ermeneutica
Presente fin dall’antichità, il termine arte o scienza dell’interpretazione di un testo (poetico, letterario, giuridico, religioso, ecc.) ha assunto particolare rilevanza filosofica nel Novecento per opera delle correnti storicistiche, fenomenologiche ed esistenzialistiche. Se infatti l’e. è stata concepita per secoli come una scienza o una tecnica ausiliare rispetto alla filologia, alla teologia o alla giurisprudenza, nella misura in cui il linguaggio si presta a molteplici interpretazioni, o – soprattutto in campo teologico – a molti ‘sensi’ (letterale, allegorico, analogico, anagogico, tipologico, ecc.), già con il Romanticismo, e soprattutto con Schleiermacher si comincia a vedere nell’e. qualcosa di più profondo e autonomo come sforzo di comprensione che va molto al di là del testo e ricostruisce, con una sorta di congenialità, la mens auctoris. Con Dilthey, tra i maggiori esponenti dello storicismo e autore di studi fondamentali su Schleiermacher, il problema dell’e. viene ripreso e ampliato nel quadro di una «critica della ragione storica» volta a fondare la legittimità e l’autonomia delle scienze dello spirito rispetto alle scienze della natura cui si appellava il positivismo dominante. Per Dilthey l’e. è la scienza dell’arte dell’interpretazione e concerne quelle manifestazioni della vita spirituale che hanno trovato l’espressione più compiuta e conclusiva nello scritto. In tal senso l’e. ha una funzione centrale e portante nelle scienze dello spirito, il cui oggetto può esser colto adeguatamente solo attraverso un’interpretazione che realizzi in modo unitario e intuitivo il nesso tra vita, espressione e ‘comprensione’.
Se con Dilthey l’interesse pur rilevante per l’e. appare circoscritto all’interno del problema delle scienze dello spirito e impostato quindi ancora in senso prevalentemente metodologico, la svolta decisiva verso l’e. filosofica si ha con la fenomenologia di Husserl e con l’esistenzialismo di Heidegger. Nella sua polemica contro ogni forma di oggettivismo e naturalismo, Husserl mette in luce infatti il carattere intenzionale della coscienza, per cui ogni percezione è sempre legata a un orizzonte entro il quale soltanto diventa significante e il giudizio rinvia a tutta una serie di presupposti ‘precategoriali’. Su questa linea Heidegger, già in Essere e tempo (➔) (1927), concepisce l’e. non più come uno dei possibili modi d’intendere o di conoscere, contrapposto o coordinato ad altri, ma come il modo fondamentale di esistenza, essendo l’uomo precisamente un continuo autointerpretarsi e interpretare l’essere. Nella misura in cui l’esistenza è continua progettazione, anticipazione della morte, ‘cura’, il problema della verità va considerato in una dimensione anteriore e diversa rispetto a quella del giudizio dove è stato collocato dalla metafisica occidentale, da Platone a Hegel.
Il disvelarsi della verità presuppone sempre un’anticipazione di senso, una sorta di ‘pre-comprensione’ che è al tempo stesso il segno della sua intrinseca storicità. È questo il cosiddetto circolo ermeneutico per cui l’interpretazione è un processo che va continuamente dal tutto alle parti e viceversa: soltanto in riferimento alla struttura dell’esistenza come «esserci-nel-mondo» si rivela il senso di ciò che l’esistenza viene storicamente scoprendo e viceversa. L’e. filosofica, considerando indispensabile questo circolo (che agli occhi della logica e della filosofia tradizionale appare invece come vizioso, e cioè tale da inficiare la verità delle conclusioni raggiunte), si contrappone alla logica quale si è venuta configurando nella filosofia occidentale, e cioè come logica della proposizione e del giudizio. Si hanno così nella scia del pensiero heideggeriano forme di logica ermeneutica (H. Lipps), dove alla ‘morfologia del giudizio’ si cerca di sostituire la ‘tipologia del discorso’, o di logica semantica (J. Lohmann), che cerca d’individuare nella storicità e intersoggettività dialogica del linguaggio il vero a priori dell’uomo e della ragione. Con l’evolversi del pensiero di Heidegger dalla prospettiva fenomenologico-esistenziale di Essere e tempo verso una prospettiva ontologico-linguistica, l’e. ha acquistato ancor maggiore rilevanza filosofica. Il motivo heideggeriano del rapporto tra arte e verità, per cui l’arte non è espressione di una verità presupposta o comunque assoluta e metastorica ma è l’accadere della verità, porta con Gadamer a una revisione critica del concetto di coscienza storica che sfocia nell’affermazione dell’universalità dell’ermeneutica. La comprensione storica non consiste nella semplice ricostruzione del senso di un testo o di un momento del passato, come voleva lo storicismo, ma in una continua fusione di orizzonti dove, proprio come accade rispetto all’arte, vengono sempre di nuovo messi in gioco tanto l’opera quanto l’interprete in un processo sempre incompiuto e infinito qual è appunto il linguaggio. Proprio questa consapevolezza del primato della dimensione linguistica e dialogica rispetto a ogni possibile forma di pensiero ha portato a una certa convergenza tra l’e. filosofica e certi sviluppi della filosofia analitica del linguaggio, soprattutto dell’ultimo Wittgenstein, attento ai giochi linguistici e alla loro connessione con la prassi e le forme di vita.
Se l’e. filosofica si è sviluppata soprattutto in Germania, non ne sono però mancate trattazioni originali e significative in Francia, soprattutto con Ricoeur, e in Italia con Pareyson e Betti. Prendendo le mosse dalla fenomenologia husserliana e con particolare attenzione al problema del male e del sacro da una parte e ai risultati della psicoanalisi dall’altra, Ricoeur considera compito essenziale dell’e. lo studio dei simboli, ossia di quei segni che, oltre ad avere un senso diretto e letterale, rinviano pure a uno o più sensi indiretti e figurati. Nell’adempiere a tale compito l’e. si dispiega in direzioni diverse, a seconda che riguardi l’archeologia della coscienza (psicoanalisi freudiana), la sua teleologia (fenomenologia hegeliana) o la sua escatologia (fenomenologia del sacro); direzioni tra le quali deve operare una continua dialettica per ritrovare in ciascuna di esse l’unità di senso che vi si esplicita. Pareyson è giunto ad affermare il valore ontologico e di verità dell’e. dopo aver approfondito il problema dell’interpretazione nell’estetica, dove già ne aveva evidenziato il carattere irripetibile e personale (cfr. soprattutto Estetica: teoria della formatività, 1954). Così in Verità e interpretazione (1971), attraverso la distinzione tra pensiero puramente espressivo di esigenze e situazioni pratiche e storiche, e pensiero rivelativo della verità, Pareyson pone l’e. al centro dell’intero discorso filosofico. Questo, infatti, è sempre personale e istituisce una molteplicità di interpretazioni singole e irripetibili del vero, e al tempo stesso tutte le unisce nella consapevolezza di possedere la verità senza esaurirla, ma alimentandosene continuamente nella storia. Lo storico e teorico del diritto Betti ha preso invece le mosse soprattutto dal campo giuridico per sviluppare una Teoria generale dell’interpretazione (1955) molto vicina alle impostazioni specificamente metodologiche del problema dell’e. dell’inizio del sec. 20°. Per quel che riguarda in partic. l’oggettività del processo ermeneutico, Betti ne ritrova la garanzia nel fatto che l’interprete, nel suo sforzo di ricostruzione del senso, ripercorre a ritroso il cammino creativo da cui è scaturita l’opera interpretata e la trasferisce in una soggettività diversa da quella originaria, ma a essa unita nella comune umanità.
Anche nella sfera del diritto prevalse la linea di Gadamer che recupera in Verità e metodo (➔) (1960) il momento dell’applicazione della legge come momento costitutivo di ogni comprensione, segnalando conseguentemente il significato esemplare dell’e. giuridica, dove si evidenzia quella condizione della comprensione consistente nell’appartenenza dell’interprete al testo. Chi interpreta la legge non può, per Gadamer, assumere liberamente un punto di vista, ma deve partire dal presupposto necessario che «la legge obblighi ugualmente tutti i membri della comunità giuridica». Negli ultimi decenni del Novecento l’e. è stata indubbiamente una delle correnti filosofiche che ha avuto maggiore diffusione e risonanza, fino al punto che si è pensato di poterla definire la koinè del dibattito filosofico contemporaneo. Tale processo ha comportato per un lato l’emergere di nuovi importanti sviluppi dell’e., e per l’altro la possibilità di una sua comprensione più approfondita alla luce di una migliore messa a fuoco retrospettiva di molti suoi aspetti e articolazioni essenziali. A tale proposito grande importanza ha avuto la pubblicazione (1985-97) delle Opere complete di Gadamer, che presentano una panoramica vasta e unitaria del suo pensiero, sì da consentire di evidenziarne sempre meglio alcuni punti nodali: tra questi, la peculiarità della sua concezione della coscienza storica rispetto alle varie forme di storicismo.
Le teorie di Gadamer impressero un forte sviluppo dell’e. nel pensiero contemporaneo, con particolari approfondimenti nell’ultimo ventennio del Novecento da parte di Vattimo in scritti tra i quali vanno ricordati soprattutto La fine della modernità (1985) e Oltre l’interpretazione (1994). Come sottolinea Vattimo, a tale proposito non si può non richiamarsi anzitutto alla linea tracciata da Heidegger con il suo saggio sul moderno L’epoca dell’immagine del mondo (1938), e con la sua critica complessiva dell’umanismo come compimento della metafisica. Ma l’essenziale, per Vattimo, è leggere l’interpretazione heideggeriana della modernità, e quindi della peculiarità della tecnica moderna, al di fuori dei consueti schemi di ‘filosofia della cultura’, e cogliere così il valore propositivo (e non soltanto negativo) dell’interpretazione della scienza e della tecnica moderna come compimento della storia della metafisica. La filosofia ermeneutica trova legittimazione come rinuncia a qualsiasi illusione di preparare un ‘ritorno dell’essere’ e a leggere in questa chiave il pensiero heideggeriano, scorgendovi invece un invito a radicalizzare il motivo nichilistico, senza alcuna pretesa o presunzione di un superamento (nel senso tradizionale del termine) della metafisica. La filosofia ermeneutica va intesa piuttosto come la storia di un lungo addio, di un indebolimento interminabile dell’essere quale esito manifesto della sua storia. Per i suoi stessi legami con la tradizione romantica da una parte e con le tesi heideggeriane sulla portata veritativa dell’arte dall’altra, la filosofia ermeneutica non poteva poi non assumere un ruolo sempre più rilevante nel dibattito dell’estetica e della critica contemporanee. Particolare importanza ha avuto in questo quadro quella tendenza che va sotto il nome di estetica della ricezione, il cui maggiore esponente è stato lo storico della letteratura e filosofo Hans R. Jauss soprattutto in Esperienza estetica ed ermeneutica letteraria (1982). Richiamandosi al concetto gadameriano di Wirkungsgeschichte («storia degli effetti»), Jauss considera centrale, per una riabilitazione della storia della letteratura, prestare attenzione a un momento essenziale del processo estetico, indebitamente sacrificato, quello appunto della ‘ricezione’. Nel triangolo autore-opera-pubblico, quest’ultimo non è affatto una parte soltanto passiva, una catena di semplici reazioni, ma, a sua volta, un’energia produttiva di storia. Questa istanza, che si richiama al motivo ermeneutico della fusione degli orizzonti, dev’essere fatta valere tanto contro l’ideale di oggettività della vecchia storia letteraria caduta in discredito, quanto contro la pretesa di esattezza avanzata dai detrattori della comprensione storico-ermeneutica, muovano essi da presupposti di tipo sociologico oppure strutturalistico. Nonostante i numerosi motivi di consenso con Gadamer, Jauss assume però una posizione critica nei confronti della sua e, poiché vi scorge un privilegiamento della nozione di ‘classico’ come prototipo di ogni mediazione storica del presente: una tesi, sempre secondo Jauss, che deriva dal non voler abbandonare il concetto di mimesis che può invece valere soltanto per alcune e non per tutte le fasi della storia dell’arte. Sempre per quanto riguarda la ricezione, Jauss ritiene infine che si debba sottolineare la sua portata pratica ed emancipatrice attraverso la continua interazione tra Wirkungsgeschichte e ricezione, tra orizzonte dell’esperienza e orizzonte dell’attesa, da cui scaturisce una dialettica interna tra letteratura e storia universale, una sorta di mediazione ermeneutica che consente di evitare ogni forma di storicismo sociologico estrinseco.