Ernesto Buonaiuti
Precoce cultore degli studi storico-filosofici sviluppati all’estero, partecipe indagatore della realtà socioreligiosa contemporanea e prete in conflitto con la sua Chiesa, Ernesto Buonaiuti è una rilevante personalità della cultura italiana del Novecento. La complessità del personaggio, le dimensioni della sua opera – letta e tradotta anche all’estero –, la corrispondenza intrattenuta con una rete di amici che si estendeva anche oltre Atlantico non hanno ancora permesso di realizzare una sua biografia critica esaustiva. La difficoltà non è però dipesa solo dalla mole dell’opera e dalla dispersione dei documenti, molti dei quali solo recentemente editi e adeguatamente studiati, ma soprattutto dalla complessità di un itinerario intellettuale profondamente segnato da traversie, se non addirittura da rotture esistenziali, oltre che da un tenace impegno culturale e insieme spirituale.
Ernesto Buonaiuti nacque a Roma il 25 giugno 1881, in una famiglia di condizioni modeste. Il padre Leopoldo, gestore di una rivendita di tabacchi, morì di tubercolosi nel 1887, lasciando la moglie Luisa Costa e i cinque figli in una situazione economica molto difficile. Ernesto ricevette una prima educazione religiosa presso la parrocchia della chiesa di San Rocco. Dal 1892 frequentò il ginnasio presso il Pontificio seminario romano maggiore, allora situato nel Palazzo di Sant’Apollinare. Entratovi come interno nel 1894, vi ricevette la tonsura nel 1897 e la nomina a chierico nel 1901; durante gli studi strinse amicizia con un altro allievo, Angelo Roncalli (il futuro papa Giovanni XXIII).
In quegli anni lesse le opere storiche e filosofiche di autori che poteva trovare nella biblioteca del seminario, come Luigi Tosti e Augusto Conti, ma anche di autori giudicati eterodossi, in particolare il francese Maurice Blondel, il cui libro L’action (1893) ebbe su di lui una profonda influenza. Ancora più forte fu quella di Salvatore Minocchi, la cui fondazione nel 1901 della rivista «Studi religiosi» è considerata l’atto di nascita del modernismo cattolico in Italia. In quell’anno, la passione di Buonaiuti per le nuove idee moderniste fu punita con il divieto di frequentare il seminario come interno.
Nel 1906 arrivò la rimozione dalla cattedra di storia della Chiesa, che egli occupava nel seminario dal 1903. Del novembre 1907 è la scomunica, seppure ancora solo in forma impersonale, quale redattore anonimo de Il programma dei modernisti, pubblica risposta all’enciclica di Pio X Pascendi dominici gregis (8 settembre 1907); appena qualche settimana più tardi giunse il richiamo all’ortodossia da parte del cardinal vicario, Pietro Respighi, e quindi un ammonimento del papa, a seguito dell’istruttoria promossa presso l’Indice contro il primo lavoro storico d’ampio respiro di Buonaiuti, Lo gnosticismo.
Buonaiuti non indietreggiò, e anzi moltiplicò le iniziative editoriali e la collaborazione alle riviste moderniste; così quegli anni, dopo i primi interventi su vari periodici (a iniziare da quello di Minocchi e da quello di Romolo Murri, «Cultura sociale»), videro Buonaiuti fondare nel 1908 «Nova et vetera», l’organo modernista più radicale, autosoppressosi l’anno seguente. Alla fine del 1908, infatti, era stata intercettata a Ginevra e denunziata al Sant’Uffizio una missiva di Buonaiuti all’amico modernista Antonino De Stefano, della quale fu chiamato a rendere spiegazioni.
Buonaiuti pensò allora che il programma riformatore andasse ormai limitato solo allo sforzo di rinnovamento intellettuale e di svecchiamento della cultura ecclesiastica, piuttosto che alla riforma della stessa organizzazione e vita ecclesiali. Nel 1910, però, dopo una dura polemica con «La civiltà cattolica», intervenne la prima condanna all’Indice nei confronti delle sue opere, che colpì anche la «Rivista storico-critica delle scienze teologiche», da lui diretta fin dal 1905.
Nel 1911 sollevarono lo sdegno di modernisti italiani e stranieri, che accusarono Buonaiuti di essere un ipocrita opportunista, le professioni di ortodossia cattolica da lui rese il 30 maggio durante un’udienza del processo per diffamazione intentato contro Gustavo Verdesi, un membro dell’ormai dissolto gruppo di ecclesiastici modernisti romani, che aveva rivelato al suo accusatore gesuita Carlo Bricarelli l’importante ruolo svolto da Buonaiuti nell’ambito di tale gruppo.
Qualche mese più tardi, Buonaiuti progettò di raccogliere in un volume, L’isola di smeraldo, le riflessioni dettate a lui e a Nicola Turchi da un viaggio estivo in Irlanda, ma la censura ecclesiastica intervenne con il sequestro dell’opera, ancora allo stato di bozze presso la tipografia vaticana. Nel 1914, il cambio di pontificato, con l’elezione di Benedetto XV, indusse Buonaiuti a ritenere possibile la pubblicazione del testo, la cui condanna fu sospesa per iniziativa del nuovo papa in cambio di una ritrattazione degli errori imputati.
Nel marzo 1915 Buonaiuti risultò vincitore del contrastato concorso a cattedra di storia del cristianesimo all’Università di Roma. La suspensio arrivò nel 1916, a colpirlo come redattore ecclesiastico della «Rivista di scienza delle religioni» (fondata nel gennaio di quell’anno), ma soprattutto come titolare ecclesiastico di un insegnamento critico, in un ruolo accademico di rilievo sottratto al controllo della censura ecclesiale. Alla riabilitazione bastò, in luglio, la prestazione del giuramento antimodernista. Fu così attaccato dalla stampa laica che metteva in dubbio la qualità della sua libertà di ricerca, ed egli fu costretto a giustificare il proprio operato con il ministro della Pubblica Istruzione Francesco Ruffini, precisando, giustamente, che l’atto adempiuto aveva solo una portata disciplinare.
Nel 1917 furono messe all’Indice le dispense del suo corso universitario di tema paolino (raccolte da uno studente), ed egli si difese respingendo la responsabilità degli errori contestati. L’anno successivo la stessa sorte toccò a due suoi studi di soggetto agostiniano, e nel gennaio del 1921 anche alla rivista «Religio», da lui fondata nel 1919. Il 14 gennaio 1921 vi fu la prima scomunica personale nei suoi confronti, per aver negato, in un articolo apparso su «Religio», che la dottrina eucaristica paolina concordasse con quella della presenza reale. Dopo una grave malattia (causata dalla forte tensione nervosa) che lo mise in pericolo di vita, la scomunica fu revocata a seguito di una sua pubblica dichiarazione di fede resa l’8 aprile a «L’osservatore romano», contenente, tra l’altro, l’impegno a spostare i propri interessi di ricerca dal cristianesimo delle origini a quello medievale.
Negli anni successivi, Buonaiuti rinvigorì l’impegno per contrastare l’egemonia accademica neoidealista del ministro Giovanni Gentile, contro cui aveva già da tempo polemizzato per difendere il proprio credo modernista. Negli stessi anni s’infittì inoltre il suo contributo alla stampa periodica non specialistica, su una linea di ostilità nei confronti del regime fascista: Buonaiuti esaltò, tra l’altro, il sacrificio di Giacomo Matteotti, il deputato socialista rapito e assassinato da sicari del regime il 10 giugno 1924.
Venuta meno la copertura precedentemente offerta a Buonaiuti dal segretario di Stato vaticano Pietro Gasparri, il Sant’Uffizio ottenne nel 1924 la sua definitiva scomunica e la messa all’Indice di tutte le sue opere, accompagnata il 30 gennaio 1925 dall’ingiunzione a deporre l’abito talare e dalla messa all’Indice di «Ricerche religiose», rivista da lui appena fondata, che proseguì comunque le pubblicazioni.
L’entusiasmo manifestato da Buonaiuti direttamente al papa Pio XI nel dicembre 1925 per la pubblicazione dell’enciclica Quas primas (la quale, affermando il primato dello spirituale nella società, aveva fatto sperare che il pontefice intendesse tenere testa al potere temporale in Italia) e la decisione, nel febbraio 1926, di sospendere l’insegnamento, non poterono comunque soddisfare le esigenze che le autorità cattoliche gli manifestarono attraverso la mediazione, affatto diplomatica, di Agostino Gemelli (1878-1959); così, con un decreto del Sant’Uffizio datato 25 gennaio 1926, la scomunica venne aggravata dalla prescrizione vitandus, tesa a impedire ai fedeli qualsiasi contatto con lui.
Le pressioni esercitate dalla Santa Sede sul governo fascista impedirono definitivamente il ritorno di Buonaiuti alla docenza. Gli fu così affidato un compito archivistico, e poi, su sua richiesta, venne incaricato dell’edizione critica delle opere di Gioacchino da Fiore. Nel febbraio del 1930 (quindi un anno dopo la stipula dei Patti Lateranensi), per effetto diretto di un dispositivo concordatario, Buonaiuti subì la spoliazione dall’abito talare: uno «scuoiamento», secondo l’espressione da lui usata con gli amici. Nel dicembre 1931 arrivò la radiazione dai ruoli accademici, per aver rifiutato di prestare il giuramento di fedeltà al regime.
Si intensificò allora, quando non fu impedita dall’opposizione delle autorità politiche e religiose, la sua attività di conferenziere itinerante in varie città italiane. Decisivo fu il sostegno di amici e allievi evangelici, che gli permisero di partecipare a incontri e convegni all’estero e di poter ritrovare un’attività d’insegnamento (tre semestri presso l’Università libera di Losanna, tra il 1935 e il 1939). In quegli anni Buonaiuti prese anche pubblica posizione contro l’antisemitismo che si affermava in Italia. Dopo lo scoppio della guerra dovette vendere la propria biblioteca e, per poter sopravvivere, redasse persino qualche articolo compiacente per «Cronache della guerra», un settimanale propagandistico pubblicato dal ministero della Cultura popolare. Contro ogni razionalità giuridica, la sua radiazione dai ruoli accademici decretata nel 1931 fu mantenuta anche dopo la caduta del regime, per le ripetute pressioni del Vaticano sui primi fragili governi democratici postbellici e, in particolare, per la persistente ostilità del Sant’Uffizio. Infine, dopo le nuove messe all’Indice del 1942 e del 1944, quando egli già si trovava sul letto di morte, alla vigilia della Pasqua del 1946, giunse il suo deciso rifiuto della riconciliazione finale, propostagli dal cardinale Francesco Marmaggi. Fu colto dalla morte il 20 aprile, mentre era in piena effervescente ricerca di un ruolo per il cristianesimo nella nuova Italia repubblicana.
Il pubblico contributo di Buonaiuti al modernismo italiano fu inaugurato nel 1905 con un’accorta opera di diffusione delle idee di Blondel, con il quale entrò in corrispondenza. Quindi, egli manifestò il proprio interesse per i nuovi studi storico-esegetici, e in particolare per l’interpretazione escatologica del messaggio originario di Gesù a cui aveva dato vasta eco l’opera del francese Alfred Loisy, che Buonaiuti incontrò durante un viaggio estivo in Francia nel 1906.
Il cosmopolitismo culturale dell’ambiente religioso romano aiutò Buonaiuti a mettersi in evidenza nel mondo culturale anglosassone: infatti, una sua presentazione della lettura delle origini cristiane alla luce dell’approccio storico-critico apparve su un bollettino del Collegio irlandese di Roma (Christianity in the light of the recent criticism, «Seven hills», giugno-dicembre 1906, pp. 105-26, 231-50, 428-46); quindi egli pubblicò sulla «New York review» prima un ritratto di Luciano di Samosata e poi un denso resoconto sui più recenti sviluppi degli studi francescani (Lucian of Samosata and the Asiatic and Syrian christianity of his time, 1906, 2, pp. 49-65; Francis of Assisi in modern critical thought, 1907, 1, pp. 459-78); infine, redasse numerosi voci relative a diocesi italiane per il primo volume (1907) della Catholic encyclopedia, pubblicata a New York. Il suo studio Lo gnosticismo venne inoltre positivamente recensito nel 1907 sulla «New York review», oltre che in Germania.
Intanto, avendo seguitato a interessarsi allo sviluppo del dibattito sul senso dei dogmi avviato in Francia da Édouard Le Roy, Buonaiuti seguì inizialmente la cauta linea blondeliana, ma presto riconobbe come adeguata l’interpretazione in senso pragmatista degli enunciati dogmatici, finendo con l’essere individuato nel 1907 come il più radicale esponente delle posizioni moderniste in Italia. Nel maggio di quello stesso anno fu pubblicata sul quindicinale «Mercure de France» (238, pp. 238-39) la sua risposta all’inchiesta internazionale su La question religieuse, che aveva sollecitato personalità del mondo accademico e letterario transalpino e italiano. Buonaiuti vi difese l’indistruttibilità del sentimento religioso, presentato come mero prodotto della psicologia umana espresso in forma collettiva, e affermò inoltre che la crisi religiosa in corso annunciava un’imminente trasformazione del sentire religioso, di cui però non si poteva valutare ancora bene quale sarebbe stata la reale portata.
In estate incontrò il teologo irlandese George Tyrrell, con cui strinse amicizia: ne avrebbe condiviso l’esigenza del ritorno all’originario messaggio cristiano a cui commisurare il valore delle successive realizzazioni storiche del cristianesimo e l’idea che la formula dogmatica fosse sempre il risultato di un presupposto vissuto religioso collettivo. Alla fine di agosto partecipò alla riunione dei modernisti italiani raccolti a Molveno intorno al filosofo austriaco Friedrich von Hügel, impressionando per le opinioni espresse circa il valore pratico del dogma eucaristico.
La pubblicazione dell’enciclica Pascendi, resa nota al pubblico il 16 settembre, prostrò la speranza di Buonaiuti di vedere presto realizzata l’attesa trasformazione del sentimento religioso collettivo, ma allo stesso tempo ne moltiplicò le energie, perché egli fu il primo responsabile della già citata risposta pubblica dei modernisti italiani all’enciclica, apparsa anonima in un volumetto che fu immediatamente tradotto in francese, in tedesco e, per opera di Tyrrell, in inglese; alcuni anni dopo sarebbe stato giudicato dallo storico Luigi Salvatorelli come «il capolavoro» del modernismo (Filosofia e religione, «La voce», 19 dicembre 1912).
La corrispondenza intrattenuta da Buonaiuti nel 1908 con il teologo francese Albert Houtin, per annunciargli il lancio della rivista «Nova et vetera», mostra come egli intendesse dare voce al «modernismo integrale». Furono queste le intenzioni che portarono nello stesso anno alla pubblicazione delle Lettere di un prete modernista, anch’esse anonime, di cui Buonaiuti fu il principale redattore. In tali frangenti egli assicurò inoltre a Houtin che, giunto il momento, non sarebbe indietreggiato di fronte un’eventuale scomunica. Così, sempre insieme a Houtin, ma coordinandosi anche con il gruppo monacense di «Das Zwanzigste Jahrhundert» e con Tyrrell, progettò di dar vita a un’associazione modernista internazionale. Pur quindi senza preconizzare apertamente uno scisma, operò da riformatore religioso per un superamento dell’assetto teologico ed ecclesiale del cattolicesimo contemporaneo. È noto che, nell’identificazione tra il cristianesimo e un socialismo non più antireligioso, ma solo anticlericale, non poterono seguirlo non soltanto i modernisti più moderati, ma neanche l’amico Tyrrell e Houtin.
Nel novembre del 1908 la situazione precipitò, con l’intervento del Sant’Uffizio e la minaccia della chiusura della stessa «Rivista storico-critica di scienze teologiche». Buonaiuti spiegò allora a Houtin, in una lettera del 28 gennaio 1909 (cfr. Carteggio Houtin-Buonaiuti, «Fonti e documenti», 1972, 1, p. 61), di avere ancora fiducia nel futuro del modernismo italiano, ma che nella congiuntura marcata dall’immaturità dell’opinione pubblica e dal peso sociale dell’istituzione ecclesiastica, il proprio ruolo doveva necessariamente limitarsi all’impegno sul piano degli studi storico-religiosi, rassicurandolo anche sul fatto che tale contesto, più che un’«agonia», rappresentava una «gestazione».
Nel marzo del 1909 Buonaiuti fu entusiasta per l’elezione di Murri alla Camera, e si rivolse a Houtin (cfr. Carteggio…, cit., pp. 63-64) per comunicargli la speranza che il neodeputato potesse realizzare il programma di rinforzare gli studi accademici storico-religiosi, creando così un’«avanguardia contro il Vaticano».
La corrispondenza con Houtin è una risorsa preziosa per poter comprendere correttamente la ridefinizione del programma modernista di Buonaiuti, con l’adozione di una cauta tattica di temporeggiamento e una provvisoria rinuncia a lavorare per il mutamento immediato dell’assetto della Chiesa, dalla quale egli non intendeva separarsi. Benché, con la morte di Tyrrell (luglio 1909), come spiegò a Houtin in una lettera del 2 settembre 1909 (cfr. Carteggio…, cit., pp. 66-68), il modernismo stesso gli sembrasse ormai morto, innanzi alla «disfatta» del movimento gli restava solo la consolazione che sono le minoranze a fare la storia, non più certo la speranza di riuscire a convertire «la beatissima curia romana» di Pio X.
Il ripiego nel campo degli studi storico-esegetici permise a Buonaiuti di divulgare in Italia i risultati della ricerca neotestamentaria del tedesco Gustav Adolf Deissmann. In particolare, iniziò allora a mutare in positivo la visione buonaiutiana di san Paolo, che nelle Lettere del 1908 era invece stato presentato come il «primo grande corruttore del Vangelo» (p. 128). Dopo la condanna e la messa all’Indice del 1910 e la decisione (auspicata anche da influenti personalità come il padre domenicano Alberto Lepidi) di non arrivare alla rottura definitiva con l’istituzione, la produzione intellettuale di Buonaiuti subì un rallentamento.
Nel 1911, per decreto della Congregazione concistoriale (l’organo della curia romana che si occupa degli affari delle diocesi), fu vietata la circolazione nei seminari dell’edizione italiana, uscita quell’anno, dell’Histoire ancienne de l’Église (3 voll., 1905-1910) di Louis-Marie-Olivier Duchesne, apparsa in una traduzione firmata da Turchi cui Buonaiuti aveva dato il suo contributo. Nel 1913 egli raccolse in un volume il testo di due conferenze (che non poté tenere per il divieto delle autorità ecclesiastiche) su Il cristianesimo primitivo e la politica imperiale romana ove formulò chiaramente la tesi dell’incompatibilità fra il messaggio che animava le comunità primitive e le esigenze politiche delle autorità imperiali. La preparazione del concorso alla cattedra di storia del cristianesimo all’Università di Roma, che lo portò a nutrire una prolungata (e ricambiata) ostilità nei confronti di Adolfo Omodeo, sostenuto da Gentile, lo indusse a raccogliere nel 1914 le sue lezioni giovanili di storia ecclesiastica ne Il cristianesimo medievale.
Ma gli anni immediatemente successivi al 1914, cioè alla fine del pontificato di Pio X, non furono per Buonaiuti solo i primi anni di impegno universitario e di continuo scontro con i guardiani dell’ortodossia, ma anche quelli dello scoppio del primo conflitto mondiale, durante il quale Buonaiuti svolse un incarico burocratico all’ospedale militare del Celio, dopo il rifiuto opposto alla sua richiesta di servire al fronte come cappellano militare. Va quindi menzionata, insieme all’adesione di Buonaiuti all’iniziativa presa ai danni dello storico tedesco Karl Julius Beloch e di altri accademici degli imperi centrali residenti in Italia, la corrispondenza del 1916-1918 con lo storico belga Franz-Valéry-Marie Cumont (1868-1947), prestigioso collaboratore della «Rivista di scienza delle religioni»: essa, infatti, mostra chiaramente come Buonaiuti non sia rimasto indifferente al moto propagandistico sollevato tra gli intellettuali delle potenze alleate contro il pangermanismo.
L’esperienza della guerra segnò quindi la vicenda buonaiutiana più di quanto non sia stato finora documentato. In quel periodo, infatti, Buonaiuti condivise l’interesse dimostrato dagli ambienti culturali cattolici per il Medioevo, idealizzato come l’epoca in cui i popoli europei si erano ritrovati uniti nella stessa fede cristiana, e in tali frangenti si approfondì in lui il senso dell’opposizione fra la cultura mediterranea e l’individualismo germanico, che sarà non solo all’origine del suo giudizio fondamentalmente negativo sulla Riforma, ma anche della sua ostilità nei confronti del neoidealismo hegeliano, destinato a dominare il panorama accademico-culturale italiano.
Nel 1916, l’anno della suspensio rientrata dopo la prestazione del giuramento antimodernista, Buonaiuti produsse un importante studio agostiniano (La genesi della dottrina agostiniana intorno al peccato originale), tradotto l’anno successivo in inglese da Giorgio La Piana (1879-1971) per l’«Harvard theological review»; in esso, con l’apprezzamento degli specialisti, Buonaiuti riformò la tesi, avanzata dall’ispiratore del ‘protestantesimo liberale’, lo storico e teologo luterano tedesco Adolf von Harnack (1851-1930), secondo la quale la dottrina agostiniana della «massa dannata» era derivata da sant’Ambrogio, precisando, invece, che la lezione seguita da sant’Agostino era piuttosto stata quella dell’Ambrosiaster.
L’attività universitaria di Buonaiuti proseguì con l’approfondimento dello studio del contributo paolino alle origini cristiane e le conseguenti censure, permettendogli però di divulgare in Italia gli studi di storici del cristianesimo come Loisy e i tedeschi Wilhelm Bousset, Richard Reizenstein ed Eduard Norden, insistendo comunque sull’originalità della personalità paolina. È del 1917 Sant’Agostino per le edizioni di Angelo Fortunato Formiggini (la cui seconda edizione del 1923 fu tradotta in romeno). In tale lavoro Buonaiuti non esitò a criticare l’opinione espressa dal tedesco Ernst Troeltsch nel fervore dell’avvio del conflitto, secondo la quale, per i ridotti effetti sociali prodotti dal De civitate dei nel Medioevo, più di questo testo agostiniano erano da ammirare i Reden an die deutsche Nation (1807-1808) di Johann Gottlieb Fichte. Secondo un giudizio più tardivo di La Piana (introduzione a E. Buonaiuti, La vita dello spirito, 1948, p. 17), nella sua interpretazione del capolavoro agostiniano Buonaiuti aveva teso a smussarne troppo l’ecclesiasticismo.
Negli anni del conflitto mondiale, Buonaiuti tornò a riflettere sui più significativi testi dell’antichità relativi al mistero del male e della sua redenzione, ricavandone un più preciso senso della necessità di un canale istituzionale di trasmissione della grazia e dell’adesione alla sua offerta, senza per questo dover rinunciare all’idea che questa investisse la storia e il mondo ben oltre i ristretti e talvolta ingannevoli confini segnati dall’apparato confessionale cattolico, nella bontà, nell’altruismo, nella fraterna solidarietà universale. L’ingenuo ottimismo belle époque attestato dalle Lettere del 1908 era ormai soppiantato da un più maturo e sofferto senso delle realtà della vita personale e sociale.
Le convinzioni maturate da Buonaiuti durante quegli anni permettono di comprendere meglio come all’inizio degli anni Venti, quando legò profondamente a sé la prima generazione degli allievi (Raffaello Morghen, Arturo Carlo Jemolo, Alberto Pincherle), egli abbia svolto il proprio programma di «riformatore endocattolico», individuando nella lacerazione dell’unità spirituale medioevale la lontana causa delle recenti distruzioni prodotte «dall’istinto della disgregazione nazionalistica» (lettera a Salvatorelli del 10 febbraio 1923, cit. in D. Cesarini, Tra storia e mistica. Studi e documenti sul modernismo cattolico, 2008, p. 273) e nelle divisioni confessionali una cocente lacerazione della coscienza cristiana, superabile però solo in prospettiva uniatista. Nel 1921, colpito dalla prima scomunica, Buonaiuti pronunciò le due conferenze su L’essenza del cristianesimo, il cui testo fu pubblicato l’anno successivo, marcando definitivamente la propria originale posizione, più vicina a quella di Tyrrell, nel confronto che aveva opposto Harnack e Loisy al tempo della crisi modernista.
Intanto, dopo l’edizione della prima traduzione italiana della Lettera a Diogneto (1921) e un primo contributo all’«Harvard theological review» su Metodio testimone dell’inesauribile tradizione dell’escatologismo cristiano (The ethics and eschatology of Metodius of Olympus, 1921, 3, pp. 255-66), la produzione di Buonaiuti si incrementò ancora nel 1923. Pubblicò infatti Frammenti gnostici (in cui rielaborò il lavoro del 1907 attaccando la tesi harnackiana dell’evoluzione del cristianesimo come ellenizzazione snaturante) e Saggi sul cristianesimo primitivo, in cui per la prima volta diede una valutazione positiva dell’ascetismo monastico, con un ulteriore scarto rispetto alle posizioni sostenute nelle Lettere del 1908. Tali lavori furono positivamente recensiti da Hans von Soden, Johannes Behm, Loisy e Charles Guignebert.
L’anno successivo, con il profilo Tommaso d’Aquino, Buonaiuti manifestò un’ennesima presa di distanza rispetto alle tesi sostenute nelle Lettere, con l’approvazione in chiave antidealista del realismo tomista, ormai affermatosi saldamente come filosofia ufficiale della Chiesa, di cui però egli tenne a valorizzare la componente dell’agostinismo mediante la quale il ‘dottor angelico’ era riuscito a riformare l’intellettualismo aristotelico. L’Apologia del cattolicismo, pubblicata nel 1923, quindi poco prima della definitiva scomunica (1924), è il testo in cui Buonaiuti esprime in modo più compiuto la propria adesione al cattolicesimo, senza neppure individuare limiti nella filosofia scolastica; il volume fu tradotto in Francia e in Brasile.
Dopo la pubblicazione del medaglione Alfredo Loisy (1925), in cui rimproverò l’approdo all’umanitarismo dello storico francese scomunicato, l’anno successivo, anche allo scopo di riannodare i rapporti con Blondel, lacerati dopo la pubblicazione di uno sfortunato articolo dell’allievo Renato Lazzarini su «Ricerche religiose» (Il problema della salvezza nell’apologetica dell’azione, 1925, pp. 1-12), Buonaiuti pubblicò lo studio Blondel; vi presentò adeguatamente le principali linee del pensiero del filosofo francese, dichiarando inoltre di apprezzarne lo stile ecclesiale dimesso che gli aveva consentito di evitare le rovinose conseguenze di clamorose condanne da parte dell’autorità dottrinale.
A conferma del suo interesse per il pensiero religioso contemporaneo, da poter valorizzare in chiave sia antiscolastica sia antidealistica, quello stesso anno Buonaiuti pubblicò la traduzione di Das Heilige: uber das Irrationale in der Idee des Gottlichen und sein Verhaltnis zum Rationalen (1917), del teologo protestante tedesco Rudolph Otto, il quale però rifiutò l’introduzione di Buonaiuti, che secondo lui aveva ‘cattolicizzato’ il suo pensiero. Sempre nel 1926, apparvero l’articolo Marcione e il Nuovo Testamento latino («Ricerche religiose», pp. 336-48) – in cui Buonaiuti tornò a confutare con strumenti filologici una tesi di Harnack circa i testi utilizzati da Tertulliano nella sua polemica antimarcionita – e il libro Lutero e la Riforma in Germania, che (benché vi si riprendessero le tesi del teologo austriaco Heinrich Denifle) non produsse gli effetti auspicati presso le autorità ecclesiastiche. Nel 1927 Buonaiuti pubblicò così a Parigi Le modernisme catholique, lanciando l’idea che fosse ormai indispensabile la riscoperta dell’universalismo cristiano delle origini auspicata dai modernisti e ingiungendo alla Chiesa l’adozione di tale programma, con l’abbandono dell’ormai insostenibile apparato inquisitorio e dell’astratta filosofia scolastica, se non voleva limitarsi al ruolo di banale pedina nel gioco mondano delle potenze temporali.
Buonaiuti scorse poi nel confronto in atto nel mondo protestante anglosassone tra fondamentalisti e modernisti, oltre che negli interessi sviluppati dai più giovani allievi (Ambrogio Donini, Mario Niccoli), una prova dell’utilità della riforma auspicata. Nel gennaio del 1928, l’enciclica Mortalium animos, con cui Pio XI chiuse le finestre ai primi timidi tentativi di dialogo ecumenico con gli evangelici, frustrò quindi profondamente le speranze di Buonaiuti che la Chiesa potesse ancora partecipare e guidare quello che gli appariva come l’inderogabile rinnovamento della vita religiosa.
Nel 1928 Buonaiuti raccolse i contenuti degli ultimi corsi universitari nei due volumi L’ascetismo cristiano e Il misticismo cristiano. Quindi, il suo costante interesse per le primitive comunità cristiane d’Africa, con il loro radicalismo religioso antimperiale e le grandi personalità che avevano espresso, si concretizzò nella pubblicazione de Il cristianesimo nell’Africa romana, recensito in Germania da Hugo Koch. Sempre nel 1928, nel medaglione Giansenio, propose una lettura dell’eresia giansenista come estremo tentativo consumato nella storia, prima del modernismo, per ritrovare un cristianesimo integro da compromessi mondani, di cui invece la casuistica dei gesuiti costituiva il modello esemplare. I Patti lateranensi del 1929, con le pesanti conseguenze sul piano personale, rappresentarono ai suoi occhi un grave scadimento temporalistico.
Intanto, nello studio e nell’edizione critica dei trattati gioachimiti, Buonaiuti ritrovò l’esaltazione della grande rinascita cristiana nell’attesa messianica per la ‘terza età’ profetizzata da Gioacchino da Fiore; ne derivò la serie di lavori che trovarono significativa espressione in Gioacchino da Fiore: i tempi, la vita, il messaggio (1931); furono apprezzati da Herbert Grundmann e segnarono la formazione di Ernst Benz, venendo coronati dall’Edward Kennard Rand prize in Medieval studies della Medieval Academy of America. Nel 1935, invitato all’edizione di quell’anno delle ‘Décades de Pontigny’ (serie di incontri tra intellettuali europei, tenuti in Francia dal 1910 presso l’abbazia di Pontigny), Buonaiuti avrebbe ancora insistito su un’idea a lui cara, rifiutata dagli studiosi, che la rinascita francescana affondava le sue radici nella profezia gioachimita.
Ormai egli poteva dare espressione al suo pensiero solo attraverso l’esercizio di «un magistero randagio» (lettera a Guido Cagnola del 2 marzo 1932, cit. in Bedeschi 1970, p. 201), in un alternarsi di nostalgie per ciò che di buono la Chiesa avrebbe potuto continuare a rappresentare e di speranze per l’avvento di una nuova Chiesa pancristiana, affidata agli «esuli di tutte le chiese costituite» (discorso del 1937 all’International association of Oxford: cfr. l’introduzione di La Piana a E. Buonaiuti, La vita dello spirito, cit., p. 7), che potesse salvare l’umanità sull’orlo di una nuova catastrofe, introducendola finalmente a una «nuova civiltà ecumenica». La sua visione era allora sostenuta da una concezione della Rivelazione attiva oltre i limiti della tradizione abramitica, culminata nelle antiche esperienze della civiltà mediterranea di cui il cristianesimo aveva costituito la più alta espressione. A partire dal 1942 vennero pubblicati i tre volumi di Storia del cristianesimo, in cui Buonaiuti raccolse i risultati della sua vita di studi per porre il dilemma del destino del cristianesimo. I primi due volumi furono più tardi tradotti in tedesco, sollevando pareri contrastanti.
La lezione di Buonaiuti fu segnata da limiti che per primi i discepoli hanno indicato in un’attenzione troppo esclusivamente portata sul cristianesimo latino e in un lavoro interpretativo che privilegiò soprattutto i documenti letterari, impedendo così di approfondire la conoscenza della dimensione sociale che lo stesso Buonaiuti, allievo di Antonio Labriola, indicò come essenziale per un’adeguata comprensione della storia cristiana. Egli resta tuttavia un grande maestro degli studi storico-religiosi italiani, nonostante i tatticismi (che non intaccano la coerenza di fondo) di un’opera dotata insieme di valore scientifico e di ricco significato umano, prodotto della sua appassionata partecipazione alle vicende del tempo, nella personale convinzione, come scrisse nell’autobiografia (Pellegrino di Roma: la generazione dell’esodo, 1945), che il metodo storico fosse «il vero locus theologicus della rivelazione cristiana» (p. 139).
Lo gnosticismo: storia di antiche lotte religiose, Roma 1907.
Saggi di filologia e storia del Nuovo Testamento, Roma 1910.
Il cristianesimo primitivo e la politica imperiale romana, Roma 1913.
Il cristianesimo medioevale, Città di Castello 1914.
Sant’Agostino, Roma 1917.
Le esperienze fondamentali di Paolo, Roma 1918.
Frammenti gnostici, Roma 1923.
Saggi sul cristianesimo primitivo, Città di Castello 1923.
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Lutero e la Riforma in Germania, Bologna 1926.
Giansenio, Milano 1928.
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Amore e morte nei tragici greci, Roma 1938.
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I maestri della tradizione mediterranea, Roma 1945.
Pellegrino di Roma. La generazione dell’esodo, Roma 1945.
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