ERCOLE II d'Este
Primogenito del duca Alfonso I e della sua seconda moglie Lucrezia Borgia, nacque a Ferrara il 4 apr. 1508, riempiendo di gioia il padre con la sicurezza dell'erede maschio e ridando fiducia alla madre che - segnata dalla negativa esperienza delle precedenti gravidanze o non portate a termine o funestate dalla mancata sopravvivenza del neonato - aveva vissuto con angoscia tutto il periodo della gestazione.
Tutta Ferrara tripudiò con un'esultanza sin sfrenata al punto che - ad evitare venissero adoperati per inconsulti falò - si ritenne opportuno depositare in "locho securo" atti pubblici e privati. Erede a lungo sospirato, E., già il suo nome, lo stesso del nonno paterno, suonava impegnativo; e successivamente Leone X, suo padrino di cresima, gli donò - con evidente utilizzo cristiano d'un'allegoria già pagana - una medaglia rappresentante Ercole nell'atto di sconfiggere l'idra. Ciò non toglie che il padre - un po' per risarcimento, tramite il figlio, del personale imbarazzo di sapersi culturalmente sprovveduto e soprattutto nella convinzione che il coraggio individuale e la valentia militare, che a lui non avevano fatto certo difetto, fossero insufficienti a fronteggiare le insidie d'una situazione nella quale il Ducato estense era, in ogni caso, sul piano della forza ricattabile e sin revocabile volesse per E. un'accuratissima formazione culturale. Proprio le personali traversie insegnavano ad Alfonso I che i confronti violenti vanno il più possibile schivati e sostituiti con le pazienti tessiture della contrattazione e dell'accordo. Donde, da parte sua, il consapevole privilegiamento - nell'educazione di E. - delle "buone lettere", nella fiducia da queste sortisse quell'affinata prudenza, ben più valida al mantenimento d'uno Stato strutturalmente impossibilitato ad imporsi militarmente di erculee esibizioni di forza.
Sicché, in vista del futuro principe prudente, si plasmò intanto culturalmente E. fanciullo che, affidato alle cure dell'umanista Niccolò Lazzarino, cognato di Trissino, s'impadronì precocemente del latino: appena decenne, infatti, era in grado di offrire pubblico saggio della sua preparazione leggendo, alla presenza dei cortigiani, e traducendo ad apertura di pagina Virgilio, sfoggiando capacità d'analisi logica e grammaticale, recitando un brano di Cesare e dettando, in latino, una lettera di risposta ad una missiva paterna. Anche se l'addestramento fisico non fu trascurato - E. sapeva cavalcare, tirare di scherma, correre la lancia, battersi con lo stocco -, furono la compostezza del tratto e il forbito eloquio a connotare il giovinetto, che dimostrava inoltre un sicuro intendimento in fatto di arte ed una certa inclinazione per la musica, apprendendo, sotto la guida di Francesco Dalla Viola, a suonare discretamente il flauto.
Prima incombenza di spicco di E. l'andata a Roma, del settembre 1522, a rendere omaggio, per conto del padre (pel quale la scomparsa, del dicembre 1521, di Leone X era stata una vera fortuna), ad Adriano VI, pronunciando - di fronte a questo - una tornita orazione in latino, ove non mancava un'esplicita richiesta di restituzione di Modena e Reggio. Rientrato a Ferrara il 31 ottobre, E., nel dicembre del 1523, era ancora a Roma per riverire - sempre a nome del padre - il nuovo pontefice Clemente VII. Laddove il Ducato era vieppiù costretto a destreggiarsi tra Papato, Impero, Francia e Serenissima, la diplomazia giocava un ruolo primario e le stesse parole di circostanza affidate ad E. non furono prive d'importanza e, pure, di risonanza. Ed è, allora, significativo che l'Aretino gli riconoscesse, nel 1524, "favella" e "arte oratoria". E da tempo si faceva credito ad E. d'un senno di gran lunga eccedente l'età, al punto che Alfonso I - il quale, durante il periodo di sede vacante, aveva riconquistato Reggio e Rubiera - aveva pensato, in un primo tempo, d'affidargli l'incarico di negoziare la pace, preferendo, peraltro, valersi poi, nel gennaio-marzo del 1524, a tal proposito degli ambasciatori straordinari Ludovico Cato, Matteo Casella e Antonio Costabili.
Sufficientemente gratificato, pel momento, il giovinetto dalla fama di dotto ad arte alimentata, non senza eccessi di piaggeria, dall'ambiente di corte: Ariosto l'elogiava pel suo poetare in latino ed italiano; per Celio Calcagnini, che aveva già trovato eccezionali le lettere da lui scritte, nel 1518, allo zio card. Ippolito allora in Ungheria, sarebbe stata splendida una sua lirica a conforto d'una fanciulla singhiozzante disperata per la morte d'un passero. Tuttavia, di quest'indulgere, specie componendo epigrammi latini, al verseggiare di E. attestato dai contemporanei non resta traccia, forse - si può ipotizzare - perché ritenuto poco confacente ad un futuro duca e, anche, si può aggiungere, perché lo stesso E., lungi dal prendere sul serio gli elogi cortigiani, ritenne trascurabili e, tutto sommato, dimenticabili le sue letterarie dilettazioni. A giudizio, poi, dell'erudizione locale, la mancata conservazione e lo smarrimento degli scritti di E. sarebbero soprattutto dovuti ad un suo eccesso di modestia, ad un'ipercritica ritrosia.
Di maggior conto il coinvolgimento di E. nei rischi della guerra, nella quale, per volontà paterna, militò adolescente: il 29 genn. 1525 figurava tra i "pregioni di gran momento" arresisi "a discretione" agli Imperiali quando questi conquistarono "castel Santo Angelo" presso Pavia. Ma ben presto tornò libero a pagamento se, di lì a poco, corse voce dovesse unirsi "con le sue gente" alla truppa agli ordini di Gian Ludovico Pallavicino. Ed il 5 febbraio giunse da Mantova avviso a Venezia che E., insieme con Nicolò Varola, con 4.000 "fanti", 100 "huomini darme" e 200 cavalleggeri, passato il Po a Brescello, aveva preso Casalmaggiore, saccheggiandovi "molte case di quelli che erano ducheschi" e, quindi, restituendola ad Antonia Gonzaga di Bozzolo, sorella di Federico e moglie d'Alfonso Visconti.
Ma ancor più di rilievo - in termini d'incidenza - rispetto al breve esordio militare di E. - il quale, inoltre, sempre nel 1525, era, tra la fine di settembre e la fine di novembre, a capo del "governo" di Ferrara essendo il padre assente - la questione del suo accasamento, da un lato condizionata dalle contingenze cui era sottoposto il fragile Ducato, dall'altro utilizzata quale strumento per rafforzarlo politicamente. Affiorarono, nel 1526, e subito rientrarono possibili nozze con Margherita d'Austria, figlia naturale di Carlo V, e con Caterina de' Medici, figlia del duca d'Urbino Lorenzo. Più proficue - nella valutazione d'Alfonso I - quelle con Renata di Francia, la figlia di Luigi XII e di Anna di Bretagna nonché cognata di Francesco I, sposo a sua sorella Claudia. Impegno contemplato nell'accordo francoestense del 15 nov. 1527, il matrimonio - che Alfonso volle celebrato al più presto - esprimeva il suo gravitare sulla Francia e nel contempo varrà anche per E., a prescindere persino dalle sue effettive mosse, la qualifica, fatta propria soprattutto dalla diplomazia veneziana, "di parte francese".
Lasciata, il 3 apr. 1528, Ferrara con un imponente seguito di quasi 200 persone, tra le quali si distingueva il celebre medico Antonio (Musa) Brasavola al servizio di E. dal 1521, passando via via per la Spezia, Genova, Chambéry, Lione, E., il 20 maggio, era a Parigi, donde si portò, il 22, a "San Germano" presso la corte. Qui, il 23, incontrò "madama Renea", la quale "non è bella" (inattendibile il generico "bella dama" che qualifica, evidentemente senza cognizione diretta, Renata in coeve fonti veneziane) come si premurava di scrivere, lo stesso giorno, E. al padre.
Se si pensa che Francesco Maria Della Rovere la definirà "un mostro", che Ariosto, pur dicendola adorna d'"ogni virtù", non oserà far cenno alla "beltà", invece pregio indiscusso di Lucrezia Borgia, la madre, scomparsa ancora nel 1519, di E., questi - nel riscontrare la non avvenenza della promessa sposa - s'esprimeva sin riguardosamente, certo eufemisticamente. Decisamente brutta, in effetti, Renata; una mancanza d'attrattive che, si augurava E., "se compenserà con le altre bone conditioni", con ciò alludendo alla convenienza politica ed agli eventuali vantaggi pecuniari. Già preliminarmente il giovane sa che l'amore è un'altra cosa, che non attiene alla sfera del matrimonio per lui predisposto; e, di fatto, la dimensione del coinvolgimento affettivo e del desiderio sarà, invece, propria della sua relazione con la gentildonna ferrarese Diana Trotti, questa sì realmente bella e seducente, dalla quale avrà due figli, Cesare (questi sarà chiamato Trotti e godrà d'un appannaggio concessogli dal duca Alfonso II, figlio di E.) e Lucrezia (la quale nel 1538 entrerà nel monastero ferrarese del Corpus Domini, per rimanervi sino alla morte, nel 28 nov. 1572, in odor di santità, figurando col titolo di beata nel martirologio francescano ove, appunto, vien detta "virtute illustrissima ac sanctitate insignis").
Freddamente, dunque, E. s'accingeva ad un matrimonio valutato quale operazione politica, che però - sotto il profilo finanziario - si rivelò ben presto poco garantita. Improbabile, E. lo capì subito, il re di Francia potesse e volesse tener fede al pattuito. Anziché disporsi a cospicui versamenti, Francesco I, non senza disappunto di E., avanzò richieste di prestito per le spese belliche cui era costretto. Comunque le nozze si celebrarono, il 28 giugno, a Parigi, nella Sainte-Chapelle e le benedì il nunzio pontificio card. Giovanni Salviati, in cuor suo ostilissimo al loro significato politico.
Le esaltarono un epitalamio di Clément Marot e le musiche composte per l'occasione da Alfonso Dalla Viola. Sontuosamente celebrato, dunque, il matrimonio (e, stando a una lettera giunta da Parigi a Venezia, persino con trasporto dei due sposi, i quali "è da pensar... non vedano l'hora d'andarne" a "lo leto"; si tratta d'un'ipotesi dalla quale deriva la notizia successiva a dir della quale s'apprende, nell'agosto, a Venezia che Renata sarebbe "graveda"), però senza una definizione precisa della questione della dote. Questa, essendo Renata una della filles de France, non doveva, in ogni caso, ridursi a cifra esigua, ma rimanere consistente e adeguata al prestigio regale della sposa. Irritante per E. la riluttanza di Francesco I ad impegnarsi, al punto che si trattenne a stento dal dirgli d'aver chiesto in moglie Renata "non per cupidità del denaro et che mi contento di quel che piace a Sua Maestà". E forse evitò d'essere così offensivo col re più che pel timore di ferirlo, perché in realtà non voleva questi ne approfittasse prendendo alla lettera la sua fiera proclamazione di disinteresse. Fatto sta che Francesco I non disponeva di liquidi, non era in grado di corrispondere ad E. una somma che avrebbe dovuto aggirarsi sui 250.000 scudi. Ed ecco che E., in compenso, diventa duca di Chartres, conte di Gisors, signore di Montargis, calcolando la relativa rendita annua in 12.000 scudi, il cui effettivo versamento si rivelerà in seguito - come E. non mancava di paventare - tutt'altro che puntuale e regolare.
Ritardata la partenza e dal protrarsi dei preparativi e dalle scoraggianti notizie sull'infierire dell'epidemia a Ferrara nonché dall'ostinazione di E. nell'ottenere un minimo d'impegno in fatto di dote, occorse attendere il 21 settembre perché prendesse congedo da Francesco I. Dopo di che, finalmente, la coppia principesca si mise in viaggio con il grandioso seguito di almeno 500 persone, sicché il ritorno di E. si svolse ancor più "pomposamente" che l'andata.
A Nevers il 28 settembre, a Lione il 7 ottobre, a Saint-Jeanne de Maurienne il 19, a Susa il 25, ad Alessandria il 31, il 2 novembre la comitiva giunse a Pavia, ospitata dal duca di Milano Francesco Maria II Sforza. E fu qui che il duca d'Urbino inorridì alla vista della sposa. Precedendo la consorte, E. - per Pizzighettone, Lodi, Cremona - si spostò a Modena, ove, peraltro, fece il suo ingresso ufficiale insediandosi nel castello, con la sposa, accolto dal "fiore" della nobiltà locale, il 12. E a Modena si celebrarono, nel duomo, con fasto, nuovamente, il 17, le nozze, ché Alfonso I volle in tal modo ribadire i propri diritti sulla città di contro alle contestazioni pontificie. Dopo una frastornante serie di continuati festeggiamenti, il 29 la coppia lasciò Modena - non senza che la città, costretta a placare l'appetito di circa 3.000 persone convenute per festeggiare la coppia tirasse un sospiro di sollievo, ché nel frattempo i poveri andavano gridando "io moro de fame" - per raggiungere l'indomani il Belvedere, l'isoletta sul Po divenuta principesco luogo di ritiro d'Alfonso I. Seguì, il 1º dicembre, l'ingresso in una Ferrara risuonante di fragori festosi d'artiglieria e tutta pavesata, tra riverenze di gentiluomini e gentildonne ed applausi di popolo. Senza tregua, nei giorni successivi, le feste e gli intrattenimenti, rispetto ai quali la splendida imbandigione offerta, il 24 genn. 1529, dallo stesso E. s'impose come momento conclusivo e culminante insieme. Episodio memorando tra i fasti della più profusa scienza gastronomica - che ebbe il suo vertice nella Ferrara estense con il magistero dello scalco Cristoforo di Messisburo, i cui Banchetti... saranno pubblicati postumi a Ferrara nel 1549, per volontà di E. allora duca, in un volume in 40 con cinque incisioni attribuibili alla scuola di Dossi - la cena; né il suo ricordo va solo legato al succedersi incalzante delle portate. La precedette la rappresentazione - la prima nella redazione in versi - della Cassaria ariostesca, nella quale fu il fratello di E. Francesco a recitare il prologo; una manifestazone questa, tra le tante, della propensione teatrale degli Estensi, che trova riscontro anche in E., il quale si compiacerà - una volta duca - di far recitare la sua primogenita, nel 1539, nell'Andria e, successivamente, nel 1543, tutti i suoi cinque figli negli Adelfi. Celebre, altresì, il banchetto voluto da E., per le musiche scritte espressamente da Alfonso Dalla Viola eseguite - tra un servizio e l'altro -, essendo cantante madonna Dalida, da un'orchestra costituita da "cinque viole da arco, uno sgravacembalo da due registri, uno liuto et uno flauto grosso et uno mediano". E, ad allietare l'intermezzo tra il quinto ed il sesto servizio, - s'adoperarono Ruzante e "cinque compagni et due femmine", cantando "canzoni et madrigali alla pavana bellissimi" ed aggirandosi "intorno alla tavola" tra i commensali contendendo "insieme di cose contadinesche".
Pubblica cerimonia amplificata da accentuati ingredienti spettacolari il banchetto col quale E., pel momento duca di Chartres, anticipava con forza la sua futura autorità, in vista della quale si proponeva come anfitrione e come mecenate nella "sala grande di corte", addobbata con magnifiche cortine ricamate, alla presenza d'oltre cento persone, tra le quali, oltre ai suoi familiari e alla moglie, erano alti prelati, la zia Isabella Gonzaga, personaggi d'elevato lignaggio, gli ambasciatori di Francia e di Venezia, nonché la miglior nobiltà locale. Niente di splendido, invece, nel comportamento di E. - peraltro da addebitarsi più al padre che a lui - nei confronti della Repubblica fiorentina, i cui "signori" - così Antonio Surian, inviato veneto a Firenze, il 1º sett. 1528 - avevano iniziato, ancora quand'era in Francia, le trattative per "tuor" E. quale "loro capitanio zeneral". E, una volta espressa l'approvazione, del 28 ott. 1528, d'Alfonso I, c'era stata, il 25 novembre, la designazione, ratificata da E. il 1º dicembre. Dovere, a questo punto, di E. - cui competeva la "provisione" annua di 7.000 ducati - assumere il comando giungendo a Firenze con 1.000 fanti. Ma, evidentemente perché così volle suo padre, per quanto sollecitato "con grande instantia", lasciò che il tempo trascorresse senza portarsi "con la zente in Toscana" in "soccorso" di Firenze.
Sicché - come informava puntualmente, il 2 marzo 1529, il Surian - "quelli signori" se ne ebbero "a mal". E s'affidarono - sia pur esitando, in un primo tempo, ad ufficializzarne il ruolo "per non discompiacer" E. - a Malatesta Baglioni, decidendosi alfine, visto che E. non compariva, a nominarlo, il 16 aprile, "governatore generale di tutte le forze fiorentine a cavallo e a piedi", sicché - per quanto formalmente subordinato ad E. - era al Baglioni che spettava la responsabilità effettiva. Quanto ad E. - che pur trovò modo, il 20 aprile, d'andare a Venezia ospite d'un mercante di pesce di Comacchio e di partirne il 3 maggio perché indisposto - lasciò trascorrere i mesi senza recarsi a "cavalcar in Toscana", mentre sempre più a Firenze si contava sulla "condotta" di Baglioni nella convinzione che E. fosse "troppo giovane ed inesperto". Ciò non toglie che valesse sempre la nomina a "capitanio di fiorentini". Tant'è che, ancora all'inizio d'agosto, Alfonso I assicurò che, "in aiuto de Fiorenza", stava per "mandarli 1.000 fanti et 80 homini d'arme" - così l'"orator" veneto a Ferrara Marcantonio Venier - capeggiati dal figlio. E ciò mentendo ché, nel frattempo, il duca estense era in trattativa col papa e l'imperatore e si stava discostando dalla "liga". Si giunse al punto che Giacomo Guicciardini, commissario fiorentino a Ferrara, recatosi a "parlar" con E. il 27 agosto perché "cavalcasse con la zente in Toscana" non venne ricevuto. Al che, sdegnato, "intimò - così riferisce Venier -, per parte di soi signori", alla presenza di testimoni, ad "uno ... secretario" di E. "che lo haveano per casso", vale a dire "che più non fusse capitano de la soa republica"; e, detto questo, il Guicciardini partì subito per Firenze, mentre E., il 28, faceva sapere che "etiam lui ha renontià la condotta di fiorentini".
Così, con truffaldina furberia, E. si sbarazzò d'un impegno che - nato nel quadro d'una politica estera cui va ricondotto il suo stesso matrimonio - si rivelava quanto mai imbarazzante, ora che il padre mirava - e la pace di Cambrai, del 5 agosto, valse a giustificare un voltafaccia peraltro da tempo preparato - al favore imperiale. Giovane - a detta degli osservatori veneziani - che "ha piacer di lettere et di cose di stato", era ormai maturo per tutte le astuzie d'una politica che esigeva spregiudicata capacità di manovra. Ed il lodo imperiale del 21 dic. 1530 che riconosceva Modena e Reggio al Ducato estense è indicativo frutto, appunto, d'un'abilità di movimento di cui E. era già partecipe. Con ciò abbandonando, senza riguardi e scrupoli, Francesco I e volgendosi al suo nemico Carlo V. Sicché E., coi fratelli, il 23 marzo 1530 era a Carpi a "far reverentia" all'imperatore diretto da Modena a Mantova, nella quale ultima rinnovò, il 30, la "reverentia". E qui - a detta degli inviati veneti Niccolò Tiepolo e Marcantonio Venier - "sua Maestà li ha fato optima ciera".
Una svolta di centottanta gradi rispetto all'arrivo di Renata di Francia, la notte del 30 nov. 1528, al Belvedere, quando non s'era trattenuta dall'incedere - a mo' di regina, più ancora che figlia di re - con la corona in testa, una svolta che non poteva non turbarla e non metterla in urto col marito e col suocero.
Essa - con sempre al fianco Michelle de Saubonne, vedova del signore di Soubise e già dama d'onore di sua madre, la quale la convinse a continuare a vestire alla francese - sin dall'inizio si senti avamposto della civiltà di Francia, rappresentante degli interessi di questa, strumento della sua penetrazione, esemplificazione della sua superiorità. Il suo insediamento a Ferrara con oltre 160 persone al suo servizio - un variopinto assieme di segretari (e tra questi, dal maggio del 1529 alla fine del 1531, figurava Bernardo Tasso), chierici, damigelle, valletti, gentildonne, garzoni, palafrenieri, paggi, servi, cantori, serventi, cucinieri, cuochi, vivandieri, guardarobieri, someglieri, cantinieri, panettieri, uscieri; e c'era pure l'elemosiniere, il medico, il farmacista - con tanti muli, con tanti cavalli, con tanti carriaggi, era stato subito dalla corte estense come il trapianto d'un corpo tanto compatto quanto estraneo, dispendioso ed eccessivo, pieno di boria e di pretese. Di per sé alle spese avrebbe dovuto provvedere Renata con le sue ragguardevoli rendite. Ma i proventi di queste non giungevano puntuali. Né vennero mantenute le promesse in merito alla dote, se, nell'autunno del 1532, E. si recò espressamente in Francia perché non venissero dimenticate. Ma ciò senza frutto se, il 7 febbr. 1533, l'ambasciatore veneziano a Parigi Marco Giustinian registrava come il sovrano "accumula denari" dalle "molte terre alienate" e grazie alle "rimesse... frodate" a E. "per la dote di madama Renea, siché augumenta la intrada".Ne conseguiva - man mano il gravitare del Ducato sull'Impero accentuava la divaricazione colla Francia; una politica palesemente osteggiata da Renata, a ciò incoraggiata dall'intrigante madame de Soubise - un crescente malanimo nei confronti di Renata e della sua troppo numerosa ed ingombrante "famiglia", a causa della quale "si spende superfluamente", vige il deplorevole andazzo di "spese immoderate e mal considerate". Si considerò l'opportunità d'un drastico sfoltimento, si ventilò la convenienza d'un brusco licenziamento di tante "persone inutili nate a consumare", di tanti parassiti stipendiati per non far nulla. Non senza irritazione di Renata - sempre più risentita col marito e con il suocero - si minacciò di ridurre all'essenziale e all'indispensabile la sua "famiglia" ritenuta "poco utile et poco honorevole". Ciò non toglie che - proprio perché numerosa e proprio perché superflua - la nutrita colonia francese al seguito di Renata desse il tono alla vita di corte, la rendesse più brillante e vivace.
Dalla descrizione d'un informatore d'Isabella Gonzaga s'apprende, ad esempio, d'un ricevimento dato da Renata a Schifanoia l'11 nov. 1530, nel quale le "gentildonne" e le "signore" invitate da lei nella "sala grande" danzavano "con cortesani et altri gentiluomini" al "suono delle pive" muovendosi con grazia "e dolcemente parlando d'amore". Coinvolto nella festa è pure E. che incedeva dando la "mano" ad "una delle figlie" di quella "madama Sebis" che più attizzava nella moglie l'orgoglio di figlia d'un re di Francia. Ed è, appunto, madame de Soubise, precisa lo stesso, quella che "è al governo di questa signora" e che, inducendola a vestire alla francese, a portare, alla maniera di Francia, "il scuffiotto d'oro in testa", si adopera - anche così - perché Renata non s'adatti e non assecondi e, anzi, contrapponga la propria ribadita identità, la quale - laddove il ducato pencola sull'Impero - s'esprime, a costo di risultare provocatoria e stridente, anche col vestiario, di contro all'altrimenti imperante moda lusitana.
Una chiacchierata - pei tanti pettegolezzi che suscitava e a Ferrara e fuori, e, pure, inquietante, per le apprensioni che destava, corte nella corte - Renata col suo folto entourage personale, oggettivo fattore di turbativa nella misura in cui privati pasticci si trasformavano in complicazioni politiche, laddove il filofrancesismo sin dissidente dei due fratelli minori di E., Ippolito (che diverrà, nel 1539, cardinale dietro richiesta di Francesco I) e Francesco, era simultaneo alla determinazione di Renata a "n'estimer ennuy ne peine", pur d'essere utile alla Corona di Francia.La clamorosa fuga, nel settembre del 1534, del secondo in Francia risultò certo imbarazzante per E., il quale, morto il 31 ottobre il padre, diventò solennerimente duca il 1º novembre, deciso a consolidare il mantenimento del Ducato nella garanzia del riconoscimento imperiale e mirando a quello papale.
Istigatore - si vociferò - del gesto del fratello il conte Antonio di Pons, signore di Marennes, genero, per averne sposata la figlia Anna, di madame de Soubise; questi era ufficialmente cavaliere d'onore di Renata e, di fatto, vero e proprio agente di Francia, non senza connivenza della duchessa, a lui affettivamente legata, al punto da scongiurarlo - in una missiva intercettata indirizzata a lui lontano, ove lo chiamava "mon enfant", "mes peines" - di "venir" a Ferrara al più presto, ché senza di lui non poteva stare. Ipotizzabile ragionevolmente una relazione tra i due; e, in tal caso, Renata avrebbe ricambiato le molteplici infedeltà di E., che, uso sin dalla prima giovinezza ad intense frequentazioni femminili nonché condizionato dalla relazione stabile con Diana Trotti, era pur incline a piluccare tra le più avvenenti gentildonne dell'aristocrazia locale senza, per questo, trascurare le damigelle della consorte, visto che una di queste, Maria di Noyant, diventò sua amante, venendo poi, ad ogni buon conto, accasata, nel 1535, al dotto Alfonso Calcagnini, conte di Fusignano e tra i più ricchi gentiluomini ferraresi.
Intossicato da dissapori e contrasti, minato da sospetti e incomprensioni - che erano rilevanti perché non circoscritti nella sfera privata, poiché fatto notorio di cui parlare e sparlare e pure perché, una volta esasperati proprio dalle dicerie di corte e dai rapporti dei diplomatici, esitanti in vere e proprie contrapposizioni che indebolivano all'interno e all'esterno la figura di E., quasi questi dovesse fare i conti con un partito avverso, quasi le sue scelte politiche fossero costantemente messe in discussione dalla moglie (e, in ogni caso, Francesco I, cui pervenivano le lamentele di questa, "si mostra malissimo" contento di E. perché "tratta molto male madame Reyniera"; e nel contempo, facendo proprie le accuse mossegli dalla moglie, lo giudicava "imperialissimo", come attestano le lettere al segretario del papa Ambrogio Ricalcato del nunzio in Francia, il vescovo di Faenza Rodolfo Pio di Carpi, del 26 sett. 1535 e del 5 febbr. 1536) - il matrimonio di E., ma, ciò malgrado, allietato da figli.
Nacquero, infatti, il 16 nov. 1531 Anna, il 23 nov. 1533 Alfonso (e dell'educazione di questo E. si preoccupò particolarmente, accettando alfine, non senza averlo personalmente discusso, il programma di precoce apprendimento intensivo caldeggiato dall'umanista romagnolo Bartolomeo Ricci, nominato, nel maggio del 1539, precettore del futuro duca), il 16 dic. 1535 Lucrezia, il 19 giugno 1537 Eleonora, il 25 dic. 1538 Luigi.
Intanto, tuttavia, quasi ad intralciare gli sforzi di E. volti a sciogliere il contenzioso con la S. Sede e non senza effettivo disturbo della paziente orditura diplomatica tramite la quale egli s'adoperava per l'instaurazione, con Paolo III, d'un rapporto definitivamente rasserenato, cominciavano a circolare sospetti sull'ortodossia religiosa di Renata (giunta dalla Francia, oltre che col codicetto miniato delle sue Petites prières..., con due casse di libri che poi saranno qualificati come "eretici") e del suo circolo.
Se ne preoccupava pure la corte di Francia se, nel febbraio del 1535, arrivò a Ferrara - in veste di consigliere della duchessa, ma in realtà col compito di controllore ed informatore - il vescovo di Limoges Jean de Langeac; e, nel luglio, passò di lì il card. Jean du Bellay (al cui seguito c'era Rabelais, che così ebbe modo d'incontrare il segretario di Renata Clément Marot, il poeta dalle evidenti propensioni ereticali, nonché Léon Jamet, un chierico consigliere finanziario della stessa, ormai scivolato su posizioni luterane), anch'egli per appurare quanto ci fosse di vero nell'infittirsi dei borbottii e dei bisbigli sulla fede della duchessa e di quanti presso lei dimoravano o, in qualche modo, la frequentavano o erano da lei temporaneamente ospitati.
Di lì a poco, il 19 settembre, E. partì alla volta di Roma con 260 persone al seguito, tra le quali c'era A. Brasavola, suo medico personale, e figurava pure Jamet: il che significa, dato che quest'ultimo proveniva dall'entourage di Renata, che i sospetti d'eterodossia non erano ancora discriminati e perseguitati, che c'era, per loro, ancora possibilità di manovra o, quanto meno, di non essere distinti, di confondersi con gli altri. A Roma dal 9 ottobre, E. non riuscì a smuovere Paolo III sì da indurlo ad aderire alle sue richieste per cui preferì proseguire per Napoli, giungendovi il 4 dicembre. Qui, con sua soddisfazione, Carlo V rinnovò le investiture per la casa d'Este. Forte di questo E. rientrò a Ferrara il 15 genn. 1536, licenziando bruscamente madame de Soubise, che durante la sua assenza aveva intrigato a suo danno. Così si sbarazzò d'una fastidiosa influenza. Ma ciò con relativo suo giovamento, ché proprio in quell'anno - lo stesso in cui Calvino, che aveva appena pubblicato l'Institutio, giunse, il 23 marzo, con l'amico Jean Du Tillet, a Ferrara, sino ad un certo punto celato dallo pseudonimo di Carlo d'Espeville essendovi ospitato, fino al 14 aprile, da Renata - la corte della moglie diventò qualcosa di più e, pure, di diverso, rispetto al circolo filofrancese sobillato dalla dama d'onore allontanata. Ormai - anche perché l'incipiente irrigidimento cattolico abbisognava di nemici da colpire e la relativa sorveglianza era in grado di identificarli e di smascherarli - non si qualificava più soltanto come spazio separato di Renata aperto ai connazionali, sempre bene accolti, ma come nucleo ereticale. Non più, dunque, solo un innaturale spezzone francese arrogantemente accampato nella corte estense, ma, a partire dal 1536, più ancora e soprattutto un centro organizzativo - in termini di protezione e propaganda - della Riforma in Italia. E, in effetti, i nomi convocabili attorno a Renata non erano più soltanto francesi ed avevano, francesi o no che fossero, a che fare colla Riforma o palesemente o occultamente.
Sospetti d'eresia tra i francesi che attorniavano Renata, oltre a Marot ed a Jamet, La Planche, Boutiers, Comillau. Ma vanno pure annoverati tra i suoi frequentatori l'agostiniano cremonese Agostino Fogliata, che predicava eterodossamente a Ferrara nel 1536, e, via via, Pier Paolo Vergerio, Camillo Renato, Baldassarre Altieri, Pietro Martire Vermigli, mentre Antonio Brucioli le dedicava parte della sua traduzione della Bibbia. E se il suo rapporto con Vittoria Colonna, che soggiornò dal maggio del 1537 al febbraio del 1538, a Ferrara (e qui non mancò di frequentare anche E., pel quale, stando alle lettere successivamente inviategli, nutriva una sincera stima, dichiarandosi "de core" sua "vera serva"; degno di rilievo, altresì, fosse proprio Vittoria Colonna a raccomandare ad E. d'accogliere bene i gesuiti) non necessariamente esorbitava dall'alveo d'un fervore spirituale contenuto entro coordinate cattoliche, non altrettanto può dirsi delle visite di Bernardo Ochino, dei suoi contatti con Celio Secondo Curione ed Aonio Paleario, del proselitismo locale da lei avviato che attirò Ippolito de' Putti e Pietro Vergnanini. E fu ospite di Renata Fulvio Pellegrini Morato che, imitato dalla figlia Olimpia, non esitò a passare dall'umanesimo razionalistico al calvinismo.Quanto ad E., all'inizio del 1537, si portò a Venezia, dove possedeva un bel palazzo sul Canal Grande, con l'impressionante seguito di 1.000 uomini, tra i quali 200 erano i gentiluomini, e questi così "honorevolmente vestiti" che sembravano, a detta del nunzio pontificio Girolamo Verallo, altrettanti "duchi".
Evidente l'intento di suggestionare la Serenissima per averla a fianco nella sua pressione sulla S. Sede. "Molto superbamente è venuto", commenta Verallo. Del tutto priva, in compenso, di sussiego la visita di E., del 27 gennaio, al nunzio "per fare - come informa questi - quello officio che, per la suggettione che ha con la Sede Apostolica, se li conveniva". Pregò, infatti, il nunzio di raccomandarlo a Paolo III, ragionando con lui "tanto humilmente et submissamente" del papa, proclamandosi "bon subdito di Sua Santità et de la Santa Sede", speranzoso perciò le "cose sue ... debbiano pigliare bon sesto".
Rientrato a Ferrara col ritratto del padre eseguito da Tiziano, compensato con 200 ducati ed un vaso d'argento - ed il pittore ne fu più che soddisfatto; meno facile per E. accontentare l'amico di Tiziano Aretino (in un primo tempo E., stizzito dalle sue maldicenze, avrebbe voluto eliminarlo; ma questi restò tappato in casa, sicché E. dovette ripiegare, accontentandosi di far bastonare un suo favorito), sinché si rassegnò a stipendiarlo, venendo perciò positivamente menzionato, nei Capitoli, nel 1540 ("il duca Ercole commendo" pel "presente ... arcistupendo", verseggiava infatti Aretino) -, la sua riluttanza a concedere la riscossione delle decime da destinare alla lotta antiturca che avrebbe dovuto pure robustamente sussidiare irritò Paolo III talmente da essere - per un po' - tentato dal fulminare E. con la scomunica. Ritardata, perciò, ma solo temporaneamente, l'agognata riconciliazione con Roma. Questa, finalmente, si verificò il 23 genn. 1539, quando - come riassumeva il card. Alessandro Farnese, scrivendone al card. Girolamo Aleandro - il pontefice, anche per assecondare il desiderio di Carlo V, "è condesceso, in beneficio" di E., "a tutto quello che è stato possibile". Donde la conclusione dell'"accordo", in virtù del quale ad E. "se li dà la investitura di Ferrara", ed egli s'impegnava a versare "180 mila ducati", 100 subito, 30 dopo tre mesi e 50 entro l'anno.
Capolavoro di lungimiranza politica - già a detta dei contemporanei e poi a ridetta della storiografia locale - quest'"accordo", al quale va ricondotto pure, a mo' d'effetto collaterale, il cappello cardinalizio concesso, il 5 marzo, "ad instantia del re Christianissimo", all'arcivescovo di Milano Ippolito fratello di Ercole. In effetti, in tal modo, E., "stanco dei travagli" promossi dalla S. Sede, procurò - come riassumerà nel primo '600 lo storico veneziano Nicolò Contarini - "di mettersi ... in ferma pace". Però - osservava Contarini, che aveva ben presente la successiva vicenda della devoluzione di Ferrara - "senza riguardo ad alcun pregiudizio de' successori". Sicché il "pigliare l'investitura da Paolo III, come di feudo", pel momento vantaggioso, si rivelerà alla fine del secolo, esiziale "grave pregiudizio". Il figlio di E. Alfonso II - che pure, al contrario del padre, non vorrà "giamai né ... investitura, né dar né prestar minimo segno di riconoscimento di superiorità alli pontefici" - non potrà, infatti, disporre della "facoltà di... nominare senza alcuna controversia il successore".
Conseguenza dell'accordo, nel 1543, il passaggio per Modena e Reggio di Paolo III, a palese riconoscimento dell'acquisizione - non più da Roma contestata - al Ducato estense. E momento prestigioso per la capitale estense la visita del papa, dell'aprile, con lo stupefacente seguito di 3.000 persone, tra le quali si distinguevano una ventina di cardinali, una quarantina di vescovi ed insigni rappresentanti esteri. Culmine del soggiorno papale la messa, celebrata nel duomo il 24 dal papa, il quale donò ad E. la rosa d'oro, lo stocco ed il cappello.
Fu particolare riguardo per la duchessa il dono, sempre da parte del papa, d'un prezioso diamante e d'un fiore, pure costituito da diamanti. Impossibile supporre il pontefice ignaro delle voci circolanti su Renata, dell'irreparabile guasto arrecato al matrimonio dal confinamento, voluto da E. ancora l'8 luglio 1540, di lei nel castello di Consandolo, destinato, peraltro, a diventare in breve un centro di diffusione di stampe ereticali; e sarà - si può ricordare - nei pressi di Consandolo che Renata incontrerà, nel 1555, il calvinista napoletano Galeazzo Caracciolo. Forse Paolo III ritenne conveniente sorvolare sulla fama di Renata per evitare scandali, per non mettere in difficoltà Ercole II. Ma più che di E. il pontefice si preoccupava del re di Francia, il quale da tempo protestava pei cattivi trattamenti e gli sgarbi a Renata. Ed il breve, del 5 luglio, "dilectae in Christo filiae nobili mulieri Renatae ducissae Ferrariae", ove il papa sottraeva questa e la sua famiglia al controllo dell'Inquisizione locale, non va, a lume di logica, valutato come un favore ad E., bensì alla Francia, nel sottinteso fosse indecoroso l'inquisitore vigilasse sulla figlia di Luigi XII. Ed è pure ipotizzabile detto breve papale avesse, tutto sommato, indispettito E. (il quale, per fare un altro esempio, non fu nemmeno granché contento quando gli arrivò la richiesta papale, del 23 febbr. 1545, d'esentare da dazi e pedaggi le vettovaglie in transito per Ferrara in direzione di Trento; né gli arrise, nell'estate del 1546, la ventilata ipotesi di traslazione del concilio a Ferrara), dal momento che il controllo inquisitoriale era stato da lui sollecitato ed istigato.
Ormai E. considerava la moglie una nemica, da combattere senza esclusione di colpi, senza tema di ricorrere all'inganno più smaccato - si fece, ad esempio, consegnare con un pretesto le gioie e poi non le restituì -, alla sorveglianza, ai tentativi di corruzione di persone a lei addette, alla perquisizione, tramite suoi fidi entrati di soppiatto, delle sue stanze, non esitando ad autorizzare, nella spasmodica ricerca di prove di trame a proprio danno, lo scasso del mobilio e la rottura delle serrature. E giunse al punto, nel 1545, di far arrestare e torturare, perché rivelasse presunti segreti e presunti tradimenti, Francesco Ricardot, l'elemosiniere di Renata accusato, d'altro canto, nella lettera a questa, del 1541, di Calvino, d'averla persuasa a tralignare dal "vero amore" della religione - quello a cui Calvino, giusta l'espressione di Teodoro de Bèze, l'aveva esortata nel 1536 - con compromissorie pratiche nicodemitiche, per cui si era adattata ad ascoltare la messa e a comunicarsi. Fatto sta che Renata persistette ostinata nella sua dissidenza religiosa e venne esplicitamente accusata d'eresia nel 1548. E fu suo successivo elemosiniere il milanese Ambrogio Cavalli, il quale risiedette a Ferrara dal 1547 al 1554, essendo poi arrestato - al rientro da Ginevra -, col concorso attivo anche di E., ed arso, appunto, per eresia a Roma nel 1556.
Processato, nell'estate del 1546, Giampaolo Manfrone - uomo d'arme al servizio di Venezia cui E. aveva offerto di passare al proprio che, con lui sdegnato perché aveva fatto accasare una sua sorella vedova d'un nobile di Ferrara ad un non nobile ferrarese (ma si dubita sia questo il vero motivo), attentò alla vita di E., dapprima con un'aggressione, andata a vuoto, nel Barco, quindi col veleno -, la condanna a morte venne commutata, con un atto di clemenza (così, almeno, a giudizio di Paolo Giovio che, con lettera del 27 agosto, elogiava oltre misura E.) di E., al carcere a vita. Ed in carcere Manfrone morì, ormai impazzito, l'8 febbr. 1552, vane risultando le suppliche della moglie - la dotta Lucrezia, figlia del marchese di Bozzolo Pirro Gonzaga, che trasformò il palazzo Manfrone a Fratta in una piccola corte, sede, se non altro, di culturali incontri - per ottenerne la liberazione.
Un episodio di per sé di modesta entità, questo di Manfrone, che però aggiunse chiacchiere a quelle sin troppo abbondanti suscitate da Renata sulla corte ferrarese, mentre E. avrebbe voluto indisturbato il suo impegno a mantenere - non senza equilibrismi - buoni rapporti sia con la Francia sia con gli Asburgo. Donde, nel 1548, il suo recarsi - partendo da Ferrara il 13 agosto e rientrandovi il 2 settembre - a Torino per ossequiarvi Enrico II re di Francia e, nel 1549, l'andata, nel gennaio, a Mantova ad omaggiare Filippo d'Asburgo, il futuro re di Spagna, cui donò quattro magnifici cavalli.
Da un lato l'apporto - peraltro esiguo e, comunque, ritenuto doveroso e non "per cortesia", come avrebbe voluto E., dall'imperatore ché, in virtù della "sententia" relativa a Modena e Reggio, il duca era "reggio vassalo del Imperio" - d'un contingente di cavalleggeri alla guerra contro la Lega di Smalcalda e il proseguire della milizia cesarea imposto da E. al fratello Francesco anche quando questi, "poco contento perché ... mal riconosciuto da Sua Maestà", avrebbe voluto lasciarla. Dall'altro le nozze - ed è in una Ferrara tutta festosa in attesa di queste che Giglio Gregorio Giraldi situa il dialogato svolgersi del suo De poetis nostrorum temporum -, del 4 dic. 1549, della primogenita Anna col futuro duca di Guisa Francesco di Lorena, la cui dote però E. - che vantava crediti non rispettati dalla Corona di Francia - rifiutò di pagare. Ma così, col matrimonio di Anna che si sommava coll'essere totalmente filofrancese del card. Ippolito fratello di E., si confermava l'avvertenza al figlio Filippo di Carlo V, il quale, ancora nel 1548, aveva sottolineato come E., pur "muy obligado" a lui per via di "Modena, Rezo y Rovera", vada considerato, anche per le propensioni di "el cardenal su hermano" più "aficionado" della Francia. D'altronde, nella corte cesarea, come attesta la relazione del luglio 1546 dell'ambasciatore veneto Bernardo Navagero, ci si ostinava a valutare E. "inclinevole alle parti francesi per lo parentado che ha per cagione di sua moglie". Un dato di fatto troppo corposo per Carlo V, che i litigi della coppia non scalfivano. Non per questo in Francia si confidava serenamente in E.; non per niente Cosimo I, irritatissimo per l'esasperarsi della lite per la precedenza avviata da quando, a Lucca, il 10 sett. 1541, E. (al servizio del quale, per alcuni anni, figurò l'antimediceo Bartolomeo Cavalcanti) era riuscito a cavalcare alla destra di Carlo V e a porgergli (onore, questo, spettante al principe di più alta dignità), a tavola, il tovagliolo - raccomandava, il 7 marzo 1548, al suo rappresentante Bartolomeo Panciatichi di ricordare come E. non potesse vantare "alcun benemerito" a favore della Francia, solendo "accomodarsi ... a' tempi e alle fortune, secondo che ben li torna". Anche nel suo caso "l'esperientia" dimostrava "che la fede di casa d'Este verso la corona di Francia non è" talmente "inconcussa e sincera" da farvi "stabile fondamento".
Sempre più insostenibile, comunque, per E. serbare, pur nell'esplicita diffidenza imperiale (donde l'insediarsi, nel 1551, d'agenti cesarei presso il rappresentante mediceo a Ferrara Francesco Balbi a spiare presunti contatti di E. con luterani tedeschi per presunte segrete intese contro Carlo V) e nella non piena fiducia francese, una linea di rigorosa neutralità, già insidiata dal primogenito Alfonso, che, nel 1552, contro la volontà paterna, riparò in Francia, sicché E. - nel tentativo di non figurare agli occhi di Carlo V quale, a sua volta, parzialissimo del re Cristianissimo - fece penzolare da una finestra del palazzo della Ragione, con una nota d'infamia, l'effigie di Tommaso Lavezzuolo, il principale istigatore della partenza del figlio. Né l'equidistanza - ufficiale e non sostanziale; sin dal 3 apr. 1553 il nunzio in Francia Prospero Santa Croce informava di tener "per fermo" che "sia alla devotione" d'Enrico II; e già si parlava di un appoggio di E. con uomini, "denari, artigliaria" all'andare dell'esercito francese "in Toscana", che sarebbe stato ricompensato "con grossa provisione et forse col titolo di generale in Italia" - fu più possibile, quando, colla ripresa, da parte d'Enrico II, della politica offensiva in Italia, divenne luogotenente di Francia suo fratello Ippolito che ricoprì, nell'ottobre 1553-giugno 1554, il governo di Siena la cui successiva resa, del 17 apr. 1555, inquietò E. al punto da vagheggiare - come faceva presente un suo agente ad un agente di Lucca nell'ottobre - "di rompere" con Cosimo I e di "liberar tutti cotesti paesi", anzitutto Siena, "dalla ingordigia di lui".
Deponendo ogni precedente titubanza E., un po' costretto dal papa (che, ancora con breve del 14 marzo, gli aveva conferito il generalato della Lega), un po' lusingato dal genero, un po' allettato dalla prospettiva d'ingrossare lo Stato coll'acquisto di Cremona, aderì, il 13 nov. 1556, alla Lega antiasburgica formata da Paolo IV ed Enrico II, anticipando a questi 300.000 scudi pel pagamento delle truppe e divenendo, nel contempo, capitano generale della Lega e luogotenente del Cristianissimo in Italia. E poiché l'ultimogenito Luigi, il giovinetto vescovo di Ferrara, in disaccordo con lui voleva passare alla corte di Filippo, il 17 novembre gli impedì, arrestandolo e sequestrandolo nel castello, di partire, facendo appendere per un piede, a titolo d'infamia, l'immagine del cortigiano piemontese Anton Maria di Collegno presunto consigliere della ribellione di Luigi. Pienamente consumata a questo punto la rottura di E. con gli Asburgo.
Il rappresentante veneto Federico Badoer, nella sua relazione del 1557, attestava "l'odio" di "tutti li ministri" spagnoli per E., "ingrato dei benefici ricevuti" da Carlo V "per il favore di Modena e Reggio". Il suo ingresso nella "lega" venne attribuito alla "natural sua inclinazione a Francia" stretta col suo matrimonio e con quello della figlia ed agli "utili ed onori" venutigli e da "venire" da "quella parte" e alla "speranza" che, coll'appoggio del Cristianissimo, Ippolito potesse diventare "pontefice". Odiato, dunque, E. da Filippo II e Carlo V, a sua volta - aggiungeva Badoer - aveva "cagione di odiare" entrambi e perché il fratello Francesco era stato "maltrattato nell'onore e nel pagamento" e perché c'era stata, da parte di Filippo II, un'esplicita "dichiarazione" restituente la precedenza a "Fiorenza" e perché era per l'opposizione dei due Asburgo che Ippolito - le cui ambizioni, sostenute finanziariamente da E., si scatenarono soprattutto nei due conclavi del 1555 - non era sinora "potuto ascendere al papato".
Ma le vicende belliche non concessero ad E. l'esaltante trionfo della vendetta. Questi ebbe sì il comando supremo delle truppe, che ammontavano, nella rassegna del febbraio 1557 a Reggio, a 14.000 fanti, 4.000 cavalleggeri e 700 uomini d'armi francesi, cui vanno aggiunti i 6.000 fanti, 600 cavalleggeri e 200 uomini d'armi nonché i 50 gentiluomini della sua guardia esibiti da Ercole. Ma - esigendo Paolo IV che s'attaccasse il Napoletano e volendo il duca di Guisa operare in Toscana - non prevalse la direttiva di E. d'un attacco in grande nel Milanese; ed egli, rinunciando di fatto alla direzione, preferì non allontanarsi alla volta d'ipotetiche conquiste e badare piuttosto a salvaguardare il proprio Stato ritornando a Ferrara, donde si mosse l'8 marzo, solo per una rapida puntata a Venezia, ad assicurare di persona la Repubblica che non aveva mire su Rovigo. E. - salvo sventare in anticipo la mal organizzata congiura di Marcantonio da Osimo (questa prevedeva una sorta di sollevazione interna esitante, una volta introdotto il nemico, giunto lungo il Po, da Cremona, nell'eliminazione fisica di E.) -, deciso a non allontanarsi dal Ducato, poco poté fare e poco volle fare, tanto più che la sconfitta francese di San Quintino, del 10 agosto, rimbalzò anche sull'impegno in Italia del Cristianissimo.
Anche le scarse azioni offensive - quali la sconfitta delle truppe farnesiane del 9 genn. 1558 e la conseguente presa d'alcune posizioni - si dovettero più all'animosità battagliera del primogenito Alfonso, il quale nel giugno assediò vanamente Correggio, che alla guardinga cautela di E., il quale, per temperamento alieno dalla guerra, era, invece, attento a sottrarsi ad un'avventura di cui - una volta sfumato il ripromesso vantaggio di Cremona - era sempre meno convinto.
Perciò - in sintonia col papa coinvolto dall'avventurismo del nipote Carlo Carafa accostatosi a Filippo II - E. preferì, a sua volta, defilarsi. Donde, grazie ai buoni uffici di Cosimo I, la capitolazione del 19 gennaio, che, nella ratifica di quanto stabilito, diventò trattato di pace l'8 marzo, cui s'aggiunse, il 29 maggio, la garanzia delle nozze - celebrate, infatti, a Firenze il 18 giugno - tra Alfonso (già fidanzato ad un'altra figlia di Cosimo I, Maria, morta, però, prima di giungere all'età maritale) e Lucrezia, poco avvenente figlia del duca mediceo. Così, non senza abilità, E. uscì - rimettendoci soltanto la somma anticipata alla Francia - da un azzardo (del quale, come assicurerà, in una lettera del 6 nov. 1574, Girolamo Muzio al granduca di Toscana Francesco I, "subito se ne pentì") cui era stato soprattutto Paolo IV ad indurlo; ed egli, più timoroso ancora dei contrasti colla S. Sede che con l'Impero, s'era lasciato convincere.
Senza il conforto d'un rasserenante trattato di pace, invece, il contrasto di E. con la moglie, che - non sciolto col trascorrere degli anni - sembra, per più versi, una logorante guerra di posizione. Mentre netto era il distacco di Renata dal cattolicesimo, E., quale fautore dei gesuiti - nel 1547 volle per confessore Claude Jay, cui s'affidò anche per un progetto d'unificazione dell'assistenza ospedaliera a Ferrara; nel giugno del 1551 Pascasio Bröet, Giovanni Pelletier e sei docenti del Collegio Romano aprirono tre classi di grammatica umanità e greco, confortate ben presto dalla presenza d'un centinaio d'allievi; nel settembre del 1552 s'aprirono a Modena quattro classi di grammatica ed umanità ad oltre un centinaio di scolari; il 29 sett. 1554 E. ordinò alla Comunità d'Argenta il licenziamento del precettore antecedente alla venuta di "quelli preti della congregazione di Gesù" -, sembra addirittura propendere per il cattolicesimo più intransigente e controriformistico. Ed indubbiamente l'azione educativa dei gesuiti valeva nella misura in cui era formativa dei quadri d'uno Stato confessionale.
Né con ciò contrastavano la benevolenza di E. per l'abate di Pomposa Luciano Degli Ottoni, la indisturbata docenza nell'ateneo ferrarese dell'umanista Nascimbene Nascimbeni, il favore per il domenicano Girolamo Papino, lo sconcertante inquisitore a Ferrara della cui ortodossia s'avrà in seguito ragione di dubitare, ché la loro inquietudine, il loro coinvolgimento in un fermentante e confuso magma di speranze ed attese era talmente estraneo alla pragmatica mentalità di E. che nemmeno le percepì e non fu, quindi, in grado d'intuirne l'ulteriorità dissidente.
Fatto sta che E. (già dedicatario dell'Apologia adversus luteranos del carmelitano ferrarese Giovanni Maria Verrati, che uscì a Bologna nel 1538; ed era un suo uomo, il dotto canonico Celio Calcagnini, ad indurre il domenicano Vincenzo Giaccari da Lugo alla composizione d'un trattato, pure antiluterano, sul libero arbitrio), quando è sicuro si tratti d'eresia, esige l'eliminazione fisica del colpevole, col sequestro dei beni non già a beneficio della "camera et fisco", ma "dispensati tra luoghi et opere pie". E a nulla vale Renata s'adoperi per salvarlo; anzi, l'interessamento della moglie diventa una prova di colpevolezza. Ed ecco che, il 22 ag. 1550, venne "impiccato" ed arso e quindi gettato nelle acque del Po il faentino Fanino Fanini "eretico" recidivo; ed ecco che, il 23 maggio 1551, venne "impiccato ad una finestra" del palazzo della Ragione il prete siciliano Giorgio Siculo, anch'egli "eretico". Spettacolari esecuzioni mirate a far rientrare eventuali latenze eterodosse, ad atterrire le coscienze non allineate e, pure, ad ammonire Renata, la quale - così in una lettera del 27 marzo 1554, di E. ad Enrico II -, già "osservantissima della religione et fede cattolica", per colpa di taluni "lutherani ribaldi", aveva abbracciato una "nova et perversa religione". Donde, anche ad evitare l'influenza materna non istillasse la "falsa religione" nelle due figlie Eleonora e Lucrezia, la decisione di rinchiuderla - una volta fallite le vie della persuasione -, coll'approvazione d'Enrico II, in un appartamento, costituito dalle cosiddette stanze del cavallo ché prospicienti il monumento equestre di Nicolò III, con due sole domestiche ed un maestro di casa.
Così, il 7 settembre, Renata fu praticamente sequestrata, mentre era dichiarata eretica e le erano confiscati i beni. Intollerabile per lei l'essere "stretta e priva delle figliuole e d'ogni altro commertio humano". Perciò si piegò: il 21 settembre s'umiliò sentendo la messa, confessandosi e comunicandosi. Dinanzi al gesuita francese Giovanni Pelletier, il rettore del collegio ferrarese, abiurò e fece professione di fede cattolica. Rientrò pertanto - come ci si affrettò a scrivere a Roma - nel "retto cammino". Un cedimento percepito come una bruciante sconfitta da Calvino, che, alla notizia dell'accaduto, si abbandonò a malinconiche considerazioni sull'umana incostanza. Si trattava, indubbiamente, d'una resa frutto di scoramento. Ma si trattò anche d'una mossa calcolata, dal momento che a Renata vennero restituite le figlie, le si riaprì uno spazio a corte, poté ritornare nella sua casa di S. Francesco.
Forte della reclamizzata conversione, la reintegrazione rese Renata più influente di prima, sicché, quando il marito morrà, potrà, a mo' di duchessa a pieno titolo, gestire il lutto pubblico per la scomparsa di E. e controllare il trapasso del potere ad Alfonso. Né l'abiura che la riabilitò interruppe il suo fattivo adoperarsi il più possibile utilizzando le sue conoscenze e le sue entrature per proteggere dalla furia della repressione gli amici compromessi. Sicché, ad appena tre mesi dal suo ufficiale rientro nel cattolicesimo, dava già ricetto ad un bolognese in odor d'eterodossia.
Tutt'altro che convinto del cattolicesimo della consorte E., anzi certo della strumentalità dell'apparente conversione ai fini d'una ripresa d'indipendenza di manovra, rimase vigile e cercò di mettere in guardia anche Enrico II, sì che non desse troppo credito alla presunta ortodossia di Renata e non appoggiasse, di conseguenza, le sue pretese a proprio danno. "Poi che è piaciuto a Dio farne nascere principe libero - scrive, il 6 marzo 1555, all'ambasciatore estense a Parigi Giulio Alvarotti -, non volemo esser fatto schiavo da nostra moglie". Questa stava protestando poiché E. non le aveva ancora restituito le gioie e le aveva prelevato 10.000 scudi. Intollerabile per E. che la corte di Francia facesse proprie le sue proteste. Egli rimaneva in credito: "la duchessa nostra consorte ha sempre goduti et la dote et la sopradote" senza "minimo utile" suo e dei figli. Se, ciò malgrado, continuava a lamentarsi era non tanto perché le sue querimonie avessero un minimo fondamento, ma perché animata da acrimonioso rancore nei suoi confronti, da ingeneroso spirito di rivalsa, da bassi istinti di "vendetta" per "non haverla ... lassata perseverare nella sua vita heretica", con la quale aveva macchiato di "perpetua infamia" la "casa nostra". Se Enrico II - aggiungeva E. all'ambasciatore perché così a sua volta s'esprimesse col re - "sapesse" quanti e quali fastidi gli aveva dato e gli stava dando la moglie, lo giudicherebbe di certo "più paciente de Job". Un'ammissione che pare, a tutta prima, sconfortata e che, in vece, non era priva di fierezza: per E. la pazienza era "fortezza d'animo", era sopportazione "con animo forte". Una virtù ch'egli esercitava al massimo e che adottò come proprio simbolo e che, perciò, era insistito tema, nelle pitture, nelle monete e nelle medaglie degli artisti al suo servizio. E pare ci fosse, nei suoi appartamenti, un'illustratissima sala della "Pazienza".
Caratterizzato, dunque, il regno di E. - oltre che dal mantenimento dello Stato schivando al massimo i conflitti armati o, se a questi costretto, dall'evitarne esiti rovinosi e dal ripristino della situazione antecedente - anche dallo sforzo di contenere e circoscrivere la potenzialità indubbiamente sommovente costituita dall'attiva religiosità eterodossa della moglie, nella sincerità della cui forzata conversione E. non credette. Né ci crederà il suo successore, sicché Renata dovrà riparare in Francia, dove morrà, il 15 giugno 1575, a Montargis senza discostarsi - così il rappresentante veneto presso il Cristianissimo - dalla "ostinata sua mala opinione nelle cose della religione". Per parte sua E., ad esorcizzare l'"infamia" d'una duchessa infetta da inclinazioni ereticali, esternava zelo repressivo da esibire colla S. Sede.
Ottemperando all'"uffitio di sincero servitore" della Sede apostolica - scriveva alla fine febbraio del 1556 al papa - fece arrestare "qui in Ferrara dui ... ribaldi heretici" da consegnare al "bargello" del vicelegato pontificio di Bologna. L'aveva "fatto - assicurava al pontefice - più che volentieri" e "per obedirla" come era suo "debito" e perché "certo" piacesse "a Dio che simili tristi", dei "quali" - si vantava - "io sono inimico naturalmente, come ella sa", venissero il più possibile eliminati, fossero "più che si può estirpati et castigati".Proprio perché malmaritato al punto da trovarsi l'eresia in casa, cruccio di E. fu quello di proclamarsi - in una fase di vincente restaurazione cattolica nella penisola - "bon vassallo et vero servitore del papa". Ma ciò - anche se, il 26 luglio 1552, al nunzio in Francia Prospero Santa Croce, di passaggio per Ferrara raccomandava d'assicurare Giulio III che "non ha né il più humile né il più divoto servitore" dello stesso E. - non indiscriminatamente, cio non a scapito della sua dignità. E., che tanto aveva fatto per serbare e rafforzare il Ducato estense, sapeva che questa era importante quanto l'integrità territoriale. Per cui non fu sempre prono ai voleri papali. Sicché, quando Paolo IV smaniava di mettere le mani sul libraio-editore modenese Antonio Gadaldini, stampatore del Beneficio di Cristo, E. non l'accontentò subito; bisognava, asserì, prima stabilire se era colpevole; e, pel momento, ciò a lui non risultava, "venendoci fatta relatione" fosse, invece, "huomo da bene". E. quasi si pentì della caccia sistematica ai sospetti d'eresia per consegnarli al vicelegato di Bologna. Quasi intuì che aveva agevolato la messa in moto d'una macchina che esigeva continui colpevoli e che, se questi scarseggiavano, allargava i propri criteri di colpevolezza, tendeva ad esagerare e a strafare, senza distinguere più che tanto tra vaghi sospetti e colpe appurate. Continue, da Bologna e da Roma, le pretese di arresto e consegna; e ciò, si rammaricava E., "con poca dignità nostra et ruina di quei nostri sudditi" opinabilmente invisi a Roma. Suo dovere preservare da infiltrazioni ereticali il Ducato, ma suo dovere pure quello di proteggere i sudditi se le esorbitanze romane erano palesemente eccessive, crudelmente vessatorie. Non andava dato per scontato, si preoccupava E., egli, scapitandone in dignità, fosse sempre e comunque disposto a collaborare.
S'avverte, anche a tal proposito, come E. - pur costretto alle mille cautele e ai mille accorgimenti e agli innumeri compromessi di chi, non avendo la forza dalla sua, s'adattava ad una prassi ambigua, opportunistica, oscillatoria e tacciabile di furberia e di doppio gioco (urtato dal suo proporsi come mediatore, Giulio III scriveva, il 10 apr. 1551, al nunzio in Francia Girolamo Dandini come E. "si crede in questi frangenti d'essere egli un Tertius gaudebitur") - non si risolva tutto in questa. Aveva un'alta concezione di sé e della sua veste ducale. E non solo perché era geloso tutore delle proprie prerogative, ma anche perché si vagheggiava titolare di buon governo, perché si compiaceva d'essere il "buon prencipe". Circondato, anche per contrapporre a quello di Renata un proprio entourage intellettualmente prestigioso, da letterati e dotti - Giovanni Battista Canani, Celio Calcagnini, Ludovico Cato, Girolamo Falletti, Alberto Lollio, Alessandro Guarini senior, Silvio Antoniano, Antonio Musa Brasavola, Giovanni Maria Verrati, Agostino Beccari (il cui Sacrificio, considerato primo esempio di favola pastorale, fu rappresentato, l'11 febbr. 1554, in onore di E.), Giovanbattista Pigna, Bartolomeo Ricci - questi erano ben disposti a riconoscerlo e a voce e per iscritto. Ma non è che E. abbisognasse, di per sé, d'un estrinseco panegirismo. Desiderava ben di più: il trasferimento dei fatti, sia quelli da lui determinati sia quelli da lui subiti, su di un piano di coerente svolgimento latore d'incisivo significato sì che la sua statura potesse in questo stagliarsi come esemplare. E ciò non già per via di generici servizievoli encomi, ma nella credibile lievitazione della stessa angustia che storicamente limitava e condizionava il suo effettivo operato in spazio ottimale per il buon governo dell'ottimo principe. E, in tal modo, anche la più greve necessità si sublimava in nobilissima opzione.
Simultaneamente docente presso lo Studio, drammaturgo, segretario ducale, direttore di scena, organizzatore culturale, cortigiano tempestivo (fu, infatti, quello che allestì la raccolta di liriche a celebrazione della proclamazione a duca di E., con grand'irritazione di Marcantonio Antimaco, i cui versi non erano stati richiesti; fu quello che scrisse il poema mitologico Ercole, ilsupposto capostipite degli Estensi, il progenitore, quindi, di E.), fu Giovan Battista Giraldi Cinzio - lo stesso che, con la Didone, l'Altile, la Cleopatra, l'Orbecche, l'Egle assecondò la passione di E. per la tragedia e le favole drammatiche; e fu E., disposto ad assistere a rappresentazioni oltrepassanti le sei ore, il destinatario della sua Lettera in difesa della Didone - afarsi consapevole ideologo dell'esigenza di E. d'essere sottratto alla soggezione agli accadimenti con un'immagine alta, sin demiurgica. Fu il funzionario letterato Giraldi Cinzio, in certo qual modo, l'intellettuale organico al desiderio di E. di figurare - non solo di fronte agli altri, ma pure e soprattutto di fronte a se stesso - come protagonista ("si persuade esser il primo homo del mondo", aveva ironizzato Francesco I, parlando di lui col nunzio, come questi scriveva a Roma il 26 sett. 1535), il cui agire era stato ispirato non tanto da "quanto egli potesse", ma da "quanto egli dovesse fare".
E così, appunto, scriveva di lui Giraldi Cinzio nel Commentario delle cose di Ferrara e de' principi d'Este, ove E., migliore del suo presunto archetipo (peraltro già trasformato da Giraldi Cinzio nel poema omonimo in una sorta di cavaliere-gentiluomo ché le "fatiche", i "travagli", i "fatti egregi" sono tutti inscrivibili nella categoria dell'"honesto" e del "lodevole"), che "haveva domato i nemici con la mazza crudele", li vinceva "con la clementia, con la humanità e con la piacevolezza". Era lui l'Ercole cristiano, il quale, dal momento che la "gloria" conquistata "nelle attioni belliche" comportava "gran danno delle persone", decideva di conseguire "gloria per altra via", quella della "moderazione e temperamento" che - laddove l'Italia e la Cristianità tutta, "con gran calamità d'ogniuno", erano lacerate dalle "discordie" e dagli "odii de' grandissimi principi" - additava le vie della pace, rimuoveva "gli incommodi della guerra". Quasi modello di principe atto a scalzare quello nefasto sagomato da Machiavelli l'E. tratteggiato da Giraldi Cinzio, provvido, lungimirante, benefico. La bontà - articolata in ordinata amministrazione, autentica equità, illuminata sollecitudine - che allietava i suoi sudditi, era pure positivamente orientante nel contesto internazionale nel quale si proponeva e s'imponeva come sapienza arbitrale volta a disdire le prevaricazioni della forza, dedicandosi proficuamente, con gran "felicità" di risultati, "ad accordare le differentie de' principi". Col che la politica estera di E. assurgeva a nobilissima missione elargitrice di "pace" all'intera "christianità", ché inducente all'"accordo" e all'"amicitia" Enrico II e Filippo II. Non più subalterno, nella versione di Giraldi Cinzio, rispetto ad entrambi E., ma ascoltato mentore, ma interlocutore autorevole che esortava le "nimiche nationi" a desistere dal recarsi reciproca "ingiuria" con guerre sanguinose. Campione della "pace", dunque, E., o, quanto meno, suo fautore (Muzio attestava, nella lettera del 6 nov. 1574 al granduca mediceo, come E. "ragionando" con lui "da solo a solo" gli aveva detto "che egli non desiderava altro che la pace in Italia et che ogni giorno alla messa faceva cantar mottetti di preghi di pace"), ma anche - si preoccupava di aggiungere Giraldi Cinzio, che puntualmente scriveva quanto E. stesso desiderava che di sé fosse scritto - tremendo Alcide laddove dovesse battersi contro il mostro dell'eresia per l'honor" del Papato.
Così l'enfantizzazione mistificante - o, quanto meno, elusiva e sorvolante sui vari fallimenti di E. presunto consigliere di pace: E. "ha procurato largamente di trattar la pace fra" Carlo V ed Enrico II, ma senza approdare a "conclusione alcuna", scriveva ad esempio, il 30 dic. 1554, il nunzio presso l'imperatore Girolamo Muzzarelli al card. Innocenzo Del Monte, il quale, a sua volta, il 23 ottobre l'aveva informato dell'affannarsi di E. per "venir a capo" dei contrasti in vista del bene della Cristianità - di Giraldi Cinzio, comunque indicativa di ciò che E. avrebbe voluto essere, del ruolo che avrebbe voluto ricoprire. Di fatto l'impronta di E. è percepibile non già nella congiuntura internazionale, ma all'interno del Ducato estense. In fin dei conti era questo in cima ai suoi pensieri, tant'è che - come era notorio anche ai "ministri cesarei", stando alla relazione, del 1546, di Navagero - E. "suol dire alli suoi famigliari e domestici: io né per l'imperatore né per altri", vale a dire la Francia e la Sede apostolica, "voglio porre a rischio lo stato mio". Era questo il suo effettivo criterio direttivo che s'innalzava - per sua volontà -, nella confezione del letterato funzionario Giraldi Cinzio, in magistero di pace all'universo.
Rimarcabile anzitutto il perentorio segno urbanistico-architettonico di E. non casuale dedicatario delle serliane Regole ... di architettura ... (Venetia 1537).
Brescello fu trasformata da Terzo Terzi, con la cinta pentagonale di mura, in fortezza, nella cui piazza campeggiava al centro un gigantesco Ercole scolpito da Iacopo Sansovino. Alla cura e all'abbellimento delle "delizie" del Belvedere e di Belriguardo e alla elevazione del palazzo della Montagna e della Rotonda della Montagnola s'aggiunse l'erezione, tra il 1540 e il 1547, a Copparo - era questo il luogo di "delizie" preferito da E. - d'un palazzo, progettato da Terzi, con una grande loggia centrale e con all'interno di questa, la serie degli Estensi effigiati da Benvenuto Garofalo e Girolamo da Carpi, il quale rappresentò E. seduto nell'atto d'amministrare la giustizia. S'accentuò a Ferrara il suo volto di città capitale colla lastricazione della Giovecca del 1547, che diventò elegante via di passeggio e d'incontro, mentre le mura, eliminate le medievali merlature, vennero rafforzate, nel 1546, coll'addossamento di terrapieni e col ricorso a scarpate esterne; nel 1557, inoltre, coll'erezione di due baluardi, s'introdusse il sistema bastionato. Restaurato e modificato, dopo l'incendio del 1554, il castello che, con la sostituzione delle merlature con una balaustra in marmo, con le sopraelevazioni di torri e cortine, con l'aggiunta del giardino delle duchesse, fu meno maniero e più monumento cinquecentesco; e qui la camera da letto di E., la cosiddetta "sala dell'Aurora", diventò culmine dello splendore estense nel tripudio della decorazione pittorica. Sin sconvolgente per Modena il "grandimento", del 1535-1550, ai fini d'una riorganizzazione globale del sistema fortificatorio voluto da E. non senza sconcerto della popolazione per il conseguente atterramento d'aggregati abitativi e per l'eliminazione di coltivazioni arboree; "distrucitore di questa città" viene definito Cristoforo Casanova, l'ingegnere ferrarese che, con Giovanni Pasqualetti e Terzi, pure questi ferraresi, sovrintende ai lavori. L'anello pentagonale della nuova cerchia muraria - informata al sistema bastionato italiano constava di piccoli baluardi sporgenti dalle cortine al centro delle quali si situavano le piattaforme - fu l'esito d'una complessiva ridefinizione urbanistica che, svuotando d'ogni significato militare il castello, consegnò l'iconografia di Modena all'immagine, che durò sino all'abbattimento, tardottocentesco, delle mura, di solido angolato eminente sulla pianura. Come Ferrara era stata contrassegnata dall'Addizione erculea risalente al nonno di E., così Modena, coll'"amplificatione et fortificatione" decise da E. si dilatò, a sua volta, per l'addizione, anche questa erculea, della "terra nova" racchiusa dalle nuove mura.
Un cruccio per E. la necessità d'un controllo delle acque del Po, causa di rotte rovinose e di distruttive inondazioni; ma, nell'interesse dei suoi sudditi di Bologna ed Imola, Paolo III, nel 1542, l'indusse a desistere dalla progettata deviazione del Santerno dal Po di Primaro, l'innalzarsi dell'alveo del quale continuava perciò a destare apprensione.
Attuato, invece, per ordine di E., tra il 1550 ed il 1560, ad opera dell'ingegnere ferrarese Giovanni Maria Oroboni, l'intervento per porre rimedio alle devastazioni del Secchia nel basso Carpigiano. S'aggiunse, nel 1558, la realizzazione del canale di Cento convogliante nel Po di Ferrara e le acque del Centese di recente bonifica e quelle delle zone pedecollinari dell'area a sud di San Giovanni in Persiceto. Quanto alla bonifica dei 23.000 ettari del Polesine di San Giovanni Battista di Ferrara, voluta con determinazione da E., sarà realizzata sotto Alfonso.
Promotore, dunque, d'opere pubbliche E., ma non con dissesto dell'Erario, che anzi - ereditandolo dal padre in soqquadro - si preoccupò di riassestare. Diverso, altresì, rispetto a quello d'Alfonso I, l'atteggiamento di E. nei confronti del duello. Laddove il padre l'aveva tollerato ed era stato sinanco spettatore di quello, del 29 ag. 1529, organizzato in piazza a mo' di spettacolo, tra Niccolò Doria e Cristoforo Guasco ed aveva persino concesso, a mo' di campo franco agli aspiranti duellanti, il cosiddetto Praisolo, E. lo probì e, distruggendo il pergolato che lo delimitava, chiuse il Praisolo. Pur dedicatario di La orecchia del principe di Girolamo Muzio, pur annoverando tra i suoi cortigiani il Pigna (che pronuncerà l'orazione funebre in suo onore e sarà segretario d'Alfonso II) e, quindi, presumibilmente non avverso all'ideologia nobiliare, E. non dimenticò per questo come il buon governo cui aspirava non offrisse spazio legittimante il contendere per questioni d'onore. Una nobiltà puntigliosa e litigiosa non era certo un titolo di vanto per l'idea di principe che ispirava E., la quale, invece, contemplava il lustro dell'ateneo, la cui frequenza E. - analogamente a quanto avvenne altrove - impose, nel 1545, come obbligatoria ai sudditi desiderosi d'addottorarsi. Né, per quanto pressata dall'ingombrante prestigio di quelle di Padova e di Bologna, l'università ferrarese fu priva d'una sua specifica autorevolezza, dal momento che non mancarono - durante il ducato di E. - insegnanti di grido (e tra questi ci fu Alciato, cui E. scriveva, il 25 sett. 1542, rallegrandosi volesse "venire a leggere nello Studio di questa mia citade") e aggiornamenti disciplinari, riscontrabili nelle letture di nuova istituzione, come quella dei semplici.
Nuoceva, però, all'impegno didattico dei docenti l'impiego a corte di taluni di questi, e perché sottraeva le energie dei diretti interessati e perché suscitava, in tutti gli altri, oltre che invidie, ambizioni, appunto, cortigiane, foriere, se frustrate, di delusioni di cui, in ogni caso, risentiva la qualità degli insegnamenti. E le sorti dello Studio passarono, nel 1557, in secondo piano, quando E. - incalzato dal bisogno di denaro per le urgenze belliche - non esitò a confiscare gli stipendi dei professori, determinando così la chiusura dell'università riattivata in seguito da Alfonso II. Un provvedimento, quello di E., che non attesta solo una mancanza di riguardo per lo Studio, di cui pur era stato orgoglioso, ma che, al di là di questo, ci dice i limiti della sua sensibilità politica. È ancora principe del Rinascimento - come, d'altronde, si conviene ad un uomo ammiratore dell'Ariosto, protettore d'artisti, appassionato di medaglie e monete e collezionando le antiche e promuovendo la medaglistica, amante del teatro, cultore di musica (compongono per lui Alfonso Dalla Viola ed il fiammingo Cipriano de Rore; allietata da liuti, cetre, viole la vita della corte), fiero dei suoi arazzi dovuti ai fiamminghi Giovanni e Niccolò Karcher, Giovanni Roost e Gerardo Slot al punto da farli esporre, nel 1557, dalla loggia del palazzo estense sul veneziano Canal Grande -, sia pure autunnale, sia pure manieristico, piuttosto che un uomo di Stato con un'accezione ulteriore. La stessa valorizzazione, da parte di Giraldi Cinzio, di E. quale Ercole pacifico, corrisponde non tanto ad una "pace" intesa come consolidamento dello Stato ed incremento produttivo quanto come dimensione ottimale ad appagare l'ambizione di E. di porsi sullo stesso piano dei grandi sovrani e dell'imperatore per poi risaltare, tra loro e di fronte a loro, a mo' di arbitro.
Tratto in ogni caso distintivo, anche in termini comparativi, del ducato di E. - e in ciò si mescolano convergendo benevolenza principesca, valutazioni di convenienza economica (dato l'evidente "comodo" dei "sudditi") ed effettiva apertura mentale (sicché, ad esempio, è attiva, per due anni nello Studio, dall'ottobre del 1541, una cattedra d'ebraico) la fioritura della vita della comunità ebraica.
Una presenza già assecondata da suo nonno e suo padre; ma E. lo fa in maggior misura, più sistematicamente, più - vien da dire - consapevolmente, se non altro perché in tempi contrassegnati altrove da un'inasprita intolleranza, da un'incrudelita vessazione, da un'atroce persecuzione. Agli occhi degli espulsi dalla penisola iberica, dei cacciati da Napoli e Milano, dei transfughi dall'Europa orientale, dei fuggiti da Ancona e da Bologna Ferrara diventa, come la proclama Samuele Usque (l'autore delle Consolaçam as tribulaçoens de Ysrael), "ilrifugio d'Italia più sicuro", quello ove, a riconoscimento di Abramo Usque (con tutta probabilità padre di Samuele), gli ebrei possono approdare "seguros por el tempestuoso mar che la detractoras lenguas pueden levantar". C'è spazio per sefarditi ed ashkenaziti, c'è possibilità pei marrani - garantiti da un salvacondotto di E. del 12 febbr. 1550 che li protegge se riabbracciano l'ebraismo anche se "per qual sia stato rispetto havessero detto non essere hebrei et servitisi del nome christiano" - di ritorno alla fede avita. "Honesta" per E. la "dimanda" di porre "domicilio in questa nostra città di Ferrara et in quella esercitare le loro arti et mercantie", provenga essa - come si pronuncia nel 1538 - da "qual si voglia mercantante hebreo di Boemia o d'altra natione" o - come precisa il 23 dic. 1555 - da "portugliesi et spanuoli di stirpe hebrea" e, pure, di "qualsivoglia parte". Benvenuto, anche in vista dell'utile che ne trarrà il Ducato, chi vuol "venir ad habitar o negotiar nelle terre et stato estense", godendovi "quella medesima libertà che hanno li mercanti et artefici christiani". È nella Ferrara retta da E. che ripara Samuele Abarbanel continuandovi la sua attività bancaria e il suo profuso mecenatismo. Consistente ed economicamente attiva la presenza ebraica a Ferrara, forse la più significativa - e numericamente, ché superiore alle 2.000 persone, e per vivacità d'intrapresa e per livello culturale dell'Italia del tempo; tant'è che, il 21 giugno 1554, a riconoscimento della sua centralità per gli ebrei delle altre città italiane, vi si celebra un congresso rabbinico, cui prendono parte, oltre a quello di Ferrara, i rappresentanti d'altre tredici comunità ebraiche, tra le quali figurano quelle di Roma, Venezia, Mantova, Padova, Bologna, Modena, Reggio Emilia.
E rinasce rigogliosa - durante il ducato di E. - la tipografia ebraica ché escono, tra il 1551 ed il 1558, quasi tutti dalla stamperia di Abramo Usque, una trentina di volumi in ebraico e una decina in spagnolo o in portoghese. Vertice celebre di tanto fervore tipografico la traduzione (che si rifà alla versione quattrocentesca del rabbi Mosè Arragel de Gradall) letterale in spagnolo dall'ebraico del Vecchio Testamento, naturalmente con notevoli divergenze dalla Vulgata, offerta da un superbo volume in folio in carattere semigotico a due colonne. Trattasi infatti della Biblia en lengua española..., stampata - in esemplari differenziati nel frontespizio e nel colophon, in base alla duplice destinazione a lettori ebraici e cristiani (e questi ultimi con dedica a E.), entrambi comunque muniti del nullaosta inquisitoriale e del privilegio ducale di E. - dall'Usque a spese di Girolamo Varga ossia Yom. Tov Atias, nel 1553, proprio nell'anno in cui E. si piega anch'egli alla distruzione del Talmūd ordinata da Giulio III nell'agosto, esemplata dal rogo romano del 9 settembre dei libri talmudici cui segue l'ordine dell'Inquisizione, del 12 settembre, a tutti i principi di fare altrettanto. Non è a tal punto forte da potersi opporre a Roma. E - quando l'inquisitore generale Antonio Ghislieri, il futuro Pio V, nel maggio del 1558, gli chiede, da parte di Paolo IV, l'espulsione degli ebrei - deve, anziché reagire con fermezza, accontentarsi di rispondere evasivamente. Ciò non toglie che gli ebrei a Ferrara rimangano. Ed E. è loro venuto incontro nel suo decreto del 4 ag. 1556 col quale accoglie il desiderio di Salomone Riva ("hebreo mio familiare", l'aveva definito raccomandandolo anni prima) "d'introdurre uno studio d'hebrei" a Ferrara. Donde la concessa erezione d'un istituto colle possibilità d'accendervi, per allievi "sì forestieri come sudditi nostri" sia ebrei sia cristiani (di fatto, però, gli "scolari" saranno solo ebrei), uno o più insegnamenti "d'ogni scienza hebrea". Uno studio siffatto - E. ne è convinto - "non può non tornare se non ad honore ed ornamento di essa nostra cittade".
Il 25 sett. 1559 E. - tra i cui ultimi provvedimenti va, forse, annoverata l'istituzione del Consiglio di segnatura, formato da tre o quattro giuristi funzionari, per l'esame delle suppliche (ed egli si riserbava quelle di "grazia", mentre lasciava a questa sorta di segreteria di gabinetto la decisione su quelle di "giustizia") - s'ammalò, come riporta un cronista del tempo, di "grave infirmità". Si trattava, par di capire, d'un attacco cardiaco. Vano l'adoperarsi attorno al suo letto dei "periti medici" accorsi, ché, il 3 ottobre, E. morì "nelle sue stanze di Castello vecchio". Alla sepoltura, svoltasi "privatamente", nella chiesa del Corpus Domini, seguirono, il 27 novembre - ricorrendo, all'uopo, ad una statua di stucco riproducente le sembianze di E. - le esequie solenni, dopo il rientro del primogenito Alfonso - assente alla scomparsa del padre - e la sua proclamazione a duca.
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