BARBARO, Ermolao (Almorò)
Nacque a Venezia nel 1453 (o 1454) da Zaccaria (figlio di Francesco) e da Clara Vendramin. Ancora fanciullo, intorno al 1460, fu inviato a Verona presso il suo omonimo, cugino del padre e allora vescovo di quella città, e da lui e dal canonico Matteo Bosso apprese i primi elementi del latino e del greco. Appena due anni dopo, lasciata Verona, cominciò a seguire il padre nelle sue missioni politiche e diplomatiche: e appunto insieme col padre, oratore veneto presso il pontefice, sembra che si sia recato, intorno al 1462, a Roma, dove avrebbe ascoltato le lezioni di Pomponio Leto e di Teodoro Gaza. Nel 1468 era di nuovo, sempre insieme al padre, podestà e capitano della città, a Verona; e qui, il 3 dicembre dello stesso anno, ricevette dall'imperatore Federico III la laurea poetica. Il 26 sett. 1471 entrò a far parte del Maggior Consiglio; ma negli anni seguenti, piuttosto che occuparsi di politica, attese soprattutto a studi letterari e filosofici. Intorno al 1482 scrisse a Napoli, dove aveva seguito il padre, oratore presso gli Aragonesi, la sua prima opera impegnativa, il De coelibatu liber.
Tornato nel Veneto, il B. riprese a frequentare l'università di Padova, dove aveva cominciato a studiare nel 1471, e qui si addottorò in artibus il 23 ag. 1474, e in utroque iure il 27 ott. 1477- In questi stessi anni ha inizio la sua attività di interprete e commentatore di Aristotele: dopo aver tradotto a diciannove anni il commento di Temistio, espone all'università di Padova prima l'Etica Nicomachea (1474-75), Poi la Politica (1475-76), e compone una Epitome librorum Aristotelis ethicorum; quindi a venticinque anni, cioè intorno al 1478-79, traduce la Retorica. Nel decennio che segue si occupa più attivamente di politica. Ancora in compagnia del padre ambasciatore si reca a Roma nel 1480-81 e a Milano nel 1485; ma anche a lui personalmente sono affidati incarichi di un certo rilievo. Senatore dal 1483, nello stesso anno pronuncia un'orazione in onore di Renato di Lorena; nel 1484 è offitialis rationum veterum e nel 1485 copiarum praefectus; nel 1486 è inviato a Bruges presso Federico III e il figlio di lui, Massimiliano, eletto re dei Romani, e alla loro presenza recita un'altra e più solenne orazione; nel 1488 viene nominato ad continentem et bella praefectus (savio di Terra ferma), e nell'aprile dello stesso anno è mandato come oratore veneto alla corte milanese, presso la quale si trattiene sino all'agosto 1489; infine, nell'aprile del 1490, riceve la nomina di ambasciatore a Roma, dove giunge nel maggio, dopo aver sostato a Firenze e a Siena per salutare Lorenzo il Magnifico. Ma in questoi decennio, forse il periodo più bello della vita del B., si intensifica anche il suo ~ fervore di studioso. Dopo aver curato personalmente l'edizione della versione di Temistio, stampata nel 1481, intraprende nel 1481-82 il Commento di Dioscoride; nel 1483-84 si dedica allo studio della dialettica aristotelica, scrivendo delle Adnotationes in Analyticos priores; nel 1484 stende un Compendium scientiae naturalis ex Aristotele e tiene a Padova un corso privato intorno a Demostene e Teocrito; nel novembre dello stesso anno comincia a Venezia, nella propria casa, con grande concorso di allievi, una serie di lezioni intorno ad Aristotele, "solo amore litterarum" e con il proposito dichiarato di esporre "intra quadriennium non dico quaecumque leguntur in scholis (nam haec perpauca sunt), sed quaecumque Aristoteles conscripsit logica, physica, theologica, poetica, rhetorica"(Epistolae...,ed. Branca, I, p. 92); e infine, fra l'aprile 1489 e il marzo 1491, stende il trattato De officio legati.
Il corso, finora così sereno, della vita del B. viene drammaticamente e improvvisamente turbato, allorché Innocenzo VIII, il 6 marzo 1491, gli conferisce motu proprio l'alta carica di patriarca di Aquileia: nomina assai onorevole, ma che urtava contro un'antica e severa disposizione della Repubblica di Venezia, in forza della quale era proibito agli ambasciatori di accettare doni o cariche loro offerti dai sovrani presso cui si trovavano in missione. In effetto il Senato veneto impose immediatamente al B. di rifiutare la nomina, ma tanto Innocenzo VIII, mosso probabilmente dall'intento di affermare la sua autorità nei confronti dei Veneziani, quanto Alessandro VI che gli succedette, si rifiutarono recisamente di revocarla, minacciando anzi di scomunica il nuovo patriarca, se avesse dato le dimissioni. Di questa situazione la vera vittima fu appunto il B., che, non osando opporsi alla volontà del pontefice, fu rimosso dalla sua carica di ambasciatore presso il papa (lo sostituì Girolamo Donato) e dovette trascorrere a Roma, in esilio, i suoi ultimi anni di vita: unico conforto gli studi e in particolare la composizione della sua ultima e più famosa opera, le Castigationes plinianae et in Pomponium Melam. Aveva appena pubblicato quest'opera, quando, ammalatosi di peste, si spense a Roma nel 1493, probabilmente nel luglio.
Le diverse e talora contrastanti interpretazioni che sono state date del B. hanno indubbiamente la loro giustificazione nella effettiva complessità della sua figura, la quale, a nostro avviso, può essere pienamente intesa e valutata solo se collocata nel quadro di quella crisi dell'umanesimo, che ha il suo centro più sensibile nella Firenze di Lorenzo il Magnifico, ma che in varia forma è avvertita un po, da tutta la cultura italiana della seconda metà del Quattrocento. Nell'ambito appunto di questa crisi si chiarisce, anzitutto, la posizione del B. rispetto al problema, così vivamente sentito e dibattuto in quel tempo, del rapporto tra vita attiva e vita contemplativa, fra azione e cultura. Per certi aspetti si sarebbe indotti a vedere in lui un continuatore di quella generazione di umanisti a cui appartenevano, ad esempio, per rimanere in famiglia, l'avo Francesco e lo zio Ermolao, e per cui le lettere erano elemento integrante di una operosa vita civile. Possono valere come documenti in tal senso non soltanto i suoi incarichi politici e diplomatici, ma anche i suoi trattati De coelibatu e De officio legati, nei quali, come ha osservato il Branca,, all'affermazione d'un ideale di compostezza umana e di finezza interiore si accompagna l'esigenza di tradurre questo ideale, attraverso il gesto, il contegno, il decoro della persona, nella realtà concreta della vita quotidiana. È anche vero, tuttavia, che sia nella vita sia nella teoria tale esigenza non si risolve in un gusto dell'azione religiosa, politica e sociale veramente fervido e costruttivo, ma tende a rimanere piuttosto entro i limiti di un raffinato e aristocratico estetismo. "Ha nome di experto in rebus agendis, ma non mi pare consonino queste cose insieme, che più presto pare da ceremonia che no". Questo acuto giudizio di Piero di Lorenzo de' Medici trova riscontro nella natura degli uffici politici e diplomatici esercitati dal B., in genere piuttosto onorifici che importanti; e forse non è un caso che egli sia fallito, pagando di persona, quando a Roma dovette affrontare una situazione davvero seria e difficile. La sua scarsa vocazione per la vita pratica si rivela anche nei suoi trattati, dei quali il primo è, in definitiva, un elogio della vita contemplativa del letterato, in polemica, sia pure implicita, con il De re uxoria del nonno Francesco; mentre il De officio legati vuol essere, più che un manuale di diplomazia, un ritratto del "perfetto" ambasciatore, che anticipa le grandi trattazioni cinquecentesche del Bembo, del Castiglione, del Della Casa, i quali non a caso furono tra i più fervidi ammiratori del Barbaro. In realtà egli stesso si rendeva ben conto di quale fosse la sua più vera e profonda vocazione: "Quod vero scribís" rispondeva ad un anonimo, che si era congratulato con lui della legazione a Bruges, "vereri te ne studium illud acre nostrum, quod litteris impendimus, res publica mihi detrahat, omnino difficilem rem proponis et unde me satis commode non explico. Caeterum fido Deo in tantum ut sperem honores et munera reipublicae quasi ludum et avocamentum mihi fore ab seria illa et intenta cura litterarum. Cupio enim te scire, quod tamen de me non sine magno pudore praedico, nihil mihi serium videri nisi litteras... In iis immodicus, in iis ambitiosus..."(Epistolae..., ed. Branca, I, p. 100). E qualche tempo prima aveva scritto, più solennemente, ad Arnoldo di Bost: "Neque tamen initiari sacris me sum passus, nullius me militae sacramento addixi, paganus et spontis meae sum. Duos agnosco dominos, Christum et litteras... * (ibid, I, p. 96): dove anche l'omaggio a Cristo acquista il suo vero significato solo se messo in relazione con il rifiuto, che precede, di impegnarsi in una concreta attività ecclesiastica.
Questa aristocratica vocazione letteraria trova conferma e chiarimento nella sua opera di filologo e di scrittore. Senza dubbio lo spirito critico a cui è ispirata la sua attività di traduttore ed espositore di testi antichi - sia che egli cerchi di ritrovare il "vero" Aristotele, liberandolo dalle interpretazioni errate e confuse delle versioni e dei commenti medievali; sia che si volga a correggere e ad illustrare, valendosi non solo della sua erudízione e del suo acume ma anche di esperienze dirette, le trattazioni scientifiche di Dioscoride e di Plinio - sembra elemento più che sufficiente per collocarlo nel gruppo del grandi filologi della seconda metà del Quattrocento, accanto a Lorenzo Valla, a Giorgio Merula, che egli conobbe assai bene, al Poliziano, a cui lo univa, oltre a una personale simpatia, il comune proposito di restaurare la classicità nel suo splendore offuscato dalla barbarie. Ma proprio come nel Poliziano, e forse anche più, la filologia nel B. tende spesso a diventare squisito esercizio di intelligenza e di erudizione, un pretesto per impegnarsi vittoriosamente in difficili e preziose prove di stile. Caratteristiche in questo senso sono le traduzioni, le quali vogliono sì rispondere all'intento di rendere chiaro e perspicuo il pensiero dello scrittore tradotto, ma anche, al tempo stesso, sono guidate dal criterio di trasporne i concetti in uno stile latino elegantissimo e personale: "libere et traslationibus et figuris et tropis usi sumus, ad morem romanum ...; non tam latinum reddere Themistiulr-, quam certare cum eo volui", egli dichiara apertamente nella dedica a Sisto IV della sua versione di Temistio; e a proposito delle sue versioni aristoteliche analogamente afferma: "Omnes Aristotelis libros converto et quanta possum luce, proprietate, cultu exorno" (Epistolae..., I, pp. 9 e 92). Vero è che - ha osservato il Garin (L'umanesimo it.., p - 95) - se -egli parte dall'esigenza, tipica del più vivo umanesimo, "di evitare il divorzio di forma e contenuto, operato dai filosofi e dai giuristi ai danni della forma", e di riconciliare la filosofia della natura con gli studia humanitatis, la sua intima natura finisce per spingerlo in concreto ad "operare la medesima separazione ai danni del contenuto", come appunto gli rimproverava il Pico in una cortese ma ferma lettera polemica. Questa inclinazione del B. per le raffinatezze formali si rivela più chiaramente e con più originali tisultati artistici nelle sue epistole e nelle sue orazioni, composte in uno stile forse meno vivo e colorito di quello delle prose latine del Poliziano, ma anch'esso caratterizzato da un ardito eclettismo di moduli e di costrutti, che non rifugge da espressioni rare e da neologismi. Ad illuminare ulteriormente il carattere della cultura del B. è utile ricordare anche il suo interesse filosofico e letterario per le calculationes suiseticae,cioè per quelle sottili questioni di logica nominalistica, che egli aveva sentito discutere a Pavia: "delectavit me subtilitas, et fastidituin ad hoc aevi nomen placere coepit ...; explorare volui numquid senticosa illa et inaccessa litteris praerupta vestigio latino adiri possent" (Epistolao..., I, p. 22).
Durante la vita del B. furono stampate soltanto la versione di Temistio (Themistii Peripatetici paraphrasis...,Tarvisii 1481) e le osservazioni su Plinio e Pomponio Mela (Castigationes plinianae et in Pomponium Melam, Romae 1492-93: le primae nel 1492, le secundae et in Pomponium Melam nel 1493). Dopo la sua morte furono pubblicati: gli In Dioscoridem corollarii, Venezia 1516; il commento del Liber de sex principiis di Gilberto Porretano, Parigi 1541; i Rhetoricorum Aristotelis libri tres, Venezia 1544; l'Epitome librorum Aristotelis ethicorum, Venezia 1544; il Compendium scientiae naturalis ex Aristotele, Venezia 1545. Le epistole, le orazioni e i pochi carmi superstiti sono stati pubblicati in Epistolae, Orationes, Carmina, edizione critica a cura di V. Branca, Firenze 1943; a cura dello stesso Branca è ora in corso di stampa l'edizione critica dei trattati De coelibatu (finora inedito) e De officio legati, con importanti introduzioni, delle quali si è potuto qui tener conto per cortesia dell'autore. Nella biblioteca universitaria di Bologna sono conservate manoscritte le Adnotationes in Analyticos priores. Per notizie sulle opere attribuite o perdute e per altre indicazioni particolari sulle opere del B., cfr. la voce curata da V. Branca nel Repertorio degli umanisti italiani,f ascicolo di saggio, Firenze 1943, pp. 2 s.; e dello stesso la nota in Lettere italiane, VII (1955), pp. 210 s.; inoltre, gli studi dei Kristeller e del Branca citati nella bibliografia.
Bibl.: Studi complessivi: ancora utili sono le pagine dedicate al B. da A. Zeno, Dissertazi. onivossiane, Venezia 1756, II, pp. 348 ss.; e la voce di G. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 1, Brescia 1758, pp. 256-64. Fra le opere più recenti: T. Stickney, De H. B. vita atque ingenio, Paris 1902; A. Ferriguto, Almorò B., l'alta cultura del settentrione d'Italia nel '400, i "Sacri canones" di Roma e le "Sanctissime leze" di Venezia, Venezia 1922, su cui cfr. la recensione di R. Sabbadini, in Giorn. stor. d. letter. it., LXXXII (1923), pp. 185-88. In particolare sulla vita si vedano (oltre la voce cit. di V. Branca nel Repertorio degli umanisti italiani): G. della Santa, Una vicenda della dimora di E. B. a Roma, in Scritti storici. in memoria di G. Monticolo ,Padova 1922, pp. 22 1 -28; L. Banfi, E. B., Venezia e il Patriarcato di Aquileia, in Nuova Antologia, CXI (1956), pp. 421-28; P. Paschini, Tre illustri prelati del Rinascimento: E. B., A. Castellesi, G. Grimani, Roma 1957, su cui cfr. la recensione di V. Branca, in Lettere italiane, X (1958), pp. 103-106. Sulla cultura filosofica e filologica dei B.: G. Toffanin, Che cos'è l'umanesimo, Firenze 1929, pp. 80-84; P. O. Kristeller, Un codice padovano postillato da Francesco ed E. B..., in La Bibliofilia, L (1948), pp. 162-78; G. Saitta, Il Pensiero italiano nell'umanesimo e nel Rinascimento, I, Bologna 1949, pp. 438-45; V. Branca, Un trattato inedito di E. B.: il "De coelibatu liber", in Bibliothèque d'Húmanisme et Renaissance, XIV (1952), pp. 83-98; E. Garin, L'umanesimo italiano, Bari 1952, pp. 9296 e 132 ss.; C. Dionisotti, E. B. e la fortuna di Suiseth, in Medioevo e Rinascimento, Studi in onore di B. Nardi, Firenze 1955, 1, pp. 217-53; B. Nardi, Letteratura e cultura veneziana nel Quattrocento, nel vol. miscell. La vita veneziana del Quattrocento, Firenze 1957, pp. 124 s., 126 s.; E. Garin, La cultura filosofica del Rinascimento italiano, Firenze 1961, cfr. Indice; Enciclopedia Italiana, VI, p.132; Enciclopedia Cattolica, II, Coll. 820.