Ernesto de Martino
Nel quadro culturale del suo tempo Ernesto de Martino si distingue per molte e ben diverse qualità. Storico del profondo degli uomini dei tempi più remoti e dei più lontani luoghi, fu a un tempo interprete di un’umanità dolente, prossima e contemporanea. Curioso di magia e di trascendenza si immerse nel presente, senza paura di macchiare l’abito del dotto. Esposto nella dimensione pubblica, condusse un’intima e severa cogitazione sull’esserci nel mondo, ricca di risultati, e pure ne lasciò, sepolti nelle carte, molti frutti ancora nuovi. Conobbe notorietà ma non successo, visse da velleitario la politica, variando atteggiamenti e posizioni. Da non filosofo praticò la filosofia, da storico l’etnografia. Insegnò storia delle religioni a Cagliari per un periodo troppo breve per formare una scuola: ha lasciato scolari affezionati, esegeti discussi, non veri successori. Resta unico e nel suo tempo insuperato per entro le contraddizioni del suo ingegno.
Ernesto de Martino nacque a Napoli, il 1° dicembre 1908, da un ingegnere delle ferrovie. La madre era maestra e fu partecipe di esperienze spiritiche. Frequentò il ginnasio a Firenze e il liceo (classico nella sezione moderna, senza il greco, sostituito dal tedesco) a Napoli. Dopo aver frequentato per un anno la facoltà di Ingegneria a Torino, studiò filosofia a Napoli dal 1929. Nel 1930 incontrò Vittorio Macchioro (1880-1958), archeologo e storico delle religioni, di temperamento mistico, immerso nell’esperienza religiosa. Prestò servizio militare come allievo ufficiale, e nei lucidi intervalli, attese abbastanza rapidamente agli studi universitari. Si laureò il 1° settembre 1933, con uno studio, discusso con Adolfo Omodeo, su un rituale della Grecia antica: l’argomento della tesi lo pose in relazione con Raffaele Pettazzoni. Nel 1935 sposò Anna, figlia di Macchioro, personalità vivace e impegnata. A Bari fu professore di storia e filosofia nelle scuole superiori.
Passato da posizioni della sinistra giovanile del fascismo a un primordiale ethos liberale, di incerta ispirazione crociana, stabilì serie relazioni con il gruppo degli antifascisti baresi, culminate nella redazione del testo di un giuramento di fede liberalsocialista nel 1941. In quella fase pubblicò il suo primo libro, Naturalismo e storicismo nell’etnologia, dedicato a Omodeo e promosso da Benedetto Croce. Fu attivo nella propaganda resistenziale, nel 1943, al passaggio della guerra sul fronte del Senio, in Romagna, ove aveva trovato rifugio nei luoghi dei familiari della moglie. Frutto di una sofferta riflessione esistenziale, oltre che di un processo di studio condizionato dalla dimensione metapsichica, che aveva eletto a propria peculiarità, licenziò nell’agosto 1946 Il mondo magico, del cui sottotitolo, Prolegomeni a una storia del magismo, va sottolineata l’importanza. Il libro inaugurava nel 1948 la collana Collezione di studi etnologici, religiosi, psicologici, dell’editore Einaudi, nata per iniziativa dello stesso de Martino e di Cesare Pavese, che costituisce il maggiore, se pur controverso, contributo all’apertura della cultura italiana alle scienze dell’uomo.
Conobbe a Bari Vittoria de Palma, una studentessa delle magistrali che, finito il matrimonio con Anna, in un Paese che non conosceva la forma civile del divorzio, volle come compagna della vita. Si affacciò nell’Italia liberata e poi repubblicana con il desiderio di giocare un ruolo, scegliendo, con partecipe convinzione, quello dell’emancipazione dei lavoratori dell’estremo Sud. Ebbe responsabilità nel Partito socialista a Bari e nel Salento. Anche (ma non solo) in relazione con questo, avviò, in anticipo sui tempi, un’esplorazione del mondo contadino e subalterno della Lucania e della Puglia per poi cavarne frutti grazie a una ermeneutica piuttosto filosofica che etnografica.
Divenne naturaliter comunista all’inizio degli anni Cinquanta, convinto dall’egemonia culturale gramsciana, anche se la sua richiesta di iscrizione fu accolta dal Partito comunista italiano (PCI) – dopo i tempi e i pareri statutariamente necessari a chi era stato dirigente di altro partito – solo nel novembre del 1953 (Severino 2003, p. 542). Si allontanò progressivamente dalle forme pubbliche dell’impegno a mano a mano che si realizzava il suo lavoro intellettuale che restava ai margini della pur vasta iniziativa culturale dei comunisti. Dopo i fatti di Polonia e di Ungheria nel 1956, prese le distanze dai fallimenti del socialismo reale e dalla militanza.
Due diverse realizzazioni della sua ricerca etnografica – in cui il tavolino prevale sempre sul campo – produssero in rapida sequenza di scrittura Morte e pianto rituale nel mondo antico nel 1958 e Sud e magia nel 1959. Libero docente di etnografia dal 1954, insegnante nell’Università di Roma, all’ombra – ingombrante – di Pettazzoni, fu secondo tra gli idonei, nel 1958, al primo concorso presieduto dal fondatore della scuola di storia delle religioni e prese servizio l’anno successivo nella facoltà di Magistero dell’Università di Cagliari. Nel giugno-luglio dello stesso anno condusse la spedizione etnografica nel Salento, il cui esito fu il suo capolavoro storiografico, La terra del rimorso (1961), un libro «bellissimo in forma e contenuto» (Momigliano 1962, p. 165). Il nuovo status universitario facilitò una ripresa della partecipazione politica che lo riavvicinò al PCI. Avviò quindi un’attenta raccolta di materiali e di pensieri finalizzati a un’opera sulle apocalissi culturali, i cui caratteri mutarono nella fase stessa del concepimento e non arrivarono a sedimentare in un modo definitivo. Morì a Roma, in piena coscienza dell’esito della propria malattia, il 6 maggio 1965, lasciando alla giovane compagna un patrimonio di amore, di ricordi e di carte, piene di pensieri e cariche di problemi per gli interpreti.
Lo svolgimento dell’opera intellettuale demartiniana non può ricondursi a un percorso lineare. Non vanno certamente sopravvalutati i suoi scritti d’esordio, in particolare le sue prime manifestazioni in due distinte sedi della gioventù fascista, la «Rivista» del GUF (Gruppi Universitari Fascisti), in cui scrisse appena tornato ventunenne a Napoli, e quell’«Universale», ove esordì anche Indro Montanelli. Al foglio fiorentino inviò tre interventi – tra il 1932 e il 1934 – nel primo dei quali arriva a definirsi «studioso – nientedimeno – delle religioni dei primitivi e non, come parrebbe, politico di professione». Questi testi possono oggi essere letti con il contrappunto di un dialogo epistolare, condotto tra il 1924 e il 1932, con un amico antifascista (Charuty, in Ernesto de Martino e la formazione del suo pensiero, 2005), ma anche considerando l’evidente coinvolgimento intellettuale su tematiche che diremo provvisoriamente irrazionalistiche, documentato dall’epistolario con Macchioro (Di Donato 1999).
Se il primo versante va ricondotto alla vivacità di una generazione ancora priva di responsabilità nel reale e tuttavia desiderosa di praticare nel presente, il secondo si caratterizza per inattualità e per un progressivo rifiuto dello spirito del tempo, se mai ve ne fu uno. La tesi, piuttosto che gli studi universitari, costituì in ogni caso una svolta. Ne ricavò una riflessione molto generale sul Concetto di religione, che Omodeo collocò nella rivista di Luigi Russo e poi di Ernesto Codignola, «La nuova Italia» (1933, 11, pp. 325-29), e un acerbo saggio di storia delle religioni I gephyrismi (1934), contributo alla comprensione di un rituale accessorio alla celebrazione dei misteri eleusini, che Pettazzoni accolse nei suoi «Studi e materiali di storia delle religioni» (ora in E. de Martino, Scritti minori su religione marxismo e psicanalisi, a cura di R. Altamura, P. Ferretti, 1993, pp. 47-68). L’epistolario mostra con chiarezza la difficoltà estrema dei successivi tentativi di darsi un orientamento intellettuale e un oggetto effettivo di ricerca. Quando trovò la sua strada, cominciò dall’esercizio della critica, sul fondamento del pensiero altrui. Vera pars destruens rispetto alla successiva costruzione intellettuale, Naturalismo e storicismo nell’etnologia (1941) non è un semplice esercizio di stile, un’applicazione del crocianesimo alla critica degli studi di etnografia, ma l’annuncio squillante – se pure nella forma scolastica della confutazione – di un terreno nuovo e sostanzialmente inesplorato da visitare con curiosità per l’intero tempo di una vita.
Scrivendo al suo maestro universitario, nei giorni dell’entusiasmo per la pubblicazione del primo libro, lo studioso si lasciava andare a una dichiarazione di dipendenza intellettuale enfatica e molto impegnativa, difficile dire quanto sincera, per certo poco vera:
da anni Voi avete alimentato e fecondato il corso dei miei problemi. Pur muovendomi in un campo di ricerche così lontano dal Vostro, ho sentito come ripetersi in me le Vostre esperienze, mi son trovato di fronte a errori analoghi a quelli che Voi avete dovuto combattere, e m’è parso di dover affermare esigenze non dissimili da quelle che Voi avete fatto valere nella storia del Cristianesimo (cit. in La contraddizione felice?, a cura di R. Di Donato, 1990, p. 88).
Più significativo l’annuncio – subito articolato in progetto – di un soggetto nuovo per lo studio: «mi sto occupando ora del magismo. Malgrado la sterminata produzione etnologica in materia, il fatto è che il magismo non è guadagnato all’autocoscienza della nostra civiltà, non si solleva alla nostra memoria» (p. 89).
Probabilmente negli stessi giorni scrisse un appunto destinato a Croce il cui testo è riapparso in modo abbastanza misterioso tra le carte del filosofo napoletano. Parte da un pensiero che nasce dall’articolo crociano intorno alla Natura come storia senza storia da noi scritta (1939):
Voi considerate qui la “magia” come una “immaginazione” o un “sogno”, e i poteri sulla natura che essa dice di avere come “supposti”. Or a me pare che codesto concetto della magia mal si accorda con lo spirito e con la lettera della vostra filosofia dello spirito (Dal laboratorio del “Mondo magico”, a cura di P. Angelini, 2007, p. 61).
E poco più avanti aggiunge, quasi in maniera impertinente:
La magia è la “Storia come pensiero e come azione” dei primitivi: e se la natura è, come voi dite, storia senza storia da noi scritta, la magia è una storia della natura rappresentata e agita se non proprio dalle piante e dagli animali che l’hanno fatta, da uomini molto prossimi alle piante e agli animali, e perciò in grado di rifarla più di noi (p. 63).
Sembrava quasi, come dicono i semplici, voler mettere avanti le sue mani rispetto al libro che già aveva in mente. Scrivendo infine ad Antonio Banfi il 12 febbraio 1941 commetteva un primo tradimento contro i maestri napoletani:
Come etnologo e come cultore della Kulturgeschichte io ho avuto più volte il modo di osservare come la vita dello spirito sia in realtà cosa molto più complicata e ricca di quel che appare quando ci si ostini a vederla attraverso le “quattro forme”. Solo un orizzonte storico relativamente limitato può in certo modo giustificare una riduzione così semplicistica della problematica della vita spirituale. Ma la considerazione storiografica della religione e del mito, e soprattutto l’indagine delle civiltà magiche, pongono lo studioso a contatto con fenomeni spirituali che si rifiutano di lasciarsi coartare nella schematica quadripartizione crociana (cit. in Ginzburg 1988, p. 405).
Le anticipazioni del Mondo magico negli articoli che veniva pubblicando negli anni della guerra appaiono pregne della nuova passione metapsichica che ha preso l’autore. Il libro non ne era immune, ma brillava di una luce più intensa. Al fondo la magia e la sua storia (meglio la sua preistoria) apparivano quasi un pretesto. L’interesse demartiniano si concentrava su un tratto dell’umano la cui durata nel tempo era garantita dal carattere ineliminabile della morte nella vita degli uomini. Il pericolo che incombe su ciascuno richiede una risposta permanente: la magia appare una specifica risposta, storicamente determinata, alla crisi della presenza, al rischio di non essere più nel mondo. A tanto vaste premesse, veri prolegomeni filosofici, non corrispose mai l’annunciata e promessa storia del magismo, irrealizzabile nella versione maior, auspicata da Pettazzoni, poco attraente per l’autore nella versione minor, più limitata ma erudita e dotta, come l’avrebbe voluta Croce.
A più riprese, per un mese nel 1952 per la prima «spedizione lucana», nel 1953, tre volte nel 1954, e ancora per un mese nel 1956, lo storico delle religioni si fece etnografo e conobbe le gioie del lavoro di gruppo. Lo fece con la sua compagna, il cui forte impegno etico-sociale sarà poi disciplinato alla scuola di servizio sociale diretta a Roma da Maria Calogero. Lo fece con l’amico etnomusicologo Diego Carpitella (1924-1990) e con i fotografi – soprattutto Franco Pinna – che fermavano la vita nelle loro immagini svolgendo un ruolo importante nel neorealismo italiano (I viaggi nel Sud di Ernesto de Martino, 1999). La raccolta dei materiali è costantemente contrappuntata da pubblicazioni, sparse in una serie assai numerosa di sedi, per la parte più cospicua, connotate nel segno ideologico e politico (Pasquinelli 1977).
In «Società» si sentiva oggetto di costante esame di ortodossia marxista che era cosciente di non poter sostenere. Scelse così «Nuovi argomenti» per l’espressione delle posizioni più impegnative. Partito da Tricarico, in una dimensione amicale, a contatto con il poeta contadino Rocco Scotellaro, ancora suggestionato dal tono del romanzo di Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, depurò progressivamente il suo lavoro delle molte scorie della sostanziale improvvisazione sul terreno. Si costruì una cultura anche nel campo del folklore arrivando a parlare di «pensiero contadino» come altri ha parlato di «pensiero magico». Il suo rispetto per Antonio Gramsci si afferma per distinzione, rielaborando i suoi dati con prevalenza della volontà ermeneutica dinanzi al rigore filologico (Mondo popolare e magia in Lucania, 1975; Note di campo. Spedizione in Lucania 30 sett.-31 ott. 1952, 1995; L’opera a cui lavoro. Apparato critico e documentario alla “Spedizione in Lucania”, 1996). Il tratto che unifica per lui la rinnovata scoperta del mondo dei contadini del Sud è la preminenza in esso della tematica del dolore, dolore per i vivi – con la via di fuga della magia –, dolore per i morti, con la sola possibilità di una rielaborazione culturale, nella dimensione sociale del lamento rituale.
Tra tutte le esperienze di scrittura, quella dell’autobiografia risultò a de Martino la più adatta al depistaggio dei lettori e – nella proiezione verso il futuro – degli interpreti. Rara eccezione pare la pagina incipitaria di Morte e pianto rituale, che arriva a definire il filo – pur pieno di nodi – che congiunge il primo e il terzo libro dell’autore, attraverso il complicatissimo secondo:
In Naturalismo e Storicismo nella Etnologia fu da parte mia, non senza qualche tratto di giovanile baldanza e di scolastica ingenuità, formulato il programma di “continuare a pensare” – e quindi a svolgere – lo storicismo crociano sottoponendolo alla prova di mondi storici dalla cui diretta esperienza storiografica esso non era nato. Nel Mondo magico il proposito fu addotto in medias res compiendo il tentativo di interpretare storicisticamente la magia delle cosiddette civiltà primitive, e il risultato più apprezzabile della ricerca fu la scoperta della crisi della presenza come rischio di non esserci nel mondo.
Il filo di congiunzione non nasconde tuttavia la coscienza della novità e diversità che lo studio storico-culturale dell’elaborazione rituale del lutto introduce nella riflessione che gli sta più a cuore:
Il presente lavoro sul pianto rituale antico, pur procedendo sulla stessa linea di sviluppo, immette la ricerca in una direzione nuova, e non soltanto perché abbandona il terreno delle civiltà primitive e toglie ad oggetto di analisi storico-religiosa un determinato istituto del mondo antico, ma anche a motivo di alcune importanti correzioni e modifiche che sono state apportate alle tesi teoriche del Mondo magico.
La prima novità è il trasferimento sul terreno più limitato, e quindi controllabile, della ricostruzione culturale e storica a partire dal vasto repertorio offerto dalle società antiche, la greca innanzi tutto. La seconda è costituita da un abbozzo di comparazione etnografica, prodotto da una brevissima esperienza di contatto con studi di folklore in Romania. Il risultato non mira all’equilibrio, se pure non si accontenta dell’effetto: l’autore vuole convincere, innanzi tutto sé stesso, che questo libro, come tutto quel che ha fatto fino allora, può collocarsi nel dominio della storia delle religioni. Il libro sui morti, bizzarria del mondo, piacque ai vivi: de Martino vince il premio Viareggio e lo riceve, in una serata estiva, vestito a festa come i suoi contadini.
Il 1959 è l’anno dell’inizio di una nuova vita per il neoprofessore di storia delle religioni. Cagliari resta la meta di un pendolarismo faticoso. Ci sono colleghi di quella università che ricordano i viaggi per nave, la stanchezza. Nella sua casa romana, appena terminata la stagione delle lezioni, de Martino riunisce un gruppo di lavoro in cui sono presenti competenze nuove: di psichiatria, di psicologia, di sociologia, accanto a quelle già sperimentate in Lucania. La ‘spedizione in Salento’ si realizza in un tempo sorprendentemente breve, dal 21 giugno al 10 luglio. Concentrata, come era necessario, intorno alla celebrazione di vigilia e festa di San Paolo, il 28 e 29 giugno, nel cuore del Salento a Galatina, preceduta e seguita da un intenso lavoro di raccolta di dati, registrazioni, fotografie e interviste.
La pubblicazione recente dei materiali della spedizione permette innanzi tutto di apprezzare il modo, autorevole e quasi autoritario, scelto dallo storico-etnografo per commissionare i singoli contributi, controllare lo svolgimento del lavoro di raccolta e svolgere, infine, in condizione di reale isolamento, il proprio compito di storiografo e scrittore (E. de Martino, Etnografia del tarantismo pugliese. I Materiali della spedizione nel Salento del 1959, a cura di A. Signorelli, V. Panza, 2011).
Quello che ne ricava, il libro su La terra del rimorso, realizza con pienezza di riuscita quel che fino allora aveva tentato e, per ragioni varie e diverse, mai aveva raggiunto. Il suo è davvero, come recita il sottotitolo, un Contributo alla storia religiosa del Sud. Il primo sostantivo richiama l’esperienza dei severi studi dei tedeschi del 19° sec., quelli cari a Croce, su cui si appuntava l’ironia dei napoletani. Ma il volume costituisce anche un punto di partenza per il fatto che ingloba alcuni risultati assunti come definitivi. Tra tutti, il ruolo subalterno delle scienze sociali rispetto alla funzione, centrale e sovrana, dello storico. C’è anche un punto che emergerà subito come problema: lo studio psichiatrico mira a un esito necessariamente negativo. Se il tarantismo fosse una semplice malattia la sua storia religiosa, in quanto sociale, ne risulterebbe compromessa. La questione non è rimossa né risolta. De Martino pensa già a come proporla in una più vasta dimensione su cui non arriverà a poter concludere: la morte lo coglierà mentre ci pensa.
Nelle carte che accompagnano la preparazione del volume sul problema storico-religioso studiato nel Salento è possibile identificare con chiarezza le prime manifestazioni dell’interesse di de Martino per la nuova tematica, capace di far risorgere, davvero come un fiume sotterraneo, il cuore problematico del Mondo magico: il tema della crisi della presenza. Immerso nella dimensione di un problema universale, storicamente determinabile in situazioni etnologiche e in condizioni psicopatologiche, lo studioso, che pure continua a intervenire su temi allora attuali (Magia e civiltà, 1962), si concentra su una vastissima raccolta di materiali, immaginata, almeno inizialmente, in forma bipartita: le apocalissi culturali, i fenomeni avvertibili nella dimensione storica e sociale e, ben distinte, le apocalissi psicopatologiche, manifestazioni individuali, solo unificabili sul piano di un paradigma diagnostico. Mise progressivamente da parte i potenziali collaboratori, quelli considerati al proprio stesso livello, come il neuropsichiatra Bruno Callieri (1923-2012), serio conoscitore della antropologia filosofica esistenzialista, e quelli più giovani e già sperimentati sul terreno, come Giovanni Jervis (1933-2009). La raccolta dei materiali non disvela una forma e tanto meno una definitiva struttura. Anche i pensieri paiono semplicemente accumulati e raccolti. Quando furono pubblicati (La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini, 1977) in una forma poco felice, introdotti senza un effettivo approfondimento storico-culturale e con una ricostruzione biografica resa vana da vuoti e da errori, diedero luogo a un dibattito tutto negativo.
Oggi, dopo le recenti acquisizioni (E. de Martino, Scritti filosofici, a cura di R. Pastina, 2002), un tema si impone sopra gli altri: la ricerca di un senso nella nozione, complessa, ma contornabile, di ethos trascendentale del trascendimento come affermazione della risposta vitale al problema su cui de Martino concluse involontariamente, ma da cui con ferma determinazione aveva cominciato, la presenza dell’uomo, la sua coscienza e la sua volontà di essere nel mondo.
Naturalismo e storicismo nell’etnologia, Bari 1941, nuova ed. a cura di S. de Matteis, Lecce 19972.
Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Torino 1948, nuova ed. con introduzione di C. Cases, 19732, nuova introduzione di C. Cases, 19973.
Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento pagano al pianto di Maria, Torino 1958, 19752, nuova ed. con introduzione di C. Gallini, 20003.
Sud e magia, Milano 1959.
La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, Milano 1961, nuova ed. con prefazione di G. Galasso, 19762, nuova ed. con prefazione di C. Gallini, 20093.
Furore, simbolo, valore, Milano 1962, 19802, nuova ed. con introduzione di M. Massenzio, 20023.
Magia e civiltà, Milano 1962.
Mondo popolare e magia in Lucania, a cura e con introduzione di R. Brienza, Roma-Matera 1975.
La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini, Torino 1977, nuova ed. con introduzione di C. Gallini, M. Massenzio, Torino 20022.
C. Pavese, E. de Martino, La collana viola. Lettere 1945-1950, a cura di P. Angelini, Torino 1991.
Compagni e amici. Lettere di Ernesto de Martino e Pietro Secchia, a cura di R. Di Donato, Firenze 1993.
Scritti minori su religione marxismo e psicanalisi, a cura di R. Altamura, P. Ferretti, Roma 1993.
Note di campo. Spedizione in Lucania 30 sett.-31 ott. 1952, a cura di C. Gallini, Lecce 1995.
Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, a cura e con introduzione di M. Massenzio, Lecce 1995.
E. de Martino, R. Boccassino, Una vicinanza discreta: lettere, a cura di F. Pompeo, Roma 1996.
L’opera a cui lavoro. Apparato critico e documentario alla «Spedizione in Lucania», a cura di C. Gallini, Lecce 1996.
Scritti filosofici, a cura di R. Pastina, Bologna 2002.
Panorami e spedizioni. Le trasmissioni radiofoniche del 1953-54, a cura di L.M. Satriani, L. Bindi, Torino 2003.
Dal laboratorio del “Mondo magico”. Carteggi 1940-1943, a cura di P. Angelini, Lecce 2007.
Ricerca sui guaritori e la loro clientela, introduzione di C. Gallini, cura di A. Talamonti, Lecce 2008.
Etnografia del tarantismo pugliese. I Materiali della spedizione nel Salento del 1959, a cura di A. Signorelli, V. Panza, introduzione e commenti di A. Signorelli, Lecce 2011.
A. Momigliano, recensione a La terra del rimorso, «Rivista storica italiana», 1962, 74, pp. 165-67.
C. Cases, Un colloquio con Ernesto de Martino, «Quaderni piacentini», 1965, 23-24, pp. 4-10.
G. Galasso, Croce, Gramsci ed altri storici, Milano 1969, 19782, pp. 373-510.
C. Pasquinelli, Antropologia culturale e questione meridionale. Ernesto de Martino e il dibattito sul mondo popolare subalterno negli anni 1948-1955, Firenze 1977.
C. Ginzburg, Momigliano e de Martino, «Rivista storica italiana», 1988, 100, pp. 400-13.
La contraddizione felice? Ernesto de Martino e gli altri, a cura di R. Di Donato, Pisa 1990 (in partic. A. Momigliano, Per la storia delle religioni nell’Italia contemporanea: Antonio Banfi ed Ernesto de Martino tra storia e apocalissi, pp. 13-36).
G. Giarrizzo, Note su Ernesto de Martino (1908-1965), «Archivio di storia della cultura», 1995, 8, pp. 211-16.
«Il de Martino. Bollettino dell’Istituto Ernesto de Martino per la conoscenza critica e la presenza alternativa del mondo popolare e proletario», 1996, 5-6, nr. monografico: Tra furore e valore: Ernesto de Martino.
G. Galasso, La funzione storica del magismo. Problemi e orizzonti del primo de Martino, «Rivista storica italiana», 1997, 109, pp. 483-517.
Ernesto de Martino nella cultura europea, a cura di C. Gallini, M. Massenzio, Napoli 1997.
R. Di Donato, I Greci selvaggi. Antropologia storica di Ernesto de Martino, Roma 1999.
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G. Sasso, Ernesto de Martino fra religione e filosofia, Napoli 2001.
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Dell’Apocalisse. Antropologia e psicopatologia in Ernesto de Martino, a cura di B. Baldacconi, P. Di Lucchio, Napoli 2005.
Ernesto de Martino e la formazione del suo pensiero. Note di metodo, a cura di C. Gallini, Napoli 2005 (in partic. G. Charuty, Il poeta e lo studioso. Una corrispondenza giovanile, pp. 9-42).
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La vicenda intellettuale di Ernesto de Martino appare fortemente correlata con quella di numerosi interlocutori. Isolarne una parte presuppone una volontaria limitazione e l’assunzione, necessariamente critica, di una premessa. Gli studi storico-religiosi, in cui l’intellettuale napoletano decise di collocare l’intera propria opera intellettuale, avevano – prima di lui – una già sedimentata tradizione. Per propria particolare condizione storica, l’Italia nel passaggio tra il 19° e il 20° sec. faticò a isolare lo specifico delle religioni al di fuori della dimensione confessionale cui lo condannava la tradizione culturale del Paese. Lo Stato unitario non ebbe la forza di assumere un ruolo formativo anche in questo ambito. Diversamente dalla contemporanea Francia della terza Repubblica non si diede luoghi laici di studio della scienza delle religioni. Per arbitrario che appaia allora, volendo costruire un terreno di fondo sul quale collocare l’opera demartiniana, si possono indicare tre figure, ineguali tra loro per valore, influenza e capacità di restare nel tempo e pure accomunate dall’identificazione della religione come comune oggetto di interesse e di studio: Uberto Pestalozza (Milano 1872-ivi 1966), Raffaele Pettazzoni (S. Giovanni in Persiceto 1883-Roma 1959) e Alberto Pincherle (Milano 1894-Roma 1979).
Tra loro diversissimi, interagirono nel tempo che li accomunò. Ebbero tutti, nelle diverse sedi universitarie ove studiarono, una formazione antichistica, filologica, storica, e in due dei casi almeno, anche archeologica, assai più profonda di quella che de Martino poté ricavare dai suoi studi napoletani. Ciascuno ne trasferì in modo differenziato gli esiti nel proprio lavoro di ricerca e di insegnamento. Il primo, nell’ordine anagrafico, Pestalozza si concentrò sulla ricerca di un sostrato mediterraneo nelle religioni dei Greci e dei Romani. Influenzò, nel suo lungo magistero milanese, l’opera di scolari e anche di colleghi tra cui spicca, per importanza dell’impatto intellettuale, Mario Untersteiner. Non si può parlare di una sua importanza per de Martino. Del pari può dirsi di Pincherle. Storico del cristianesimo di solido impianto filologico, legato al suo maestro, il modernista Ernesto Buonaiuti, esule dall’Italia in ragione delle leggi razziali, fu estraneo all’universo demartiniano. Ben più lungo discorso è necessario per il rapporto, problematico ma stretto e intenso, che legò de Martino con Pettazzoni, dal loro primo contatto epistolare, nel dicembre del 1933, per la pubblicazione della tesi di laurea del più giovane, fino alla morte di Pettazzoni, di poco successiva alla conclusione del concorso che il grande persicetano interpretò come trasmissione del testimone degli studi storico-religiosi alla generazione successiva. Con la sua rivista «Studi e materiali di storia delle religioni», le collane che fondò e diresse, gli studi innumerevoli che realizzò e – forse soprattutto – con la fondazione della scuola romana di studi storico religiosi, Pettazzoni fu fondamentale per de Martino e resta importante per noi tutti. Lo straordinario lavoro biografico, condotto per decenni da Mario Gandini nei quaderni della sua «Strada maestra» presso la Biblioteca comunale di S. Giovanni in Persiceto appare oggi premessa alla pubblicazione del carteggio tra i due, che renderà più chiara la rilevanza del loro dialogo per la cultura italiana.