ERINNI (᾿Ερινύς, Erinnys o Erīnys)
In origine demoni maligni intenti a danneggiare l'uomo per puro spirito di malvagità, quali troviamo in tutte le religioni primitive e, come relitto, nelle religioni allo stadio progredito.
Il nome stesso, connesso con ἔρις, la contesa, ne indica chiaramente la natura. Il processo di antropomorfizzazione, così vivo nel popolo greco, si estese anche alle E., creando naturalmente alcune inevitabili varianti. Le E. compaiono infatti ora alate, ora senza ali, ora nere, ora bianche, ora con una veste lunga, altrove con una veste corta da cacciatrici, tanto nell'Averno, che fra le nubi. Il processo di umanizzazione più forte fu dovuto alla concezione, che da amorale divenne etica, di attribuire loro l'incarico di perseguitare il colpevole col sentimento del rimorso: le E. furono perciò rappresentate con serpenti nelle mani, talora anche fra i capelli o attorno alla vita ed in atto di slanciarsi contro il reo. Chi (poeta, pensatore, sacerdote) operò questa trasformazione (molto probabilmente fu Eschilo), fuse due concetti: quello della E. primitiva e quello del serpente che incorpora l'anima dell'ucciso bramosa di vendicarsi. Accanto a questa concezione, forse diffusa solo fra le classi colte, continuò a sussisterne un'altra che vedeva nelle E., sotto il nome di Eumenidi, propizie divinità sotterranee, alla cui benignità era dovuta la fertilità dei campi. In tal modo si compì la scissione completa dei due caratteri primitivi, comuni a tutte le divinità legate alla terra, del carattere agrario e di quello ferale.
Nell'arte troviamo le E. sotto l'aspetto benefico due sole volte: nelle tre statue delle Semnai (le Venerande, epiteto eufemistico delle E.) erette sull'acropoli di Atene, opera di Kalamis e di Skopas, delle quali però non ci è giunto altro che la notizia tramandataci da Pausania; ed in un rilievo di Argo, databile nel III sec. a. C., sul quale le tre dee indifferenziate, hanno il serpente come attributo, ma nulla di terribile nell'aspetto.
L'anima dell'ucciso che, sotto forma di serpente, si slancia contro l'uccisore, è rappresentata su un vaso attico a figure nere, della metà circa del VI sec., con Polissena sacrificata sulla tomba di Achille e su un altro vaso della stessa classe con Alcmeone che fugge dinanzi all'anima-serpente della madre Erifile, da lui uccisa. Con molta probabilità una metopa incompiuta dell'Heraion del Sele, attribuibile al 560 circa a. C., rappresenta Oreste che tenta di difendersi dal serpente, anima di Clitennestra, ipotesi tanto più convincente, in quanto ancora su un vaso a rilievo di età ellenistica vediamo Oreste che abbraccia con la sinistra l'omphalòs di Delfi, mentre con la spada si difende contro un serpente. Non è da escludersi, d'altra parte, anche l'identificazione del personaggio fuggente con Issione (v.) proposta dalla Simon.
Non ci è pervenuta nessuna rappresentazione vascolare raffigurante le E. completamente umanizzate, anteriore alla Oresteia di Eschilo (458 a. C.), così che è lecito supporre che a lui si debba la creazione, o almeno la diffusione del tipo, tanto più che esso appare solo su scene connesse col mito di Oreste ed esclusivamente, o quasi, su vasi italioti (è nota la passione degli Italioti e dei Sicelioti per il teatro). Su un vaso proto-italiota della fine del V sec. vediamo una E. cacciare via Oreste (identificabile con certezza, benché non abbia alcun attributo all'infuori del cappello di viandante). Più numerosi e più caratteristici sono i vasi italioti del IV secolo. Il più bello ed il più completo è un cratere a campana del Louvre dell'inizio di quel secolo: Oreste è seduto sui gradini dell'omphalòs delfico, mentre Apollo fa gocciolare sul suo capo il sangue di un porcellino; Artemide assiste alla scena, mentre l'ombra di Clitennestra risveglia le E. addormentate ed una terza sorge dal suolo.
Molto numerose sono le raffigurazioni delle E. nella saga di Oreste: talune sono esclusive del repertorio greco, altre di quello etrusco, altre sono comuni ad entrambi, continuate poi in periodo romano. Le E. sono presenti all'uccisione di Egisto e Clitennestra; inseguono Oreste fino a Delfi, e poi sull'Aereopago e sono con lui in Tauride. Per l'elenco dei monumenti in cui appaiono le E. connesse con le vicende di Oreste, si rimanda alla voce della Pauly-Wissowa, Suppl. viii, c. 138 ss.; due rappresentazioni tuttavia sono degne di nota: quelle di un cratere a volute, probabilmente opera di Assteas, nel museo di Napoli ed una su un cratere a campana della stessa fabbrica. Nel primo Oreste si abbranca con tutta forza all'omphalòs, i capelli ancora ritti per lo spavento; una E. appare nell'angolo superiore sinistro, ma Apollo con un gesto della mano la ricaccia (Artemide assiste calma, mentre la vecchia Pizia fugge spaventata). L'altro è opera di un artista assai meno dotato che rivela uno spirito provinciale: tuttavia vi è qualcosa, nella ricchezza dei particolari e nei costumi, che ricorda la inevitabile e voluta retorica teatrale.
Le E. appaiono come esecutrici della giustizia divina, su scene vascolari rappresentanti l'Oltretomba, sia nei riguardi di Sisifo (dove però sono chiamate Poinài, ossia Sofferenze), che di Issione. Su un vaso da Altamura (purtroppo assai ridipinto) le Poinài, munite di un attributo indefinibile probabilmente moderno, indietreggiano davanti ad Orfeo (evidente allusione alla felicità nell'Oltretomba promessa agli iniziati orfici), mentre una terza tormenta Sisifo. Su un vaso da Canosa una E. sferza Sisifo, mentre un'altra respinge con due fiaccole Eracle che si porta via Cerbero. Un vaso da Cuma, a Berlino, di fabbrica campana mostra la E. che ha dato l'abbrivio alla ruota fiammeggiante cui è attaccato Issione, la quale già gira nel cielo. Come si vede, nella predicazione orfica, le E. erano degradate a ministre dell'Ade. Questo però non ci autorizza a chiamare E. le figure femminili munite di fiaccole che troviamo sui monumenti etruschi - raramente vasi, più spesso urne - giacché esse non appaiono solo in miti nei quali si narri di un delitto, come nelle raffigurazioni del sacrificio di Ifigenia o dei prigionieri troiani sulla tomba di Patroclo, della morte di Troilo o di Ippolito, ma dovunque vi è una morte in atto o imminente: sono quindi genî etruschi della morte, non personificazioni del rimorso.
Nella plastica, le E. compaiono poche volte. La Erinni Ludovisi, opera del primo ellenismo, deve provenire da un altorilievo, di soggetto e forse di composizione uguale alla scena vascolare del cratere del Louvre: i capelli madidi di sudore e scompigliati sul viso bellissimo, ma atteggiato a sprezzante inesorabilità, rendono l'identificazione sicura. Sui sarcofagi romani le E. appaiono nei miti relativi a Penteo ed a Meleagro; in questi ultimi come tormentatrici di Altea dopo l'uccisione del figlio. Nel mito di Oreste compaiono anche su un tardo sarcofago etrusco. Rappresentazioni delle E. su rilievi o vasi appaiono connesse anche con altri personaggi mitologici o eroici: con Eracle (su ceramica italiota), Licurgo, Pelope e Medea (sarcofagi romani e ceramica italiota), e meno frequentemente con Atteone, Ippolito, Patroclo, Teseo e Piritoo e Anfiarao.
Bibl.: A. Rosenberg, Die Erynien, Berlino 1874; Stoll, in Roscher, I, cc. 1310-36, s. v. Erynis; Dict. Ant., s. v. Furia. Il vaso attico a fig. nere con l'immolazione di Polissena è riprodotto in Journ. Hell. Studies, XVIII, 1898, tav. XV; per il vaso con Erifile ed Alcmeone v. Jahrbuch, VIII, 1893, tav. I. La metopa dall'Heraion del Sele è riprodotta in P. Zancani-Montuoro-U. Zanotti-Bianco, Heraion del Sele, II, Roma 1954, p. 293, tav. XXXIX e in E. Simon, Jahreshefte, XLII, 1955, p. 25 ss., f. 14. Un elenco delle rappresentazioni vascolari di Oreste a Delfi è in Furtwängler-Reichhold, Griechische Vasenmalerei, III, p. 365, nota 8; aggiungi Riv. Ist. Arch. e St. dell'Arte, II, 1930, p. 167, fig. 18; p. 169, fig. 19. I sarcofagi romani col mito di Oreste e di Meleagro sono riprodotti in C. Robert, Die antiken Sarkophagreliefs, vol. II e III; il sarcofago etrusco in G. Q. Giglioli, Arte Etrusca, Milano 1935, tav. 355, i. Per un elenco completo di raffigurazioni di E. si rimanda: E. Wüst, in Pauly-Wissowa, Suppl. VIII, 1956, c. 138 ss.