirenti dei beni nazionali che avessero rinunziato al loro godimento, attirarono subito sul C. l'ostilità, destinata a non estinguersi più, degli ambienti di Curia e dei gruppi sociali interessati al mantenimento dello statu quo, e l'avversione di spregiudicati speculatori come il banchiere Giovanni Torlonia, dal C. duramente osteggiato in più di un'occasione.
Anche sulla questione politica di gran lunga più rilevante del suo primo biennio di governo, ossia il negoziato offerto da Bonaparte per un concordato con la Francia che riconoscesse la vendita dei beni nazionali e comportasse il completo rinnovamento dell'episcopato francese (tra l'altro nel 1799-1800 ben quarantatré diocesi erano prive di vescovi per morte dei titolari), il C., deciso a giungere a un accordo che, certo, avrebbe rappresentato una rottura tra la S. Sede e il legittimismo borbonico e un riconoscimento della nuova Francia uscita dalla Rivoluzione, incontrò una forte resistenza interna, particolarmente vivace da parte del cardinale Antonelli, che egli anche in questo caso poté vincere solo grazie all'appoggio personale del pontefice. Furono questa forte resistenza e le difficoltà che dal canto suo incontrava il negoziatore francese abate Bernier, ad indurre il C. a farsi conferire dal papa la pienipotenza e a raggiungere a Parigi il negoziatore pontificio monsignor Spina, nell'intento di concludere rapidamente le trattative (giugno 1801). In tre settimane l'accordo venne raggiunto (il C. potrà essere di nuovo a Roma il 9 agosto), e il settimo progetto discusso divenne, il 15 luglio 1801, il testo del concordato con il primo console.
In diciassette articoli l'accordo prevedeva tra l'altro: libertà di religione; pubblicità del culto cattolico; ristrutturazione delle diocesi da parte del papa, con relativo invito pontificio alle dimissioni rivolto a tutti i vescovi; nomina dei nuovi vescovi da parte del primo console e loro istituzione canonica da parte del papa; giuramento di obbedienza degli ecclesiastici al governo; rafforzamento dei poteri dei vescovi sul clero; accettazione pontificia della vendita dei beni nazionali, compensata dalla promessa dei governo di garantire al clero un trattamento economico conveniente. Era la prima volta che un intero episcopato nazionale veniva "dimissionato" (e tra esso i molti vescovi che, ubbidendo a Pio VI, avevano rifiutato la costituzione civile dei clero, ora definitivamente affossata). Roma sanzionava in tal modo il sorgere dell'ultramontanismo, vibrando un duro colpo al gallicanesimo religioso, e rafforzava enormemente il potere dei papa sugli episcopati nazionali. I trentacinque vescovi francesi monarchici ad oltranza che, sopra un totale di centotrentasei, rifiutarono le dimissioni, con alla testa lo arcivescovo di Reims, Talleyrand de Périgord, vennero destituiti e sostituiti; ma in alcune regioni, come la Vandea, il Lionese e il Tolosano, si formarono delle petites Eglises fedeli ai vescovi non dimissionari, che Bonaparte non poté e Pio VII non volle disperdere. Dal canto suo, pacificandosi con la Repubblica francese, Roma aveva compiuto uno sforzo di adeguamento ai tempi ben superiore a quelli compiuti con il lontano riconoscimento di un Enrico IV di Borbone fattosi cattolico, o dei re protestanti inglesi della casa di Hannover, tanto più che tale sforzo non era scevro di rischi: nel 1802 infatti il governo francese, con il pretesto di far accettare alle Assemblee legislative il concordato, vi aggiunse unilateralmente degli "articoli organici" contenenti varie restrizioni giurisdizionalistiche e l'imposizione ai seminari dell'insegnamento della Déclaration gallicana del 1682; e ai primi del 1804 veniva pubblicato il codice civile francese, riaffermante la laicità dello Stato, del matrimonio e dello stato civile.Nonostante tutto ciò il C., che il 20 e 21 dic. 1801 aveva ricevuto gli ordini del suddiaconato e diaconato, e Pio VII spinsero le loro speranze di una sempre migliore intesa con la Francia fino all'accettazione dell'incoronazione imperiale di Bonaparte da parte del pontefice (2 dic. 1804), per celebrare la quale il papa lasciò a Roma per sei mesi il C. come vicario papale (cosa affatto nuova nella storia della Chiesa). L'incoronazione fruttò alla S. Sede la sottomissione degli ex vescovi cosfituzionali, una forte ripresa di entusiasmo religioso nelle masse popolari francesi, il ripristino del calendario gregoriano e aumenti delle congrue. Tutti questi avvenimenti rispecchiavano, secondo l'indole eminentemente politica dell'uomo, quella che sarebbe stata la costante strategia politico-ecclesiastica del C.: il rafforzamento del potere e del controllo pontifici sulle Chiese nazionali (e dunque una Chiesa cattolica più unita e disciplinata mercé l'accentramento) attraverso l'accordo con i poteri politici nazionali anche più rappresentativi dei tempi nuovi.
Sarà conseguentemente sul terreno politico e non su quello ecclesiastico-ideologico che si consumerà la rottura tra il C. e Napoleone, e di conseguenza quella tra la S. Sede e la Francia. Già durante la guerra della terza coalizione, allorché i Francesi procedettero all'occupazione di Ancona (novembre 1905), il C. protestò energicamente in nome dell'integrità dello Stato pontificio, identificata con la libertà stessa della Chiesa, e fece scrivere a Pio VII una lettera a Napoleone che rivendicava il diritto della S. Sede alla neutralità e minacciava la rottura delle relazioni diplomatiche con la Francia. Allora l'imperatore inviò allo zio cardinale Fesch, ambasciatore francese a Roma influenzato in senso anticonsalviano da Giovanni Torlonia, un dispaccio che individuava nel C. (dal 6 sett. 1805 anche prefetto della segnatura di Giustizia) l'ispiratore della lettera pontificia e ne consigliava il cedimento ai suoi voleri (Monaco di Baviera, 7 genn. 1806). Ma da una parte e dall'altra l'irrigidimento non fece che accentuarsi, arrivando Napoleone a pretendere l'espulsione dallo Stato pontificio di tutti gli inglesi, russi, svedesi e sardi e la chiusura dei porti alle navi di quelle potenze, e il C. (26 apr. 1806) a ricordare l'alta sovranità pontificia sul Regno di Napoli passato a Giuseppe Bonaparte, per poi dimettersi il 17giugno 1806.
Quanto accadde in seguito fino al 1809 (occupazione francese delle Marche, annessione del residuo territorio pontificio all'Impero francese, arresto e deportazione di Pio VII a Savona, ove resterà fino al gennaio 1812) non fu che conseguenza dell'atteggiamento intransigente inizialmente assunto dal Consalvi. Il 21 nov. 1809 giunse al C. l'ordine di raggiungere gli altri cardinali a Parigi. Essendosi egli rifiutato di ottemperarvi perché l'ordine stesso non era venuto dal papa, il 9 dicembre successivo fu arrestato con il cardinale Di Pietro dai soldati francesi, e inviato d'urgenza in carrozza a Parigi.
Qui il C. si tenne chiuso in casa e rifiutò l'assegno di 30.000 lire che gli altri cardinali (tranne Di Pietro, D. Pignatelli e Saluzzo) avevano accettato (alla vigilia della deportazione l'agente consolare francese a Roma, avvocato Ortoli, lo aveva definito in un dispaccio al ministro degli Esteri francese Champagny "le plus instruit du Sacré-Collège, quoique justement suspect à notre gouvernement": Feret, La France et le Saint-Siège, I, p. 221). Il 26 genn. 1810, a Parigi, nel corso della prima udienza concessagli dall'imperatore, quando questi mostrò dì rimpiangere le sue dimissioni del 1806 come causa di maggiori mali per la Chiesa, per tre volte il C. rispose che se fosse rimasto in carica anch'egli avrebbe fatto il suo dovere senza cedimenti, nulla concedendo al potente interlocutore.
Erano i giorni nei quali Napoleone otteneva dalla Chiesa metropolitana di Parigi, non potendo averlo dal papa, l'annullamento del suo matrimonio con Giuseppina, che gli serviva per poter sposare Maria Luisa d'Austria. Ma il 2 apr. 1810, giorno della cerimonia parigina del matrimonio imperiale, il C., insieme con altri dodici cardinali (Brancadoro, Di Pietro, Gabrielli, Galeffi, Litta, Mattei, Opizzoni, Pignatelli, Ruffo Scilla, Saluzzo, Scotti, Somaglia), rifiutò di presenziare al rito, subendone come gli altri le conseguenze: dispersione ed esilio, in provincia, privazione della porpora (di qui l'appellativo con il quale furono distinti dagli altri, quello di "cardinali neri"). La località prescelta per l'esilio consalviano fu Reims, che il cardinale raggiunse il 13 giugno 1810. L'isolamento a Reims durò quasi tre anni, durante i quali si fece acuto nell'Impero francese il problema dei seggi episcopali rimasti senza titolare (ben ventisette) a causa del rifiuto di Pio VII di concedere l'istituzione canonica.
Per placare il conseguente turbamento delle coscienze, l'imperatore fece convocare un concilio nazionale (1811) che, sollecitato da una fortissima pressione politica, deliberò a maggioranza la concessione al papa di sei mesi di tempo per dare l'istituzione canonica, trascorsi i quali ad essa avrebbe provveduto il metropolita o, in sua mancanza, il vescovo più anziano della provincia ecclesiastica. Colto in un momento di angosciosa disperazione, con breve da Savona del 20 sett. 1811, Pio VII accettò le decisioni del concilio nazionale. Napoleone dal canto suo, non pago di questo risultato, ritornò sulla questione nonostante la disastrosa campagna di Russia, e riuscì a strappare al disorientato pontefice il concordato di Fontainebleau (25 genn. 1813), che recepiva i ricordati articoli del decreto dei concilio nazionale, e concedeva all'imperatore nomine episcopali anche nel Regno di Italia.
Effetto immediato della stipulazione del nuovo concordato fu la liberazione dal confino dei cardinali neri. Il 3 febbr. 1813 il C. raggiunse a Fontainebleau Pio VII, che gli affidò subito l'incarico di condurre le trattative offerte dai Francesi per la ricostituzione del potere temporale in funzione antimurattiana (gli altri cardinali che il papa volle con sé al castello furono Di Pietro, Pacca, Gabrielli, Somaglia, Mattei). Alla luce della decisiva azione dal C. condotta in questa congiuntura, si può ben aggiungere ai segretariati consalviani de iure degli anni 1800-1806 e 1814-1823 un segretariato de facto, che va dal febbraio 1813 al febbraio 1814. Tanta fu l'efficacia persuasiva delle argomentazioni che il C., spalleggiato da Di Pietro e Pacca, rivolse a Pio VII contro la grave capitolazione concordataria, che il pontefice trovò il coraggio di scrivere una lettera di annullamento del concordato di Fontainebleau (24 marzo 1813) a un Napoleone ulteriormente indebolito dalla defezione della Prussia e dalla dichiarazione di guerra di Federico Guglielmo alla Francia, mentre anche Metternich stava prendendo le distanze dall'imperatore, rimasto ormai solo contro Russia e Prussia. Fu il C., "durante l'armistizio stipulato il 4 giugno a Pleisswitz tra la Francia e i suoi nemici in vista del Congresso di Praga, a dettare la lettera all'imperatore d'Austria Francesco I scritta di suo pugno dal pontefice per ricordargli i sensi dell'interessamento recatigli dal Metternich a Savona, per chiedergli la totale restituzione dello Stato pontificio, per precisare che ad essa egli non aveva mai rinunciato... Sarà ancora Consalvi, dopo la battaglia di Lipsia, a riprendere la discussione con la Francia e a trattare con i negoziatori imperiali, la marchesa Anna Brignole, prima, e successivamente, dal 19 dicembre 1813, Fallot de Beaumont vescovo di Piacenza. E saranno Consalvi e Pacca a trasmettere infine a Fallot de Beaumont, il 2 genn. 1814. la definitiva risposta della Santa Sede alle proposte napoleoniche" (Roveri, La Santa Sede, p. 8). Approfittando della ritirata francese da Olanda e Svizzera e dell'approssimarsi di Wellington alla frontiera franco-spagnola (novembre-dicembre 1813), il C., che ha ripreso autorevolezza e piglio da segretario di Stato, fissa e sostiene la linea pontificia: Napoleone ha il dovere di restituire al papa il suo Stato, e non ha alcun diritto di chiedere la riaccettazione del concordato di Fontainebleau. Napoleone allora risponde con un ultimo colpo di coda: fa deportare nuovamente Pio VII a Savona, in compagnia del solo monsignor Bertazzoli, da lui ben visto, e fa esiliare in Linguadoca i due ostinati consiglieri dell'ìntransigenza pontificia: Pacca a Uzès, il C. ancor più lontano, a Béziers. Quest'ultimo, tuttavia, prima della forzata partenza, aveva trovato il modo di dettare nuove, rigidissime istruzioni al Sacro Collegio. Così la S. Sede si sarebbe presentata agli alleati, ormai sicuri vincitori della guerra, con le carte in regola per pretendere da essi la restaurazione dello Stato dopo averla rifiutata quando ad offrirla era stato il loro nemico. Il 10 marzo 184 Napoleone, con la speranza di mettere in difficoltà Murat, ordinò di ricondurre il papa a Roma, e il 15 successivo gli restituì gli Stati romani: provvedimento che fu confermato subito dal nuovo governo (provvisorio) francese (2 aprile).
Partito da Béziers il 20 aprile, ossia un mese dopo la partenza di Pio VII da Savona, il C. cercò di raggiungere il pontefice il più rapidamente possibile. A Rimini, l'8 maggio, il cardinale raggiunse il papa, ma quando questi aveva già affidato a due convinti "zelanti" delicati incarichi di politica ecclesiastica e di politica interna. Tra l'8 e il 10 maggio, il C. ebbe la nomina a segretario di Stato.
I due prescelti erano stati, probabilmente sotto l'influenza "zelante" degli accompagnatori di Pio VII (i monsignori Giuseppe Morozzo e Mauro Carli e l'abate Giuseppe Antonio Sala), rispettivamente monsignor Annibale Della Genga e monsignor Agostino Rivarola. Mentre quest'ultimo era incaricato di ristabilire a Roma il governo papale (ed abolirà subito stato civile, demanio e tutti i codici ed istituti "francesi"), pericolosi guasti, secondo il C., poteva compiere il Della Genga a Parigi, dove, munito di precise istruzioni forse da lui stesso dettate, doveva pretendere l'annullamento del concordato del 1801 e protestare contro la libertà dei culti e della stampa prevista dalla costituzione varata il 6 aprile dal Senato ftancese.
Circa il concordato del 1801, come ha scritto Omodeo (Studi, pp. 397-398), il C. si mostrò risoluto e coerente, perché vide quale fosse il punto essenziale per il consolidamento dei potere pontificio nella chiesa. Bisognava mantener saldo il concordato, e ricavarne tutti i vantaggi possibili. Il concordato, che era apparso l'estrema mortificazione della chiesa, poteva divenire la base della vittoria del papato sulle chiese nazionali autonome e sul tipo di costituzionalismo ecclesiastico entro i limiti dei vecchi canoni che esse rappresentavano... Ma per far ciò bisognava spezzare la solidarietà che stava stringendosi fra gli zelanti della chiesa e gli "ultra" di Francia, i quali parevano il vero modello dei ben pensantì dell'anno 1814... Appena nel maggio del '14 riprese contatto col papa reduce nei suoi stati, e seppe dell'invio di monsignor Della Genga, intuì l'insidia dei suoi avversari di curia: si fece delegare pieni poteri e corse in tutta velocità a Parigi a stornare errori irreparabili". Circa la libertà dei culti e della stampa, confermata nella charte del 4 giugno, il C., il quale si era fatto consegnare istruzioni ufficiali che al riguardo risultavano estremamente generiche, preferì lasciar cadere la questione. Sulla libertà dei culti, anzi, scrisse da Calais il 6 giugno al Pacca (che nel frattempo era divenuto prosegretario di Stato), in termini di sostanziale accettazione dei principio secondo il quale non si poteva pretendere che i cattolici, nei paesi non cattolici, fossero "protetti e trattati egualmente che i protestanti" e contemporaneamente impugnare in Francia la tolleranza per gli altri culti (Roveri, La missione Consalvi, I, pp. 65-66). Sia pure per iniziali ragioni dì opportunità diplomatica, il C., grazie alla sua politica intelligenza degli eventi rivoluzionari che avevano scosso Francia ed Europa, perveniva in tal modo ad una concezione più moderna del rapporto tra la S. Sede e gli Stati: "la Rivoluzione, scriveva più tardi da Vienna, bisogna persuaderselo, ha fatto nel mondo morale quello che il diluvio fece nel mondo fisico" (Roveri-FaticaCantù, La missione Consalvi, III, p. 24).
Continuando la sua missione, il C. giunse il 10 giugno a Londra per chiedere ai sovrani la restituzione delle Legazioni, come aveva fatto incontrando a Parigi Luigi XVIII. L'Inghilterra era in quel momento, a causa dei suo regime liberale (con esclusione dei cattolici dal Parlamento), della questione irlandese, dell'ampia libertà di stampa e dell'assenza di relazioni diplomatiche con la S. Sede, il paese ideologicamente e politicamente più lontano da Roma. Nonostante ciò, il C. ne fu assai favorevolmente impressionato, e mostrò nei suoi dispacci molta ammirazione per il fatto che l'Inghilterra, contro il proprio interesse economico, avesse abolito in tutti i suoi domini la tratta dei negri, e che il governo inglese chiedesse l'appoggio del pontefice alla sua proposta di abolizione generale di tale conunercio. Ma invano il C. perorò questa causa presso la Congregazione per gli Affari Ecclesiastici straordinari: questa respinse la proposta consalviana di invio di tre brevi a Francia, Spagna e Portogallo. Allo stesso modo e per le stesse ragioni non riuscì al C. il tentativo di conseguire l'emancipazione dei cattolici britannici, normali relazioni diplomatiche con l'Inghilterra e la stipulazione di un concordato: tutte cose che avrebbero richiesto un rapido sfruttamento dell'entusiasmo ancor fresco di ricordi della nazione inglese per la resistenza antinapoleonica di Pio VII. Le intenzioni del C. riguardo all'Inghilterra risultano chiarissime nel dispaccio da lui inviato al Pacca il 25 luglio 1814, nel quale egli appare orientato verso l'accettazione delle condizioni richieste dal governo inglese per la concessione dell'emancipazione ai cattolici inglesi, ed entusiasta della prospettiva della partecipazione di un partito cattolico al dibattito politico e all'attività legislativa in Inghilterra.
La mancata soluzione delle questioni territoriali romane (le Marche erano state occupate da Murat, forte di un trattato con l'Austria, che a sua volta aveva occupato le Legazioni) e il loro confluire tra le questioni di pertinenza dei congresso di Vienna costrinsero il C. a parteciparvi come plenipotenziario pontificio, con una assenza da Roma che si protrasse molto più a lungo del previsto.
Nella sua multiforme azione a Vienna, dove nei partecipanti al congresso regnava la preoccupazione di non ridestare, con eccessi rigoristici, lo spirito rivoluzionario, il C. fu notevolmente danneggiato dal prevalere, a Roma, degli indirizzi oltranzisti degli zelanti (immediata restaurazione della Compagnia di Gesù; violento editto contro i massoni; amnistia priva di generosità; durezza inaudita contro i vescovi "napoleonici", che faceva il giuoco dei non dimissionari del 1901 e dei reazionari francesi; eccessiva tolleranza verso il nunzio a Madrid, che appoggiava le forsennate repressioni di Ferdinando VII; ripristino di tutti i conventi e parziale restituzione di beni nazionali; repressione antiebraica, ecc.): i dispacci viennesi del C. sono pieni di lagnanze al riguardo. Benché praticamente solo contro tanto zelo reazionario, il segretario di Stato, forte soltanto della sua carica e della sua inamovibilità, riuscì ad ottenere ugualmente la restituzione, con la sola eccezione del Ferrarese transpadano, dei territori italiani dello Stato pontificio, e a far fallire le trattative romane con la Francia per l'annullamento del concordato del 1801.
Di quest'ultimo successo ebbe ben presto il presentimento l'ambasciatore straordinario francese a Roma Gabriel Cortois de Pressigny, che, riferendosi al C., scrisse irritato al ministro degli Esteri Talleyrand il 3 ott. 1814: "un homme d'une naissance médiocre, tour à tour protecteur et protégé de Bonaparte, tient en échec, pendant trois mois, aux yeux de toute la ville de Rome, un prélat nommé par le Roi" (Feret, La Frame et le Saint-Siège, II, p. 17).
Non riuscì invece al C. la stipulazione di un concordato pantedesco, anche qui a causa soprattutto delle esagerate pretese della Curia romana. Le trattative concordatarie con la Francia continuarono negli anni successivi, registrando nel 1816 la capitolazione del Talleyrand-Périgord e di altri non dimissionari del 1801, e l'11 giugno 1817 la sottoscrizione di un nuovo concordato, il cui testo però, giudicato troppo lesivo della tradizione gallicana, non ottenne in Francia la ratifica parlamentare. Risultato finale di tanto negoziare fu dunque che il concordato del 1801 restò in vigore fino al 1905. Fu questa, nel quadro della lotta politica che il C. dovette condurre ininterrottamente contro gli zelanti, la più completa vittoria del segretario di Stato, tanto più significativa se si tiene conto dei cedimenti pontifici rappresentati dal breve di Savona e dal concordato di Fontainebleau.
Benché favorevole, come si è visto, all'accettazione e all'utilizzazione, da parte di un partito cattolico, di istituzioni liberali anche di un paese non cattolico (l'Inghilterra), il C. non fu certo un fautore del costituzionalismo liberale, che giudicò ripetutamente incompatibile con la natura peculiare dello Stato pontificio. Il modello al quale si ispirò dopo il congresso di Vienna nella sua opera di risanamento e rafforzamento dello Stato pontificio fu, piuttosto, l'illuminato dispotismo napoleonico, che era anche il più idoneo al fille, dal C. tenacemente perseguito, di eliminare o quanto meno attenuare al massimo l'eterogeneità delle innumerevoli situazioni amministrative e giudiziarie locali attraverso un processo di razionalizzazione e di accentramento. Si trattava, in sostanza, di una ripresa e di uno sviluppo della strategia di governo già avviata nel 1800, il che significò una ripresa del contrasto con i misoneisti di Curia e con gli zelanti, oltre che con i gruppi sociali privilegiati.
Al centro del contrasto, inizialmente, venne a trovarsi, come nei primi anni del secolo, la questione dell'impiego di un funzionario di prim'ordine, ma che si era "compromesso" con i Francesi: Vincenzo Bartolucci, che aveva aderito nel 1798 alla Repubblica romana, e poi nel 1809, nella Roma napoleonica, era stato nominato primo presidente della Corte di appello, accattivandosi a tal punto la fiducia di Napoleone da esserne nominato barone e da divenire consigliere di Stato a Parigi (1811). Fu questa una delle pochissime vittorie del C. sui suoi avversari: egli riuscì a convincere Pio VII a riammettere Bartolucci nella Reverenda Camera apostolica come avvocato della medesima, con l'intenzione di fare di lui il protagonista della riorganizzazione amministrativa dello Stato e della grande impresa dei codici sul modello francese. Questa ultima questione si risolse però in una cocente sconfitta del C., che riuscì a varare soltanto il codice di procedura civile (1817: vi era tra l'altro soppresso l'antico privilegio della libera scelta del giudice per una delle parti in causa) e il codice provvisorio di commercio, completo di procedura, che estendeva a tutto il territorio statale le norme commerciali francesi lasciate in vigore fin dal 1815 nelle province restituite al papa dal congresso di Vienna, che più a lungo avevano subito la dominazione francese. Gli zelanti non riuscirono ad impedire la partecipazione del Bartolucci alla commissione incaricata di predisporre il testo del codice penale né la sua nomina a presidente della commissione costituita per la redazione del codice civile, ma si presero una ben ripagante rivincita in sede di approvazione sovrana dei due codici: la nuova legislazione rimase sulla carta, e diritti costituiti e privilegi di prelati e di vescovi prevalsero sull'interesse pubblico. Mai rassegnato, ancora nel giugno 1821 il C. scriveva al nunzio a Vienna comunicandogli la notizia del compimento della redazione del testo del codice penale e preannunziandogli di lì a qualche mese la pubblicazione del codice civile: tutte cose solennemente promesse anche dal motu proprio (consalviano e bartolucciano) del 6 luglio 1816, ma non realizzate, e ancora invocate dal Memorandum delle potenze europee scaturito dalla rivoluzione del 1831.
Del resto, anche quella per la promulgazione del motuproprio del 1816 era stata una dura battaglia politica, nel corso della quale a un certo punto il C., scoraggiato dalle resistenze incontrate, meditò di rassegnare le dimissioni, rinunciando a tale proposito solo in virtù della fiducia riconfermatagli da Pio VII. In realtà quel motuproprio, per la suddivisione dello Stato in diciotto delegazioni, quarantaquattro distretti e seicentoventisei comuni, per la guerra che moveva a fedecommessi, leggi municipali, privilegi nobiliari, diritti di regalia, di pesca e caccia, per il sistema finanziario e per quello ipotecario, oltre che per il bollo e il registro, era chiaramente ispirato alla legislazione francese, e provocò un profondo e diffuso malcontento negli ambienti reazionari e presso la nobiltà, talché corse voce di una sollevazione anticonsalviana diretta dal Della Genga e mirante a una sostituzione del C. con il cardinale Arezzo. Da ogni parte (Urbino, Bologna, Fano, Macerata, Ferrara, Ancona, Imola) piovvero sul C. accuse di prepotenza, di bonapartismo e addirittura di giacobinismo, mentre, benché momentaneamente tranquillizzati dalla convalida o difesa consalviane delle vendite, gli acquirenti borghesi dì beni nazionali non si sentirono garantiti per il futuro da uno Stato come quello pontificio, e non esercitarono alcuna azione di contrappeso politico in favore dell'azione di governo consalviana. Questa così si trovò di fronte la potente opposizione del vertice (Sacro Collegio) e delle ali estreme dell'opinione politica (settari e reazionari), senza poter contare su uno spirito pubblico favorevole nel paese e su uno schieramento fedele nelle strutture amministrative centrali e periferiche: il C., per esempip, airrebbe desiderato avere a Roma anche un funzionario del valore di Antonio Aldini, ma dovette rinunciare a tale collaborazione.
Governare contro lo spirito pubblico e contro "i grandi": questa fu la difficilissima condizione nella quale si svolse l'ultimo segretariato del Consalvi. Allo stato attuale della documentazione è pressoché impossibile valutare la fondatezza, che tuttavia appare alquanto dubbia, del giudizio di vari contemporanei e posteri, secondo i quali il C. non avrebbe "saputo" uscire dal suo isolamento. In assenza di una moderna e valida biografia del C., gioverà osservare a questo proposito che, per le ragioni accennate una adeguata ricostruzione critica dell'ultimo segretariato consalviano non potrebbe limitarsi alla valutazione degli atti di governo (editti, notificazioni, ecc.), ma dovrebbe tenere conto (utilizzando i carteggi con legati, delegati, nunzi, prelati, ecc.) anche dei numeriosissimi interventi "occasionali" del segretario di Stato.
Soltanto in tal modo diverrebbe possibile misurare l'immane fatica sostenuta dal C., anche a causa del l'accentramento da lui voluto, per ovviare all'assenza di un "partito" consalviano. Così, per esempio, potrà essere meglio precisato il rapporto tra il C. e il clero che era generalmente a lui ostile a causa dell'immissione di molti laici nelle amministrazioni e della soppressione della sbirraglia dipendente dai vescovi. Così, ancora, potrà essere approfondita la questione dell'atteggiamento dei C. verso i settari, che allo stato attuale delle conoscenze appare caratterizzato, oltre che da una costante moderazione e dalla preoccupazione dell'intervento austriaco (come nel 1821), dall'invio di istruzioni costantemente richiamantisi al dovere di procedere sulla esclusiva base di prove accertate, e non già di generici indizi né di presunte intenzioni sovversive. E, ancora, potrà essere arricchitala conoscenza della politica economica consalviana e, soprattutto, delle idee del C. in campo economico: un terreno sul quale egli forse si mosse più con buon senso empirico che non con rigoroso riferimento ad una preparazione teorica specifica, sì che maggiore appare in questo settore la dipendenza dei C. dai tecnici e dai funzionari (per esempio, da Nicola Maria Nicolai, segretario della Congregazione economica, fautore dell'intervento indiretto dello Stato in campo economico, fiero avversario dei monopolisti incettatori e difensore strenuo degli interessi elementari dei ceti più poveri ed inermi della società; va però detto che, con il Bartolucci, Nicolai era il più consalviano dei funzionari).
Rispetto a quella del primo, la politica economica dell'ultimo segretariato consalviano non presenta novità "rivoluzionarie", ed ebbe come connotato di fondo, temperato da considerazioni di socialità e da un moderato protezionismo industriale, quello che il Colapietra ha definito l'"ottimismo liberistico" del C. (La politica economica, p. LXXIII). Venne sostanzialmente mantenuto per le granaglie, con qualche correttivo, il sistema tariffario creato dal motuproprio del 4 nov. 1801, il quale stabiliva dazi d'esportazione proporzionalmente crescenti rispetto ai prezzi, da un minimo al di sotto del quale l'esportazione era premiata, a un massimo al di sopra del quale essa era vietata. Furono abolite le amministrazioni doganali privilegiate di Bologna e di Ferrara, che invano il tesoriere generale di Pio, VI, Fabrizio Ruffo, aveva tentato di smantellare. Con motuproprio del 3 marzo 1819 fu annunziata la compilazione di un nuovo catasto generale, "il cui imponibile doveva risultare dalla parallela valutazione della produzione media e della fertilità naturale e che fu pertanto ancora una volta più favorevole agli attivi ceti borghesi che alle ristagnanti proprietà nobiliari ed ecclesiastiche" (Paci, L'ascesa della borghesia, pp. 143 s.).
In materia concordataria le principali realizzazioni del C. furono i concordati con la Baviera (5 giugno 1817) e con il Regno delle Due Sicilie (16 febbr. 1818): con il primo i seminari diocesani ricevevano una cospicua dotazione in beni fondi inalienabili, ma gli ecclesiastici erano obbligati a giurare al re fedeltà e rivelazione di trame sovversive eventualmente giunte a loro conoscenza; con il secondo la S. Sede ricuperava l'affidamento dell'istruzione al clero e molte delle posizioni perdute nel Settecento.
Di fronte all'egemonia austriaca sull'Italia, il C. tenne sempre un atteggiamento di dignitosa indipendenza, facendo ritirare dal congresso di Lubiana il plenipotenziario pontificio (mentre i rappresentanti di tutti gli altri Stati italiani vi restarono e non si opposero al progetto di intervento austriaco contro la rivoluzione napoletana), e ordinando al medesimo, nel congresso di Verona, di respirigere le proposte austro-modenesi tese a dar vita ad una lega degli Stati italiani ("l'Austria sola sarebbe quella che regolerebbe i destini dell'Italia": Petrocchi, La Restaurazione romana, p. 228) e ad istituire un solo ministro di polizia per tutta l'Italia, con sede a Verona (sostenendo che per il papa "unico mezzo efficace per giungere ad estirpare le sette devo somministrarlo la Religione ed il miglioramento della morale pubblica": ibid., p. 230).
Dopo la morte di Pio VII (20 ag. 1823) gli zelanti, che erano in maggioranza italiani, ebbero la prevalenza nel conclave e, sconfitto il consalviano Castiglioni, elessero pontefice il cardinale Della Genga, che assunse il nome di Leone XII, e sostituì subito il C. alla segreteria di Stato con il vecchio conservatore cardinale della Somaglia, nominando successivamente il segretario destituito prefetto di Propaganda.
Il C. mori ad Anzio (Roma) il 24 genn. 1824; fu ed è sepolto nella chiesa romana di S. Marcello.
La politica interna reazionaria di Leone XII e di Gregorio XVI creeranno il mito di un Pio VII e di un C. liberaleggianti, del quale si nutrirà gran parte del neoguelfismo.
Fonti e Bibl.: Manca una biografia completa sul Consalvi. È perciò necessario fare ricorso alle numerose fonti inedite ed edite e a una copiosa bibliografia, di cui diamo le indicazioni principali. Le carte private del C. sono in parte conservate presso l'Arch. della Congregazione de Propaganda Fide e in parte nell'Arch. Segr. Vaticano. Si vedano, inoltre, per la sua attività pubblica: Arch. di Stato di Roma, Arch. della Congregazione del Buon Governo, s. I, Appendice, busta 86; s. VII a, busta 16; s. XIII, vacchette 213-217, 509, 710, 711, registri 481-492; Arch. Segr. Vaticano, Bologna, 397-402. Per il periodo della Rivoluz. francese: Arch. Segr. Vaticano, Emigrati Rivoluzionefrancese, 34-50. Per la Segreteria di Stato 1800-1806 e i rapporti con la Francia- Arch. Segr. Vat., Arch. Nunziatura Francia, 583, 584, 586-593, 596-607 (la restante parte dei carteggio C.-Caprara è nelle Archives nationales di Parigi, serie F 19, nn. 1915-1918, 1923; le lettere del C. a Fesch del 9 luglio 1803-18 maggio 1806 sono conservate nelle Archives départementales du Rhône di Lione, serie 1 F, 23-30. 33-39). Per i rapporti con le altre nunziature relativi al medesimo periodo, si vedano in Arch. Segr. Vaticano, Arch. Nunz. Firenze, 147-150; Arch. Nunz. Vienna, 202 B, 202 C, 203, 228-230, 702-705; Arch. Nunz. Spagna, 201-203, 306-312, 417. 418; Arch. Nunz. Portogallo, 134-140; Arch. Nunz. Firenze, 183-188, 252/I, 252/II, 244/I, 244/II, 244/III, 245-247; Arch. Nunz. Napoli, 318 A, 318 B, 318 C, 318 D, 318 E, 385 F, 398, 398 B, 398 C; Arch. Nunz. Germania, 685 A, 695, 699, 701, 702, 703/I, 704-707, 776, 779, 780; Arch. Nunz. Lucerna, 230, 388-390, 395, 396; Arch. Nunz. Baviera, 49; Carte relative a Venezia, 360. Per gli affari interni relativi al medesimo periodo si vedano: Arch. di Stato di Roma, Arch. del Buon Governo, s. I, Appendice, busta 86; s. VII a, busta 16; Arch. Segr. Vaticano. Segreteria di Stato, Miscellanea, arm. IV-V, 193-198; arm. XV, 8. Per la Segreteria di Stato 1814-1823: Archivio Segreto Vaticano, Segret. di Stato, Interni:per il 1814, rubriche 1-233; per il 1815, rubriche 1-230; per il periodo 1916-1819, fascicoli rilegati; per il 1820, rubriche 1-233; per il 1821, rubriche 1-232; per il 1822, rubriche 1-231; per il 1823, rubriche 1-227. Altri affari interni in Arch. Segreto Vaticano, Congregazione Economica, pacchi 17, 25, 87; Segret. di Stato, Interni-Esteri 1816-1822, rubriche 1-300; Arch. di Stato di Roma, Congreg. economica istituita da Pio VII, buste 57-86; Arch. dei Buon Governo, s. I, Appendice, busta 44 (editti); s. V, vol. 292 (direttive alle autorità periferiche); s. VII a, busta 16 (editti); s. VII c, busta 162 (editti e lettere); s. X, busta 3 (carteggi su strade e vetture). Per il congresso di Vienna: Arch. Segr. Vaticano, Segret. di Stato, Esteri, rubr. 241, busta 382, fasc. 9; rubr. 242, busta 385, fasc. 1-4, 6; rubr. 242, busta 386, fasc. 2, 4-10; rubr. 242, busta 380; rubr. 242, busta 389, fasc. 1-2; rubr. 242, busta 390, fasc. 1-2; rubr. 247, busta 398, fasc. 3; rubr. 249, busta 414, fasc. 1. Per i rapporti con le nunziature relativi al periodo 1814-1823, si vedano in Arch. Segr. Vaticano, Arch. Nunz. Parigi, Nunziatura di V. Macchi, 1-5; e Segreteria di Stato, Esteri, rubr. 248; Arch. Nunz. Vienna, 233, 240-252; e Segreteria di Stato, Esteri, rubr. 247; Arch. Nunz. Firenze. 193-213; e Segreteria di Stato, Esteri, rubr. 253; Arch. Nunz. Lucerna, 231; e Segreteria di Stato, Esteri, rubr. 254; Arch. Nunz. Madrid, 261; e Segreteria di Stato, Esteri, rubr. 249; Arch, Nunz. Napoli, 398, 399; e Segreteria di Stato, Esteri, rubr. 252; inoltre: Segret. di Stato, Esteri, rubr. 250; Segr. di Stato, Esteri, rubr. 251; Segreteria di Stato, Esteri, rubr. 255; Segreteria di Stato, rubr. 257. Per i rapporti con la Francia si vedano anche, a Parigi, le Archives du Ministère des Affaires Etrangères, Rome 946. Si veda inoltre, B. Pacca, Mem. stor. del ministero, de' due viaggi in Francia e della prigionia nel forte di S. Carlo in Fenestrelle, Pesaro 1830, I, pp. 58 s., 182 s. e passim; II, pp. 57, 65-67, 76, 90 e passim; Mém. du cardinal Consalvi, con un'introduzione e note di J. Crétineau-Joly, I-II, Paris 1864; A. Ferraioli, Lettoreined. di A. Canova al cardinale E. C., Roma 1888; Boulay de la Meurthe, Documents sur la négotation du Concordat et sur les autres rapports de la France avec le Saint-Siége en 1800 et 1801, I-VI, Paris 1891-1905, passim; Mém. du cardinal Consalvi. Mém. inédit sur le Concile national de 1811, a cura di A. 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