ROBERTI (de' Roberti), Ercole
ROBERTI (de’ Roberti), Ercole. – Figlio di Antonio, Ercole Roberti, citato nelle fonti documentarie quattrocentesche anche come Ercole Grandi, nacque a Ferrara verso il 1451.
L’ambiguità del cognome, che ha generato nella storiografia, fino a tutto il XIX secolo, l’idea erronea di due pittori di nome Ercole attivi tra Ferrara e Bologna negli stessi anni, fu sostanzialmente risolta da Francesco Filippini, il quale nel 1917 riconobbe in Ercole Grandi ed Ercole Roberti lo stesso artista (1917, p. 52). A differenza però di quanto ipotizzato da Filippini e recepito dalla storiografia recente, l’oscillazione non procedeva dal ricordo della famiglia materna, di cui nulla si sa, ma dal soprannome del padre, di professione sarto, noto come Antonio ‘Grande’ de’ Roberti, e così citato fin dal 1456 nei documenti ferraresi (Franceschini, I, 1993, p. 453). Ne abbiamo indiretta conferma da un atto del 1469, in cui il fratello maggiore di Ercole, Eugenio, rettore della chiesa di Lagusello, viene citato come «Eugenio de Roberto», figlio di «maestro Antonio Grande» (p. 755). Oltre a Ercole, Antonio Roberti, residente a Ferrara nella contrada di Santa Croce, ebbe almeno sei figli: Eugenio, Giorgio, Giovanni, Pompeo, Polidoro e Pietro Andrea, i primi due avviati alla carriera ecclesiastica, gli altri alle attività artigianali.
L’anno di nascita di Roberti può essere fissato solo per via induttiva e con un certo margine di incertezza. Giorgio Vasari lo dice morto all’età di quarant’anni e dunque nato nel 1456, o poco prima (Vasari, 1568, 1878, III, p. 147); il dato sembrerebbe confermato da una lettera di Roberti, che il 19 marzo 1491 scriveva al duca Ercole d’Este di avere ormai passato «il mezzo dei suoi anni» (Franceschini, II, 1, 1995, p. 546), di essere cioè, secondo l’opinione comune, poco oltre la metà dei settant’anni. Roberto Longhi suggeriva però di arretrare verso il 1450 la data di nascita, ritenendo inconciliabili le prime prove di Ercole Roberti, da lui individuate sulle pareti di Schifanoia e dunque datate 1469, con la mano di un garzone quattordicenne, sia pure di genio (Longhi, 1956, p. 36). Un atto notarile del 1476, rafforza questa proposta longhiana, dato che il ruolo di testimone che Roberti vi interpreta richiedeva un’età non inferiore ai venticinque anni, il che arretrerebbe quantomeno al 1451 l’anno di nascita.
Già dal 1467, in realtà, Roberti era stato collocato nella bottega di Gherardo da Vicenza, pittore fra i più attivi a corte all’epoca di Borso d’Este, assai impegnato nella decorazione di carte da gioco, stendardi, paramenti, cassoni e così via.
Questo dato, emerso dalla documentazione in tempi recenti (Syson, 2002, p. 69; Toffanello, 2010, p. 274), offre un chiaroscuro all’immagine finora un po’ evanescente del giovane artista e della sua formazione, ma finisce per fornire di riflesso anche elementi interpretativi sulla personalità del suo maestro. In effetti, affermato da Longhi l’esordio artistico di Roberti sui ponteggi di Schifanoia, e ormai comunemente riconosciuta la sua mano nel riquadro di Settembre con il Trionfo di Vulcano, gli studi degli ultimi quarant’anni hanno però modificato non di poco le linee del suo apprendistato, rispetto all’immagine tradizionale e uniforme di un ‘allievo Del Cossa’. Già Carlo Volpe suggeriva che il giovanissimo Roberti fosse stato introdotto a Schifanoia nel 1469 non direttamente da Francesco Del Cossa, ma dal Maestro di Agosto, autore del Trionfo di Cerere, personalità che in tempi più recenti Luke Syson ha proposto di identificare con Gherardo da Vicenza (Syson, 2002, pp. 55-61). Ora, il documento che nel febbraio del 1467 mostra Roberti garzone nella bottega di Gherardo, da un lato conferma la proposta longhiana del Settembre come prima prova dell’artista, dall’altro arricchisce il panorama della sua formazione: prima di incontrare Del Cossa a Schifanoia (1469) e di seguirlo a Bologna (1470), Roberti ebbe probabilmente modo di entrare in contatto con gli artisti più attivi alla corte estense, Gherardo da Vicenza e lo stesso Cosmè Tura (Toffanello, 2010, p. 273), recependo da quella tradizione ‘espressionista’ caratteri originari a cui, pur attingendo in seguito ad altre e assai diverse fonti stilistiche, non avrebbe mai abdicato.
In ogni caso, qualunque fosse il suo primo percorso formativo, non c’è dubbio che quello avvenuto a Schifanoia con Francesco Del Cossa, di lui più anziano di vent’anni, sia stato per Roberti l’incontro decisivo. Già nel riquadro inferiore di Luglio è possibile individuare, se ne accogliamo l’attribuzione a Roberti (Sgarbi, 1987) peraltro recentemente messa in dubbio (Farinella, 2007, pp. 106-113), le prime tracce di queste nuove scelte del giovanissimo artista, che sembra ispirare le sue «moderne trovate illusive» al modello cossiano del riquadro di Marzo (Toffanello, 2010, p. 77). Quando poi, nel 1470, Del Cossa si dichiarò insoddisfatto, e anzi mortificato del compenso attribuitogli da Borso d’Este per la grande impresa della parete orientale di Schifanoia, e decise di abbandonare Ferrara, Roberti lo seguì a Bologna.
Tra il 1470 e il 1485, ragioni d’arte e di affari lo portarono a fare la spola tra Bologna e Ferrara, ma anche in questo risulta associato al maestro: il 13 novembre 1476, a Ferrara, Roberti fu presente come testimone alla divisione del patrimonio di Francesco e Ludovico Del Cossa, eredi del defunto maestro Cristoforo (Franceschini, II, 1, 1995, p. 131), e di nuovo a Ferrara nel febbraio del 1479, per stipulare con l’orafo piacentino Giovanni di Giuliano ‘de Nuce’ una società per l’esercizio della doratura pittorica, impresa in cui fu coinvolto anche il fratello Polidoro (p. 208). Di problemi familiari Roberti continuò a occuparsi attivamente anche negli anni successivi: nell’ottobre del 1485, con i fratelli Giovanni, Pompeo e Polidoro e con le figlie del defunto fratello Pietro Andrea, concordò la divisione dell’eredità paterna, un patrimonio piuttosto consistente, costituito dalla casa di famiglia di contrada S. Croce e da terre arative e vignate, situate in varie località del contado ferrarese (Franceschini, II, 1, 1995, p. 353). Tuttavia quella divisione non segnò la fine della collaborazione con i fratelli: nel corso del 1486, Ercole, Pompeo e Polidoro provvidero in comune al pagamento dei debiti del defunto fratello Eugenio e ancora in comune acquistarono a Ferrara una casa nella contrada San Romano (Toffanello, 2010, p. 274).
Nel quindicennio 1470-85 il centro degli interessi di Roberti fu però certamente a Bologna. Il periodo bolognese, probabilmente il più fecondo per l’artista, è anche quello meno puntualmente documentato, il che ha reso estremamente problematica la definizione cronologica del suo catalogo. È comunque accertato che fra il 1470 e il 1473 collaborò attivamente al polittico commissionato a Del Cossa da Floriano Griffoni per la cappella di famiglia in S. Petronio (Cavalca, 2013, pp. 334-336, 380), decorando la predella con i Miracoli di s. Vincenzo Ferrer, ora alla Pinacoteca Vaticana, e le tavolette dei pilastrini laterali con figure di santi, ora conservate a Ferrara, Parigi, Rotterdam e Venezia. Unico riferimento cronologico per l’opera è il contratto con l’intagliatore della cassa destinata a conservare le tavole, il maestro Agostino de’ Marchi, contratto stipulato il 19 luglio 1473, il che consente di fissare quella data per il completamento del polittico (Supino, 1938, p. 196; Molteni, 1995, p. 41).
Negli stessi anni, o poco dopo il completamento del polittico Griffoni, il giovane Roberti era già attivo in autonomia e realizzava per la chiesa di S. Lazzaro di Ferrara una pala di notevole impegno, con la Madonna e il Bambino e i ss. Agostino, Apollonia, Caterina e Girolamo (Molteni, 1995, pp. 125 s.); la tavola, già conservata dal Museo di Berlino e distrutta da un incendio nel 1945, gli era stata commissionata forse con la mediazione del fratello Giorgio, canonico in quella collegiata. Nel periodo immediatamente successivo (1474-75) si collocano il S. Girolamo della collezione Barlow di Londra (Longhi, 1956, p. 137) e i ritratti di Giovanni II Bentivoglio e Ginevra Sforza della National Gallery of Art di Washington, a lungo attribuiti a Piero della Francesca per affinità con il Dittico di Urbino.
Di lì a poco però Roberti fu coinvolto dal maestro in un’impresa pittorica di straordinaria importanza, la decorazione della cappella Garganelli in S. Pietro; nella definizione che ne diede Longhi, negli Ampliamenti del 1940, quello costituì per il decennio 1475-85 «il più gran fatto figurativo di tutta Italia» (Longhi, 1956, p. 133): impresa di cui, tuttavia, rimane solo un frammento minimo, ancorché di struggente bellezza (la Maddalena piangente della Pinacoteca di Bologna), e per il resto copie e testimonianze indirette (Ciammitti, 1985; Molteni, 1995, pp. 57-80). Morto Francesco Del Cossa di peste nel 1478 e morto anche il committente, Domenico Garganelli, Roberti si assunse con il figlio di quest’ultimo, Bartolomeo, l’impegno di completare quelle pareti secondo il disegno del maestro, e vi si dedicò intensamente negli anni 1481-85. Nello stesso periodo realizzò altre opere di altissimo livello.
Fra queste, la tavola per la chiesa di S. Maria in Porto a Ravenna, ora alla Pinacoteca di Brera, da collocarsi all’inizio del quinquennio, è opera densa anche di contenuti teologici, che allude, nelle strutture e nelle geometrie del padiglione e del trono ottagonale, alle complesse simbologie cristologiche dell’Incarnazione e della Resurrezione (Molteni, 1995, pp. 129 s.).
Fra le opere che completano il corpus di questi anni, in gran parte già delineato nell’Officina longhiana e di recente arricchito da Joseph Manca e Monica Molteni, si dovranno ricordare almeno la predella dell’altare maggiore di S. Giovanni in Monte, con la Pietà, ora alla Walker Art Gallery di Liverpool, e la Cattura di Cristo e la Salita al Calvario della Gemäldegalerie di Dresda; il Ritratto di Giovanni Bentivoglio, conservato presso l’Università di Bologna; la Madonna con il Bambino di Chicago (Art Institute); e i Due profili, maschile e femminile, realizzati su recto e verso della stessa tavola, ora in collezione privata, che attestano la meditazione su temi antonelliani percettibile verso il 1485 nella produzione di Roberti (Molteni, 1995, p. 151). Le due tavolette con l’Adorazione dei Magi e la Pietà della National Gallery di Londra e la Madonna col Bambino della Pinacoteca di Ferrara, a lungo attribuite anch’esse agli anni bolognesi, devono invece essere posticipate all’ultimo periodo (1486-96), dopo il ritorno di Roberti a Ferrara (Molteni, 1995, pp. 154 s.).
Nel 1485, infatti, con una scelta forse dettata anche da invidie suscitate a Bologna dall’immediato e travolgente successo degli affreschi Garganelli (Vasari, 1568, 1878, III, pp. 144 s.; Cavalca, 2013, p. 54), Roberti tornò definitivamente a Ferrara, rientrando nell’ambiente di corte che aveva lasciato nel 1470. E anzi, dal 1486 numerosissimi documenti prodotti dalla Cancelleria estense lo mostrano in modo inequivocabile occupare il ruolo di primo pittore di corte, che era stato fino allora di Cosmè Tura (Toffanello, 2010, pp. 274-278; Franceschini, II, 2, 1997, pp. 369 s.). Il suo salario mensile di 20 lire, regolarmente corrisposto dalla Camera ducale a partire dal 1487, era fra i più alti di quelli attribuiti ai pittori e non lontano da quello di 26 lire percepito dagli ingegneri, come Biagio Rossetti. Oltre a questo, Roberti veniva gratificato di frequente con doni e privilegi da parte del duca ed ebbe da lui, nei dieci anni in cui collaborò con la corte, numerosi attestati di stima e di fiducia personale, meritati non solo grazie all’attività di ritrattista ufficiale, ma attraverso un impegno assiduo come coordinatore di complessi cicli pittorici, disegnatore di progetti architettonici e di sculture, direttore artistico e organizzatore di eventi mondani; del giovane principe Alfonso, figlio di Ercole d’Este, Roberti fu anche amico personale (Molteni, 1995, p. 87; Toffanello, 2010, p. 85).
Il primo incarico documentato come pittore di corte fu, nell’agosto del 1486, un quadretto per la duchessa Eleonora, cui fece seguito, nel maggio del 1487, uno per suo figlio Ippolito, nominato all’età di otto anni arcivescovo di Esztergom e primate d’Ungheria, e quindi in partenza per quelle terre (Toffanello, 2010, p. 274). Da quel momento si moltiplicano gli impegni di Roberti, costantemente alla guida di gruppi anche numerosi di pittori, muratori, carpentieri, che coordinava sia dal punto di vista artistico sia amministrativo. Fra il 1489 e il 1491 fu impegnato nella decorazione dell’appartamento della duchessa e del camerino del principe Alfonso, ma anche nella direzione degli apparati nuziali delle figlie del duca, Isabella e Beatrice, e dello stesso Alfonso. Per Isabella, futura marchesa di Mantova, curò la decorazione di cassoni, del carro e dell’arco trionfale e del baldacchino nuziale e diresse la cerimonia del febbraio del 1490, accompagnando la sposa a Mantova e trattenendosi presso di lei più di un mese. Lo stesso ruolo Roberti ebbe nei preparativi e nella cerimonia nuziale di Beatrice, sposa di Ludovico il Moro a Pavia il 17 gennaio 1491, e in quelli per le nozze di Alfonso con Anna Sforza, celebrate anch’esse a Pavia cinque giorni dopo quelle di Beatrice.
Accasati i figli del duca, ripresero per lui gli incarichi più propriamente artistici, anche se nella citata lettera del 19 marzo 1491 Roberti si lamentava per i crediti cospicui che vantava con la Camera e che non riusciva a riscuotere (Franceschini, II, 1, 1995, p. 799). Nel 1492 decorò un’immagine della Vergine nella loggia della Gabella Grossa e completò la cappella e l’appartamento della duchessa nell’ala settentrionale del castello. In questi lavori il suo ruolo riguardava sia la direzione artistica delle decorazioni sia la parte amministrativa, come emerge dai documenti che lo mostrano impegnato nei calcoli delle giornate lavorative dei suoi collaboratori (Toffanello, 2010, p. 85). Nel 1493-94 il grado di familiarità e di intimità dell’artista con la famiglia ducale toccò il suo apice, giungendo anzi a un livello critico e al conseguente suo allontanamento dalla corte. Il 13 febbraio 1493 il segretario ducale, Siverio Siveri, si lamentava in una lettera alla duchessa Eleonora perché il duca da giorni e giorni, anziché attendere agli affari di governo, se ne stava a Belriguardo a osservare Roberti intento a disegnare una «grande e bella fabula» (Franceschini, II, 2, 1997, pp. 46 s.): squarcio interessantissimo di vita di corte, interpretato di recente come manifestazione di una precoce attitudine performativa dell’arte rinascimentale (Toffanello, 2010, p. 86, nota 187). Si trattava della Storia di Amore e Psiche, opera molto complessa e oggi perduta, progettata dal duca stesso per il proprio camerino nella delizia di Belriguardo, messa in sequenza narrativa dall’umanista Nicolò da Correggio, autore di un volgarizzamento di Apuleio, e disegnata da Roberti che, realizzati i cartoni delle varie scene, curò poi la decorazione delle pareti, coordinando l’opera di alcuni dei migliori artisti ferraresi: tutto questo sotto gli occhi costantemente e amorevolmente attenti del duca.
Siamo davanti a un passaggio fondamentale, dunque, non solo della biografia dell’artista, ma anche della storia della committenza, espressione di una sensibilità particolare per i valori artistici che Ercole d’Este avrebbe poi trasmesso al figlio Alfonso (Toffanello, 2010, pp. 85 s.). Purtroppo per Roberti, quell’intimità fu turbata e bruscamente interrotta nel dicembre del 1494, quando fu allontanato da corte per gli influssi negativi che avrebbe avuto sull’educazione del giovane Alfonso, incoraggiando i suoi comportamenti sconvenienti e anzi accompagnandolo in allegre brigate notturne (Manca, 1992, p. 221).
Non furono però, quelli di corte, gli unici impegni artistici di Roberti in questi suoi ultimi anni. Il 24 gennaio 1494 si accordò per realizzare, per un compenso di 100 scudi d’oro, una grande pala d’altare per la chiesa di S. Spirito, commissionata da Clara Caligi, vedova di Francesco Clavell (Franceschini, II, 2, 1997, pp. 108-110). L’opera, che Roberti non riuscì a completare, era assai complessa, prevedendo l’Annunciazione al centro, l’Adorazione dei Magi e la Circoncisione nella predella, quattro figure di santi nei pilastrini e il Padre Eterno con la Colomba dello Spirito Santo nel coronamento.
Il rispetto dell’impegno assunto con la vedova Clavell gli fu impedito dalla morte precoce, ma anche dai numerosi altri incarichi di quel periodo: la stessa Isabella d’Este, nel maggio del 1494, attendeva invano a Mantova i ritratti del padre Ercole e del fratello Alfonso, che Roberti si era da tempo impegnato a realizzare (Toffanello, 2010, p. 277). A distoglierlo erano lavori di grande complessità e di natura prevalentemente architettonica, realizzati nei cantieri dell’Addizione Erculea. Nel marzo del 1493 disegnò le decorazioni marmoree di palazzo Bevilacqua, poi scolpite da Gabriele Frisoni, e l’anno successivo quelle di una cappella della chiesa di S. Paolo, poi abbattuta in seguito al terremoto del 1570, e del portico della casa di Giovanni da Roncogallo in Piazza Nuova (p. 274). Fra il 1495 e il 1496, infine, realizzò il complesso progetto decorativo delle due facciate e degli interni (navate, colonne, capitelli, fregi marmorei) della chiesa di S. Maria in Vado, progetto poi affidato allo scultore Antonio di Gregorio, così come quello della colonna marmorea per il monumento di Ercole I, disegnata da Roberti negli anni precedenti e avviata a realizzazione dopo la sua morte, nel 1499, ma mai condotta a termine (Franceschini, II, 2, 1997, pp. 350 s.).
Il catalogo degli ultimi anni si arricchisce di opere destinate alla devozione privata, espressione di un’attitudine «meno esasperata, più preziosa e ricercata» (Molteni, 1995, p. 155), come la Madonna col Bambino degli Staatliche Museen di Berlino, la Raccolta della manna della National Gallery di Londra, e l’Ultima cena, anch’essa alla National Gallery e già da Longhi considerata capolavoro del Roberti maturo. Agli anni estremi va assegnato anche il trittico delle Eroine dell’antichità (Bruto e Porzia, Lucrezia, La Moglie di Asdrubale), cui collaborò probabilmente l’allievo Giovan Francesco Maineri, tavole destinate in origine alla decorazione di cassoni e oggi conservate, rispettivamente, a Fort Worth, Modena e Washington (Molteni, 1995, pp. 176-178).
Morì a Ferrara fra il 9 maggio 1496, data dell’ultimo pagamento della Camera ducale, e il successivo 28 maggio, giorno in cui la Compagnia della Morte provvide alle spese per il suo funerale e per la sepoltura nella chiesa di S. Domenico (Franceschini, II, 2, 1997, p. 205).
La tradizione critica sull’opera pittorica di Ercole Roberti inizia assai presto. Del tutto inconsueto, nei confronti di un artista padano, è l’aperto e incondizionato apprezzamento espresso da Vasari: «aveva grandissima intelligenza e si affaticava nelle cose dell’arte» (Vasari, 1568, 1878, III, p. 144). Sembra ormai accertato, peraltro, che il giudizio di Vasari su Roberti sia stato influenzato da Michelangelo (Molteni, 1995, p. 15) che, come testimonia Pietro Lamo nel 1560, di fronte agli affreschi Garganelli avrebbe definito quell’opera «una meza Roma de bontà» (Graticola di Bologna..., a cura di M. Pigozzi, 1996, p. 90). Una conferma del peso che l’opinione di Michelangelo ebbe su quella di Vasari viene, secondo Longhi, dal fatto che il superlativo «grandissima intelligenza» fa la sua comparsa solo nella seconda edizione delle Vite vasariane, venendo comunque a completare un elogio superiore a tutti quelli espressi dallo storico aretino per gli artisti settentrionali, come Mantegna, Bellini, Melozzo o Francia (Longhi, 1956, pp. 134-137). Che poi questa esaltazione di Roberti da parte di Vasari implichi una neppur troppo velata ‘toscanizzazione’ della sua opera è considerazione fin troppo ovvia. Prima ancora di Vasari, che però ne è lodevolmente immune, inizia anche l’inganno dei ‘due Ercoli’, Roberti e Grandi, che dal Viridario di Giovanni Filoteo Achillini, pubblicato nel 1513, si diffonde in tutta la tradizione successiva, fino ai primi del Novecento. Notevoli apporti documentari, decisivi nel definire la personalità artistica di Roberti e anche l’eclettismo della sua formazione, pur senza risolvere il problema dello sdoppiamento, vennero nel corso dell’Ottocento dalle ricerche archivistiche di Luigi Napoleone Cittadella e soprattutto di Adolfo Venturi. Un contributo importante, infine, non solo per realizzare la sintesi definitiva dei due Roberti e per unificare i loro cataloghi, ma anche per delineare una fisionomia artistica, un «temperamento diverso dal Cossa», portato a un disegno più secco e a paesaggi meno fantastici e più saldamente architettati, venne da Francesco Filippini nel 1917 (pp. 52 s.).
Sembra ragionevole far iniziare con l’Officina ferrarese di Longhi la moderna tradizione critica sull’opera di Ercole Roberti: Longhi stesso, negli Ampliamenti del 1940, considerava la ricomposizione virtuale del Polittico Griffoni «una delle principali fatiche dell’Officina» (1956, p. 128). E in effetti il ruolo del «genio numero tre della pittura ferrarese», nel disegno generale di quella tradizione delineato da Longhi, è di primissimo piano: terzo, si intende, per cronologia e non per importanza, dato che proprio grazie alla «forza atavica e selvaggia del genio di Ercole Roberti» l’arte ferrarese aveva conservato una sua riconoscibile cifra stilistica nel contesto dell’arte italiana del Quattrocento, accanto e sullo stesso piano rispetto a Bellini, Antonello, Piero della Francesca (Longhi, 1956, p. 43). Se in merito al catalogo di Roberti e alla sua cronologia qualche assestamento significativo rispetto alle ricerche di Longhi si registra senza dubbio, soprattutto negli ultimi anni, si può affermare altrettanto serenamente che la personalità artistica di Roberti è ancora, in buona sostanza, quella delineata nell’Officina longhiana. Anzi, le recenti e già citate acquisizioni documentarie sull’apprendistato nella bottega di Gherardo da Vicenza, che valgono a radicare meglio il giovane artista nella tradizione di Cosmè e degli artisti di corte, non fanno che dare spessore alle riflessioni di Longhi sull’autonoma ispirazione di Roberti rispetto al magistero del Cossa, e sull’intelligenza ‘elegante’ che, già nella predella del Polittico Griffoni, gli consente di distinguersi dal maestro senza turbare l’unità stilistica dell’opera (Longhi, 1956, p. 41).
Mai assopita nel corso del Novecento (si dovranno ricordare almeno gli interventi di Carlo Volpe, Mario Salmi, Lionello Puppi, Eberhard Ruhmer), l’attenzione su Roberti si è fatta particolarmente vivace negli ultimi trent’anni, anche a seguito di importanti eventi espositivi (Bentivolorum magnificentia; Tre artisti nella Bologna dei Bentivoglio; Ercole de’ Roberti. The Renaissance in Ferrara). Un contributo significativo per la lettura virtuale dell’opera più importante di Roberti, gli affreschi della cappella Garganelli, è venuto nel 1985 dalla ricostruzione ipotetica di Luisa Ciammitti (Ciammitti, 1985, pp. 117-224), che ha integrato su base documentaria le dettagliate descrizioni di Vasari, fra gli ultimi con Lamo e Leandro Alberti ad aver visto integro quel capolavoro.
Fonti e Bibl.: P. Lamo, Graticola di Bologna, ossia Descrizione delle pitture, sculture e architetture della città fatta l’anno 1560, a cura di M. Pigozzi, Bologna 1996, pp. 90 s.; G. Vasari, Le vite... (1568), con nuove annotazioni e commenti di G. Milanesi, III, Firenze 1878, pp. 141-148; C. Cittadella, Catalogo istorico de’ pittori e scultori ferraresi, I, Ferrara 1782, pp. 105-118; L.N. Cittadella, Notizie relative a Ferrara per la maggior parte inedite ricavate dai documenti ed illustrate, II, Ferrara 1864, pp. 583, 588 s., III, 1868, pp. 220, 341 s.
A. Venturi, L’arte ferrarese nel periodo d’Ercole d’Este, in Atti e memorie della Deputazione di Storia Patria per le province di Romagna, 6 (1888), pp. 91-119, 350-422; ibid., 7 (1889), pp. 368-412; C. Ricci, La pala portuense di E. de’ Roberti, in Rassegna d’arte, IV (1904), pp. 11 s.; F. Filippini, Ercole da Ferrara ed Ercole da Bologna, in Bollettino d’arte, XI (1917), pp. 49-64; G. Bargellesi, Ercole da Ferrara, in Rivista di Ferrara, II (1934), 19, pp. 399-415; I.B. Supino, L’arte nelle chiese di Bologna: secoli XV-XVI, Bologna 1938, pp. 196-198, 222-224; R. Longhi, Officina ferrarese, 1934. Seguita dagli Ampliamenti, 1940, e dai Nuovi ampliamenti, 1940-55, Firenze 1956, pp. 33-58, 128-133, 180-182; M. Salmi, E. de’ Roberti, Cinisello Balsamo 1960; E. Ruhmer, E. de’ Roberti, in Enciclopedia universale dell’arte, XI, Venezia-Roma 1963, coll. 616-622; L. Puppi, E. de’ Roberti, Milano 1966; Bentivolorum Magnificentia. Principe e cultura a Bologna nel Rinascimento, a cura di B. Basile, Roma 1984, pp. 285-335; Tre artisti nella Bologna dei Bentivoglio (Francesco del Cossa, E. de’ Roberti, Nicolò dall’Arca) (catal.), Bologna 1985, passim; L. Ciammitti, E. R.. La cappella Garganelli in San Pietro, ibid., pp. 117-224; C. Volpe, Palazzo Schifanoia: gli affreschi, in Musei ferraresi, XV (1985-1987), pp. 73-78; V. Sgarbi, Ercole in Luglio, in Per Schifanoia: studi e contributi critici, a cura di V. Sgarbi, Ferrara 1987, pp. 34-36; A. Bacchi, Sul Maestro d’Agosto, ibid., pp. 37-41; J. Manca, The art of E. de’ Roberti, Cambridge 1992; A. Franceschini, Artisti a Ferrara in età umanistica e rinascimentale. Testimonianze archivistiche, Ferrara-Roma, I, 1993, pp. 453, 755, II, 1, 1995, pp. 131, 208, 546, 799, II, 2, 1997, pp. 46 s., 353, 369 s.; M. Molteni, E. de’ Roberti, Milano 1995; E. de’ Roberti. The Renaissance in Ferrara (catal., Los Angeles), a cura di D. Allen - L. Syson, London 1999; L. Syson, Tura and the “Minor Arts”: the school of Ferrara, in S.J. Campbell, Cosmè Tura. Painting and design in Renaissance Ferrara, Boston-Milan 2002, pp. 55-61, 69; Il Palazzo Schifanoia a Ferrara, a cura di S. Settis - W. Cupperi, II, Modena 2007, passim (in partic. V. Farinella, I pittori, gli umanisti, il committente: problemi di ruolo a Schifanoia, pp. 83-138); M. Toffanello, Le arti a Ferrara nel Quattrocento. Gli artisti e la corte, Ferrara 2010, pp. 35-77, 81-89, 209-278; C. Cavalca, La pala d’altare a Bologna nel Rinascimento, Milano 2013, pp. 11-56, 138-185, 332-393.