Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Da disciplina “tecnica” legata all’interpretazione dei testi della tradizione, l’ermeneutica è diventata uno dei principali orientamenti filosofici del Novecento. La svolta è segnata da Schleiermacher e Dilthey, quando, insieme alla nascita della “coscienza storica”, si cerca di dare ai saperi umanistici un fondamento diverso e alternativo rispetto ai saperi scientifici rigorosi. Nell’interpretare è la vita che si relaziona a se stessa, cercando di comprendersi. Su questa strada, Heidegger farà dell’ermeneutica un’ontologia, il modo in cui l’essere umano si rapporta all’essere. Gadamer riprende e sistematizza tale svolta ontologica: l’ermeneutica diventa la “nuova lingua comune” della filosofia contemporanea. A essa si ricollega un intenso dibattito sulla “postmodernità”, cioè di un mondo diventato “fluido”, dove comunicazione e interpretazione sono dominanti.
Arte dell’interpretare
Hans Georg Gadamer
L’interpretazione
Pensiamo ancora una volta all’interpretazione d’un testo. Non appena scopre alcuni elementi comprensibili, l’interprete abbozza un progetto di significato per l’insieme del testo. I primi elementi significativi si manifestano soltanto a condizione che ci si disponga alla lettura con un interesse piú o meno determinato. Comprendere la “cosa” che sorge là, davanti a me, altro non è che elaborare un primo progetto, che verrà in seguito corretto, mano a mano che la decifrazione progredisce. [...] Heidegger ci descrive proprio questa perpetua oscillazione delle mire interpretative, cioè la comprensione come il processo di formazione di un progetto nuovo. Colui che procede cosí, rischia sempre di cadere sotto la suggestione dei suoi propri abbozzi; egli corre il rischio che l’anticipazione, che si è preparata, non sia conforme alla cosa. Il compito costante della comprensione risiede nell’elaborazione di progetti autentici e proporzionati all’oggetto della comprensione. In altri termini, si tratta qui di un colpo di audacia, il quale attende di essere ricompensato da una conferma proveniente dall’oggetto. [...] Ogni interpretazione di un testo deve dunque iniziare con una riflessione dell’interprete sulle proprie idee preconcette, risultanti dalla “situazione ermeneutica” in cui egli si trova. Egli deve legittimarle, cioè ricercarne l’origine e il valore.
H.G. Gadamer, Il problema della conoscenza storica, a cura di V. Verra, Napoli, Guida, 1969
William Dilthey
Le scienze dello spirito
La conoscenza della realtà storico-sociale si attua nelle scienze particolari dello spirito. Ma queste si devono rendere consapevoli del rapporto che lega le loro verità sia alla realtà effettuale di cui sono contenuti parziali, sia alle altre verità che al pari di esse si ottengono per astrazione da questa stessa realtà; solo una simile consapevolezza può dare piana chiarezza ai loro concetti, piena evidenza alle loro proposizioni. Da queste proposizioni risulta il compito di sviluppare una fondazione gnoseologica delle scienze dello spirito [...]. L’adempimento di questo compito si potrebbe designare “Critica della ragione storica”, ossia della facoltà dell’uomo di conoscere se stesso, e la società e la storia che egli crea.
W. Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, a cura di G.A. De Toni, Firenze, La Nuova Italia, 1974
L’ermeneutica è la teoria e l’arte dell’interpretare, cioè, in generale, di riportare un segno al suo significato. Il termine greco hermeneuein (“interpretare, esporre”) fu anticamente associato al dio Hermes, portatore dei messaggi divini ai mortali. Sebbene vi siano state altre importanti tappe nella storia di quest’arte (filologia alessandrina, esegesi biblica medievale, riscoperta umanistica della classicità) la svolta decisiva si ha tra Settecento e Ottocento, quando con Johann Chladenius e Friedrich Schleiermacher, l’ermeneutica si profila come teoria generale dell’interpretazione di ogni tipo di testo. Schleiermacher in particolare ha fissato alcuni punti caratterizzanti: 1) si può intendere il discorso di un autore meglio di quanto lo capisse lui stesso, perché l’interpretazione apporta nuove conoscenze rispetto a quelle da lui possedute; 2) vi è un rimando circolare tra parte e tutto, cioè tra parola e frase, contesto e opera, opera e autore, autore e realtà storica ecc.; 3) l’interprete ri-produce e ri-vive creativamente il passato; 4) il sapere storico, basato sulla distanza temporale, è sempre di tipo interpretativo; 5) l’interpretazione è un’esperienza fondata sul linguaggio.
Secondo Wilhelm Dilthey (1833-1911), poi, l’ermeneutica deve essere considerata il cardine della riflessione epistemologica sullo statuto delle scienze dello spirito (storia, filosofia, filologia, psicologia…), che, egli sostiene, possono pervenire alla medesima obiettività e universalità delle scienze naturali, secondo loro proprie modalità. Inoltre, benché la vita spirituale trovi espressione compiuta solo nella lingua, egli propone l’estensione dell’ermeneutica a tutte le manifestazioni della vita fissate in modo durevole, quindi non solo ai documenti ma anche ai “monumenti”, alle varie tracce e alle varie espressioni dell’umanità storica. Ciò che suggerisce un collegamento tra ermeneutica e altri saperi, altre attività umane non strettamente legate alla parola (archeologia, antropologia, storia materiale, musica, teatro…). Si tratta di un suggerimento che ha avuto minore risonanza in filosofia, ma che ha contribuito ad allargare e approfondire la natura dell’interpretazione.
La svolta ontologica dell’ermeneutica: Heidegger e Gadamer
Sulle tracce di Nietzsche, il quale, contro il culto positivistico dei fatti, aveva affermato che “proprio i fatti non ci sono, ma solo interpretazioni”, Martin Heidegger (1889-1976) imprime una svolta ontologica all’ermeneutica, che così cessa di essere solo una questione di metodo. Tale svolta si compie in Essere e Tempo (1927), ma è già prefigurata nella precedente “ermeneutica della fatticità (Faktizität)”, dove si denuncia l’insufficienza delle scienze dello spirito, della filosofia vitalistica e storicistica, nel chiarire i fenomeni della vita umana. Di qui l’introduzione di alcune categorie (gli “esistenziali”), tra cui la comprensione e l’interpretazione, che chiariscono in modo nuovo non che cosa è l’uomo, ma come esiste, come viene articolandosi il suo rapporto con il mondo. Ora, il mondo non è dato all’uomo come insieme di oggetti con i quali, in un secondo momento, egli si rapporta assegnandogli significati, valori e usi. Le cose, piuttosto, gli si danno già sempre in pratiche e contesti di vita, dove ciascuna cosa assume un certo significato in relazione alle altre; questo contesto relazionale, o di rinvio, rappresenta la nostra precomprensione del mondo, cioè come esso è per noi. Sarà tale precomprensione implicita a consentirci e a caratterizzare la comprensione che avremo delle cose di cui faremo esperienza. Per comprendere bisogna aver già compreso, cioè interpretato; comprendere significa far emergere cioè interpretare la precomprensione. Questo è il “circolo ermeneutico”, che quindi non è semplicemente un criterio di metodo (come quello tra parte e tutto), ma il modo del nostro esistere, il modo in cui le cose si manifestano: non stiamo di fronte ad alcunché da conoscere meglio, ma ci costituiamo e anche le cose si costituiscono nel continuo rinvio tra segno e significato, noto e ignoto, presenza e assenza. Poiché, poi, il rinvio non è altro che la pratica dell’interpretare, il circolo ermeneutico sempre in atto, si capisce la portata ontologica fatta valere da Heidegger. Portata che si è via via tradotta in una rilettura inquieta e sovvertitrice dei testi della tradizione filosofica.
Si rifà a Heidegger, Verità e metodo, ovvero Elementi di una filosofia ermeneutica (1960) di Hans Georg Gadamer (1900-2002), opera di riferimento dell’ermeneutica filosofica novecentesca, che nasce sostanzialmente come “urbanizzazione” – così scrisse Jürgen Habermas – proprio della filosofia di Heidegger. Ciò vuol dire che Gadamer rende più chiara, aperta e maneggevole, meno provocatoria e decostruttiva, l’ermeneutica heideggeriana.
In polemica con l’idea di verità come oggettività e conoscenza esatta da perseguire con metodo scientifico, idea di cui restò prigioniero anche lo storicismo (metodo storico, scienze dello spirito), Gadamer vuol mostrare che vi sono altri territori della verità che non sono attingibili con tale metodo e riguardano aspetti che schiudono la trama essenziale della vita umana (l’arte, la storia, l’etica, il diritto...). Il chiarimento di tali verità “extrametodiche” va di pari passo con il chiarimento della struttura del comprendere, cioè in che cosa e secondo quali modalità si concretizza l’interpretazione, nell’assunto che il linguaggio è l’essenza dell’uomo e che il modello dell’interpretazione dei testi è il modello della nostra esperienza del mondo.
Come Heidegger ha messo in luce, il circolo ermeneutico non è un inconveniente o un limite metodologico, ma il nostro modo di essere; perciò non si tratta di uscirne, ma di starci dentro adeguatamente. Siamo immersi in una pre-comprensione del mondo, fatta dalle idee, dalle convinzioni, dagli schemi, in una parola dai “pre-giudizi” della realtà in cui viviamo (perciò Gadamer riabilita i pregiudizi contro la loro condanna illuministica).
Senza questi pregiudizi, cioè senza una comprensione tacita e preliminare, non potremmo giudicare e comprendere niente. Infatti, un mondo anteriore o esterno ai nostri condizionamenti storici, biografici, non c’è; l’idea che vi sia, è esso stesso frutto di quel particolare condizionamento storico che è la rappresentazione scientifica del mondo. Pertanto, stare adeguatamente nel circolo ermeneutico significa non subire ma prendere coscienza dei nostri pregiudizi e metterli alla prova, cioè disporsi ad accettare una smentita: il crinale dove emerge che il nostro giudizio è un pregiudizio e che l’oggetto del giudizio è altro, diverso, distante da noi.
È proprio quel che accade quando interpretiamo un testo, al quale ci avviciniamo con una precomprensione dei suoi contenuti, un’attesa di quello che leggeremo. A mano a mano che si legge, le nostre attese e pregiudizi si modificano e si calibrano in rapporto alla lettera del testo. Si tratta però di un processo infinito, perché modificando e adeguando la nostra interpretazione, il testo ci apparirà in una nuova luce, che andrà nuovamente interpretata, in un gioco continuo di avvicinamento e allontanamento, conferme e smentite.
La verità del testo non è fissa, non è né oggettiva né soggettiva, ma è una possibilità che deriva dall’incontro, dalla “fusione di orizzonti” tra il mondo di chi legge e il mondo di chi scrive. Che il pre-giudizio non sia qualcosa da eliminare, anzi che non sia eliminabile, rinvia alla costituzione intrinsecamente storica della nostra esperienza; il condizionamento storico, la finitezza del nostro esistere e conoscere, non sono però solo un limite, ma la condizione per instaurare un dialogo con la tradizione e con gli altri. Benché Gadamer si sia soffermato anche sulla concreta dinamica interpretativa (con nozioni quali “storia degli effetti”, schema dialettico di “domanda e risposta”, “applicazione”), il suo scopo dichiarato è filosofico, l’elaborazione di una ontologia o teoria dell’esperienza ermeneutica.
Questo provoca un dibattito con Emilio Betti, che aveva pubblicato un grande lavoro consuntivo del metodo ermeneutico – Attualità di una teoria generale dell’interpretazione (1967) –, ribadendone la scientificità e indicandone una serie di criteri normativi. Per Betti, Gadamer cade nel soggettivismo perché non ha fissato le regole cui si deve ispirare l’interprete, né ha diversificato gli oggetti del comprendere, lasciando tutto in una arbitraria vaghezza.
Modelli comunicativi e pluralità di interpretazioni
A una simile tensione tra verità e metodo, ontologia ed epistemologia, spiegazione e comprensione, si riconnette Paul Ricoeur (1913-2005), secondo il quale occorre trovare un punto di equilibrio fra queste categorie. Heidegger e Gadamer optano per la “via corta” che punta immediatamente al piano ontologico trascurando del tutto come si articolano le varie forme della comprensione. Ricoeur sceglie invece la “via lunga” che pure deve condurre all’ontologia, ma passando per l’interrogazione dei metodi, dei linguaggi e dei saperi. In una prima fase, egli si è occupato non degli aspetti comunicativi del linguaggio, che tendono a trasmettere informazione, ma di quelli simbolici, legati a esperienze mitiche, religiose, poetiche, che rivelano la spinta trascendente della nostra esistenza. Il simbolo è polisemico, non esprime direttamente, non è perfettamente oggettivabile, ma proprio in ciò risiede la sua potenza rivelativa, che provoca e nutre il processo interpretativo, chiamato a intenderne i sensi riposti. Esempi ne sono il linguaggio inconscio della psiche e il linguaggio metaforico. In essi si nota sia il momento demistificatorio dell’ermeneutica, che risale alle matrici nascoste della vita individuale e collettiva (secondo la lezione di Marx, Nietzsche e Freud, i “maestri del sospetto”), sia il suo momento produttivo o teleologico, che apre alle tensioni del nostro spirito, sempre in cerca e creatore di altro.
Questo duplice movimento si riverbera nel “conflitto delle interpretazioni”, nella ineludibile molteplicità dei modelli interpretativi, i quali delimitano un proprio campo di pertinenza misurandosi con altri campi. Quindi, il conflitto è più un complesso intreccio di sensi che una lotta di opposizioni irriducibili. Non a caso, la dinamica testuale, con il suo intersecare trama, narrazione, figurazione e interpretazione, cioè svolgimento temporale, articolazione dell’accadere, stratificazione dei sensi e proiezioni del lettore, riassume sia la mobile struttura dell’interpretazione che della nostra esistenza.
Al tema-problema del conflitto delle interpretazioni può essere ricondotto Luigi Pareyson (1918-1991), cui si deve l’originale ricezione italiana dell’ermeneutica. Partito da una riflessione sull’esistenzialismo e sulle forme del fare estetico, egli è approdato all’ermeneutica intesa come ciò che qualifica il rapporto dell’uomo con l’essere. Poiché l’essere non è definibile oggettivamente, alla stregua di un qualunque ente, ogni uomo è una interpretazione, un accadere della verità dell’essere. Se ciò non porta a una completa relativizzazione è perché tale verità resta identica pur nella pluralità: ciascuna interpretazione è una sua incarnazione, allo stesso modo che le diverse esecuzioni di un brano musicale non intaccano l’unità dell’opera, ma la rivelano ogni volta.
È stato detto che l’ermeneutica rappresenta un po’ la “koiné filosofica”, la nuova lingua comune del pensiero odierno (Gianni Vattimo). Negli ultimi decenni del Novecento, invero, essa, insieme al decostruzionismo e alla genealogia, è stata al centro di un dibattito riguardante la modificazione dei saperi e della società nell’epoca “postmoderna”. Poiché questa è connotata dal tramonto di ogni verità assoluta, accogliere positivamente la pluralità delle interpretazioni e analizzare come sorgono le loro parziali verità è sembrata l’unica via da percorrere.
Più in generale possiamo osservare che: 1) tra ermeneutica e fenomenologia, due orientamenti contrapposti eppure intrecciati, si è articolata fin dagli inizi la filosofia del XX secolo; 2) al problema dell’interpretazione si collegano indirizzi del pensiero contemporaneo, come il pragmatismo, la filosofia del linguaggio, la semiotica, il cognitivismo, che corrispondono a un mondo sempre più basato sulla comunicazione, sulla produzione e trasmissione di informazione; 3) la lotta agli effetti relativistici dell’ermeneutica passa per la confutazione dei suoi argomenti, ossia per l’individuazione dei limiti che l’esperienza, il mondo o la realtà pongono all’infinita pluralità delle interpretazioni.