ZACCONI, Ermete
ZACCONI, Ermete. – Nacque il 14 settembre 1857 a Montecchio Emilia da Giuseppe e da Lucia Lipparini e fu battezzato con il nome di Ernesto Giuseppe.
Figlio d’arte, venne avviato al mestiere teatrale all’interno della compagnia di famiglia. Furono anni di vita nomade in cui, oltre a sostenere piccole parti da attore, fu trovarobe e coadiuvò il padre nell’allestimento delle scene. Fu proprio in quel periodo che maturò la lucida consapevolezza di appartenere a una tradizione antica, il cui peso sentì di portare sulle spalle fin dalla nascita come ricorderà, ormai in vecchiaia, nelle sue memorie (Ricordi e battaglie, 1946, p. 6).
Scioltasi la formazione familiare, dopo un periodo trascorso accanto al padre e alla sorella Argia nella compagnia Ricciardi e dopo la morte della madre, Zacconi ebbe la sua prima vera scrittura con Tommaso Massa per le parti di generico, secondo brillante e amoroso. Fu poi amoroso e brillante nella Sociale napoletana diretta da Calìa; quindi (1876-77) fu secondo amoroso nella compagnia di Raffaele Lambertini. Qui recitavano in ruoli primari Achille Majeroni e Antonio Papadopoli, che restarono per Zacconi due fra i principali riferimenti artistici della sua formazione. Nel 1878 fu scritturato insieme al padre nella compagnia Dominici-Papadopoli come brillante, per passare poi a primo attor giovane e quindi a primo attore (in sostituzione di Ettore Dominici). Nel 1880, girò, sempre nel ruolo di primo attore, in compagnie varie di terz’ordine; quindi fu nella Dondini-Dominici nel 1881 e, successivamente, intraprese una breve esperienza fallimentare di capocomicato (nel 1882). Fu poi ancora in piccole compagnie (Palamidessi, Giannuzi, Verardini) e partecipò a un tentativo di costituire una Stabile a Cannes, di cui fu direttore e primo attore. Nella compagnia Verardini incontrò Ines Cristina, sua futura moglie, e dall’autunno del 1901 sua compagna di scena.
Quando nel 1884 venne chiamato da Giovanni Emanuel e passò alle compagnie primarie era ormai un attore formato, la cui caratteristica, in controtendenza rispetto ai tempi, fu la duttilità e la non specializzazione in un ruolo. Tutto il suo percorso iniziale si rivelò allora uno straordinario tirocinio (Rasi, 1897, pp. 706 s.), una «riserva di conoscenze attoriche» eccezionale (Geraci, 1993a, p. 76). Con Emanuel Zacconi trascorse due anni nei quali affinò i suoi strumenti, di attore e di futuro capocomico, misurandosi con uno degli artisti più colti della scena italiana del tempo; eppure, dopo due stagioni, lo abbandonò, scegliendo ancora una volta la via dell’autonomia, nella ricerca di uno stile differente da quello del maestro, pur entro le coordinate del naturalismo.
Nel 1887 fu in compagnia accanto a Eugenio Casilini e quindi per un triennio (1888-91) fu primo attore nella drammatica compagnia Città di Torino diretta da Cesare Rossi. Qui recitò fra l’altro nella commedia L’amico delle donne di Alexandre Dumas figlio, in Gringoire di Théodore de Banville e nell’Amleto di William Shakespeare. Dal 1891 fu in compagnia accanto a Virginia Marini. Furono questi gli anni di I disonesti di Gerolamo Rovetta, Termidoro di Victorien Sardou, Nerone di Pietro Cossa, Pane altrui di Ivan Turgenev, Potenza delle tenebre di Lev Tolstoj e, soprattutto, dell’incontro con la drammaturgia di Henrik Ibsen. Zacconi fu Osvaldo in Spettri in una prima italiana memorabile, il 21 febbraio del 1892 a Milano: Virginia Marini aveva scelto l’opera di Ibsen per la sua serata d’onore, ma il protagonista indiscusso in scena risultò Zacconi, che ebbe l’occasione di mettere in gioco i risultati di un lungo percorso, alla ricerca di un verismo recitativo in cui confluissero anche gli studi da autodidatta sui testi di Jean-Martin Charcot, di Cesare Lombroso e di Enrico Ferri.
Nel 1894 Zacconi intraprese nuovamente la via del capocomicato. Entrò in società con Libero Pilotto e fondò una compagnia che, nella costruzione del repertorio, si ispirò ai canoni veristici (con qualche incursione simbolista). Dopo il debutto a Verona, fu poi a Torino e, quindi, nel Carnevale 1894-95, al teatro Manzoni di Milano per una lunga stagione che vale come manifesto programmatico della sua proposta artistica di questi anni. Fecero ritorno, allora e nei mesi successivi, alcuni testi già presenti nel repertorio delle precedenti compagnie, cui si aggiunsero nuove scelte fra la grande drammaturgia europea di fine secolo, molto chiaramente orientate: Un nemico del popolo e Il Piccolo Eyolf di Ibsen e L’intrusa di Maurice Maeterlinck (presto eliminata dal repertorio), Anime solitarie, Il collega Crampton, Prima dell’aurora di Gerhart Hauptmann, Il padre (14 novembre 1895 a Trieste) e La signorina Julie (8 luglio 1897 a Bologna) di Johan August Strindberg e poi alcuni testi italiani come Tristi Amori e I diritti dell’anima di Giuseppe Giacosa, Realtà di Rovetta, Il bell’Apollo di Marco Praga, Cristo alla festa di Purim di Giovanni Bovio che, dopo alcune recite assai contrastate (la prima fu l’11 dicembre 1894 a Torino), venne messa all’Indice. Diresse anche, senza essere in scena, La scuola della maldicenza di Richard Brinsley Sheridan e I Rusteghi di Carlo Goldoni.
A partire dall’autunno del 1897, chiusa la società con Pilotto, Zacconi restò unico capocomico. Nell’ottobre di quell’anno partì per la sua prima tournée estera: in Austria (Vienna) e in Germania (Berlino). La proposta di un verismo attento allo studio patologico del personaggio e agli intendimenti morali e pedagogici propri del positivismo di fine secolo incontrò il favore di buona parte della critica italiana (Boutet, 1897) e straniera, ma sollevò anche alcune perplessità (Hermann Bahr, che lo vide a Berlino, fu la voce polemica più autorevole).
Nel 1899 Zacconi venne chiamato da Gabriele D’Annunzio e da Eleonora Duse per una tournée che si rivelò poco fortunata. In repertorio: La Gioconda, La Gloria (che cadde fra i fischi a Napoli il 27 aprile) di D’Annunzio, Demi-Monde e La moglie di Claudio di Dumas. La compagnia fu anche in tournée a Vienna; ma durò meno di un anno; dopo il suo scioglimento (maggio 1899), Zacconi tornò al capocomicato solitario.
Al termine di una trionfale tournée a Roma nell’inverno del 1899, Ugo Ojetti (1899) siglò sulla Nuova Antologia «Egli è il volto della nostra epoca», nei suoi entusiasmi e nel suo lato tragico. Forse più di ogni altro attore del suo tempo, Zacconi seppe infatti esprimere, attraverso il suo verismo patologico, il lato oscuro di quei tempi, che fu il controcanto dell’entusiasmo e dell’ottimismo positivista: «le lotte interiori della coscienza moderna» (Morselli, 1899), la fascinazione per la realtà della malattia, della degenerazione, del disfacimento morale e fisico dell’uomo, la seduzione esercitata dalla rappresentazione della morte, un senso tragico dell’esistenza. «Non era una tragicità plastica e togata» la sua, «era invece una collera, una pietà, uno spasimo, una ribellione che si sarebbe detto dovessero logorare i suoi nervi» (Simoni, 1948, p. 106). Spesso forzando i testi a questa sua misura, Zacconi fu considerato un vero e proprio mattatore.
Il suo repertorio, in questi anni di fine secolo, fu molto vasto: comprendeva, oltre alle già citate opere legate alla temperie culturale del naturalismo, anche alcuni testi largamente condivisi da altre compagnie primarie del tempo: dagli shakespeariani Amleto, Macbeth, Otello, Re Lear e La bisbetica domata, al Saul di Vittorio Alfieri, da La gelosia di Lindoro di Goldoni a Il matrimonio di Figaro di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais, al Kean di Alexandre Dumas padre, a Come le foglie di Giacosa. Più strettamente legate al suo nome furono invece: Il collega Crampton di Hauptmann, Lorenzaccio di Alfred de Musset, Il nuovo idolo di François de Curel, Don Pietro Caruso di Roberto Bracco, La morte civile di Paolo Giacometti.
Nel 1901 fu nuovamente accanto a Duse per rappresentare La città morta di D’Annunzio.
Appassionatamente convinto del dovere e della missione culturale e civile degli attori (Simoni, 1948), Zacconi fu in questi anni al centro di alcune emblematiche polemiche. Del 1902 fu quella con Tommaso Salvini sull’interpretazione della morte di Corrado in La morte civile di Giacometti, nella quale, al realismo grand’attoriale romantico, Zacconi oppose il suo verismo positivista. Nel 1903, al ritorno dalla sua prima e fortunata tournée in America Meridionale, fu protagonista di un duro scontro con la Società degli autori, nel quale sostenne il principio dell’autorialità creativa dell’attore in opposizione a quella dello scrittore (L’illustrazione italiana, 1904, n. 50, p. 483), avviando allora una battaglia che proseguì, a più riprese e con differenti antagonisti, fino agli anni Trenta.
Arrivato alla soglia dei cinquant’anni, Zacconi era giunto alla piena maturità artistica e all’apice della popolarità. Il 30 ottobre 1905 al teatro Costanzi di Roma portò in scena Il cardinale Lambertini di Alfredo Testoni, uno dei suoi maggiori successi, nel quale attenuò il verismo patologico per accentuare le componenti più bonarie ma anche monotone della sua recitazione. Il repertorio si arricchì soprattutto di opere italiane contemporanee: di Nino Berrini, di Sabatino Lopez, di Dario Niccodemi, di Paolo Ferrari (Il duello), di D’Annunzio (Più che l’amore, che cadde però fra i fischi il 27 ottobre 1906).
Nel 1911 fu a Parigi dove rappresentò Don Pietro Caruso, I disonesti, Spettri, Pane altrui, I diritti dell’anima, Tristi amori e Otello e poi al teatro della Porte Saint-Martin, con una recita straordinaria, Il nuovo idolo, a beneficio dell’Association des artistes dramatiques alla presenza di buona parte del teatro parigino (Comoedia, 24 gennaio 1924, p. 4).
Negli anni della prima guerra mondiale, portò spesso in scena, oltre al consueto repertorio, testi patriottici (come Il tessitore di Domenico Tumiati, ricordato in Petrini, 2017). Nel 1912 debuttò nel cinema muto. Fra i film più significativi: Padre (1912, Dante Testa e Gino Zaccaria), cui seguirono Lo scomparso (1913, Testa), L’Emigrante (1915, Febo Mari), Gli spettri (1918, Antonio G. Caldiera). Intanto, nel 1916, fu impegnato in un’aspra polemica per la difesa del capocomicato di antica tradizione contro le ingerenze del Consorzio dei proprietari di teatro, che proseguì negli anni successivi: nel 1917 fu accanto a Emma Gramatica (Schino, 2017, pp. 92-97) e poi, nel 1918, fu uno dei principali protagonisti dello scontro fra l’Associazione dei capocomici, la Lega dei comici, la Società degli autori e i proprietari dei teatri.
Nel dopoguerra una nuova generazione di critici (in particolare Silvio d’Amico e Piero Gobetti), ormai lontana dal clima positivista di fine secolo, prese polemicamente le distanze dalla proposta artistica di Zacconi, considerandolo il rappresentante autorevole di un’epoca tramontata: per Gobetti «superiore al suo tempo per l’ardore della ricerca, eppure ad esso irrimediabilmente legato da pregiudizi irrimediabili» (Gobetti, 1923, 1974, p. 416) e, nel caso di d’Amico, di un modello teatrale (quello grand’attoriale) da superare. Eppure, fino a tutti gli anni Trenta, Zacconi restò uno dei protagonisti indiscussi della scena teatrale italiana. Nel 1921 fu accanto a Duse nel rientro dell’attrice alle scene in La donna del mare di Ibsen e La porta chiusa di Praga. Fra il dicembre del 1921 e il gennaio del 1922 fu nuovamente a Parigi dove ottenne ampi consensi, fra cui quello entusiasta di André Antoine (La semaine théâtrale, in L’Information, 2 gennaio 1922).
Negli anni Trenta il repertorio di Zacconi si assottigliò e si ripiegò in un gusto provinciale. Poche furono le novità fra cui: Don Abbondio di Berrini, Pietro il grande e Don Buonaparte di Giovachino Forzano, Solitudine di Lucio D’Ambra. In una nuova polemica con d’Amico nel 1930 (all’indomani dell’uscita del volume del critico romano Tramonto del grande attore) riprese la sua difesa della tradizione del grande attore. Complessivamente fu in questi anni esempio illustre di un percorso che, prolungatosi oltre i confini del momento storico e culturale di cui si era fatto interprete, restò isolato perché all’interno di un sistema produttivo e di organizzazione che tollerava sempre meno l’autonomia del singolo attore impresario di se stesso e perché meno capace di parlare se non ribadendo, attraverso una forma sempre più irrigidita quasi stereotipo di se stessa, posizioni maturate in un mondo artistico e culturale che ormai non rifletteva più bisogni e inquietudini dell’Italia del dopoguerra.
Nel 1936 al Festival di Venezia recitò nel Ventaglio di Goldoni (per la regia di Renato Simoni e Guido Salvini). Fu Socrate nell’Apologia di Socrate di Platone. Nell’ottobre del 1938 fu insignito del titolo di cavaliere della Corona d’Italia.
Proseguì in questi anni la sua attività nel cinema, spesso interpretando personaggi che l’avevano reso famoso in teatro: Il Cardinale Lambertini (1934, Parsifal Bassi), Coeur de gueux (1936, Jean Epstein), Processo e morte di Socrate (1940, Corrado D’Errico), Don Buonaparte (1941, Flavio Calzavara). In L’orizzonte dipinto di Guido Salvini del 1941 interpretò in modo emblematico la parte del grande attore del passato.
Alla vigilia della seconda guerra mondiale lasciò le scene e si ritirò nella sua villa di Camaiore. Ritornò nel 1942 a dirigere una compagnia con un ristretto repertorio.
Nel 1946 scrisse la sua autobiografia, Ricordi e battaglie (Milano).
Morì il 14 ottobre 1948 a Viareggio.
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E. Boutet, E. Z., in Nuova Antologia, 16 dicembre 1897, pp. 688-700; L. Rasi, I comici italiani, Firenze 1897, pp. 705-716; E. Polese-Santarnecchi, E. Z.: appunti, Milano 1898; S. Lopez, E. Z., in Natura e arte, VIII (1898-1899), pp. 559-564; E. Morselli, L’arte di E. Z. giudicata da Enrico Morselli, in Theatralia, 16 agosto 1899; U. Ojetti, E. Z. a Roma, in Nuova Antologia, 1° aprile 1899, pp. 568-573; A. Cervi, Tre artisti, Bologna 1900, pp. 43-88; H. Lyonnet, Le théâtre in Italie, Paris 1900, pp. 83-102; E. Polese, E. Z., in L’Arte drammatica, 24 ottobre 1903, pp. 1 s.; R. Bracco, Tra le arti e gli artisti, Napoli 1919; P. Gobetti, La frusta teatrale, Milano 1923 (ora in Scritti di critica teatrale, Torino 1974); U. Ojetti, Intorno a Ibsen e al dramma Gli spettri, in Comoedia, 1928, n. 6, p. 11; S. d’Amico, Tramonto del grande attore, Milano 1929, pp. 71-76; G. Rocca, E. Z. e noi, in Scenario, I (1932), 9, pp. 1-4; R. Simoni, Omaggio a E. Z., in il Dramma, XXIV (1948), n. 57-58-59, pp. 195 s.; G. Pardieri, E. Z., Bologna 1960; F. Savio, E. Z., in Enciclopedia dello spettacolo, IX , Roma 1962, pp. 2067 s.; A.G. Bragaglia, E. Z. e il naturalismo scenico, Roma 1973; P.D. Giovanelli, La società teatrale in Italia tra Otto e Novecento, Roma 1986; R. Alonge, “Spettri”, Zacconi e un agente tuttofare: traduttore, adattatore (e anche un poco drammaturgo), in Il castello di Elsinore, 1988, n. 1, pp. 69-94; G. Livio, La scena italiana, materiali per una storia dello spettacolo dell’Otto e Novecento, Milano 1989, pp. 76-118; S. Geraci, Scene dal laboratorio invisibile di E. Z. I parte, in Teatro e storia, VIII (1993a), n. 14, pp. 67-90, II parte, ibid. (1993b), n. 15, pp. 279-306; D. Orecchia, Il critico e l’attore. Silvio d’Amico e la scena italiana di inizio Novecento, Torino 2012; G. D’Amico, Domesticating Ibsen for Italy. Enrico e Icilio Polese’s Ibsen Campaign, San Casciano 2013; I. Pupo, I dolori del giovane Osvald. Rileggendo Spettri, in Il castello di Elsinore, 2014, n. 69, pp. 51-88; F. Perrelli, Strindberg l’italiano. 130 anni di storia scenica, Bari 2015; A. Petrini, Z., Cavour e Il Tessitore, in Tra Venezia e Saturno, a cura di R. Cuppone, Corazzano 2017, pp. 324-336; M. Schino, Dal punto di vista degli attori. 1915-1921 e oltre, in Teatro e Storia, n.s., 2017, n. 38, pp. 67-113.