Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, il “Che” esercita un fascino di lunga durata presso le giovani generazioni europee (e non solo), entrando a far parte del loro immaginario collettivo anche in chiave meramente consumistica. Negli anni della contestazione il prestigio del personaggio è legato all’essere stato ucciso non ancora quarantenne, alla coerenza, all’assenza di atteggiamenti ambivalenti o di calcoli politici, all’indifferenza con cui abbandona onori e glorie, alla caparbietà nel rifiutare privilegi, all’antimperialismo e all’internazionalismo e, non ultimo, all’iconografia, di cui la famosa fotografia scattata da Korda, in cui appare con lo sguardo rivolto al futuro, ne rappresenta l’emblema.
La nascita di un’icona
Ernesto Guevara
Diario in Bolivia - 8 agosto 1967
Dopo cena ho riunito tutti tenendo loro il seguente fervorino: siamo in una situazione difficile; Pacho sta guarendo bene, ma io sono un rudere umano e l’episodio della cavalla dimostra che in alcuni momenti sono arrivato a perdere l’autocontrollo: questo non succederà più, ma il peso della situazione deve essere distribuito in maniera uguale su tutti e chi non si sente capace di sopportarlo deve dirlo. Questo è uno di quei momenti nei quali si devono prendere grandi decisioni: un tale genere di lotta ci dà l’occasione di trasformarci in rivoluzionari, il più alto gradino a cui può giungere l’uomo, ma anche di diventare uomini nel senso più completo della parola: coloro che non riescono a raggiungere nessuno di questi livelli devono dirlo e lasciare la lotta. Tutti i cubani e alcuni boliviani hanno dichiarato che avrebbero continuato fino in fondo.
E. Guevara, Diario in Bolivia, Milano, Feltrinelli, 1996
Nato nel 1928 a Rosario, in Argentina, laureatosi in medicina nel 1953, irrequieto e profondamente curioso sul piano intellettuale, durante la sua gioventù Ernesto Guevara percorre in lungo e in largo l’America Latina per diventare infine un personaggio di spicco dell’esercito guerrigliero a Cuba, fare la rivoluzione, rivestire cariche di governo importanti, lasciare tutto per suscitare altrove la rivolta armata e venire ucciso in Bolivia nel 1967. Esempio unico di coerenza rivoluzionaria, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta ha esercitato un profondo fascino tra i giovani europei (come peraltro di ogni altra area del mondo) e la sua icona ha finito per assumere un’universalità e una pervasività che, proprio per l’aver sfidato così brillantemente il trascorrere del tempo e le contingenze storiche e fatto breccia in culture tanto diverse, si può ritenere un evento assolutamente straordinario.
Inizialmente identificato con la rivoluzione cubana, il “Che” ha esercitato un fascino che si è progressivamente svincolato dai presupposti ideologici per rappresentare il riferimento romantico di una determinata generazione, come ha affermato Manuel Vázquez Montalbán , e per impersonarne i valori: coraggio, generosità, rifiuto del compromesso, anticonformismo, impegno personale, coerenza, rabbia, utopia, volontà di cambiare il mondo. La sua figura è entrata così nell’immaginario collettivo sotto forma di poster, felpe, magliette, sciarpe, bandane, orologi, portachiavi, tatuaggi, striscioni, bandiere (non c’è manifestazione in cui esse non compaiano numerose) e persino simboli del tifo sportivo, soprattutto calcistico. Se negli ultimi decenni la mercificazione ha in qualche modo offuscato le ragioni ideali, il mito non si è affievolito, il che è attribuibile, perlomeno sino alla fine degli anni Settanta, al suo rappresentare le pulsioni, l’eticità e l’ansia di trasformazione di quel periodo, tanto che, probabilmente, esso avrebbe avuto un impatto minore in un contesto storico diverso.
Guevara non ha personalmente grandi contatti con l’Europa occidentale, se si eccettuano brevissime soste – a volte un semplice scalo aeroportuale – a Madrid, Roma, Ginevra e Parigi tra il 1959 e il 1964, ma è lì che la sua figura, che comincia a venire esaltata praticamente in corrispondenza con la morte, assume una chiara dimensione epica e didattica. In un Sessantotto esploso con grande fragore di idealismo e di volontarismo, la nobiltà dei moventi e dei comportamenti del “Che” gli valgono non solo l’ammirazione unanime del movimento di contestazione, ma anche il rispetto di una fascia ben più ampia di opinione pubblica, comprese frange della destra. Ma certo è nella generazione che sogna di mettere in crisi il sistema che Guevara, proprio per il fatto di incarnare più di ogni altro il pensiero ribelle, trova il massimo ascolto. Né è casuale che uno degli striscioni del maggio parigino sia “sotto il pavé la spiaggia e sopra la spiaggia il Che, sole della rivoluzione”.
Visto con una certa perplessità dai partiti comunisti europei per la sua eterodossia e per l’eccesso di volontarismo, considerato uno “stratega da farmacia” – la definizione è di Giorgio Amendola – o, più benevolmente, un bravo combattente ma poco versato per la politica, viene invece esaltato dai giovani, che ne sposano le posizioni radicali – il rivoluzionario argentino è visto come il rappresentante dell’ideale giacobino, per usare un’espressione di György Lukács – ma che sono anche attratti dal suo ammantare il marxismo di una forte componente etica e dallo stemperarne le rigidità grazie a un temperamento antidottrinale e a un umanesimo più pragmatico che teorico, che trova comunque appigli negli scritti giovanili di Marx. E certamente i ragazzi che invadono le piazze europee recepiscono con entusiasmo le sue denunce degli sprechi, delle furberie, della burocratizzazione, dell’approssimazione, in nome di una eticità a tutto tondo, che lo spinge ad affermare che il socialismo economico non lo interessa se è separato dalla morale comunista.
La componente etica è il perno dell’agire di Guevara e una delle elaborazioni teoriche che maggiormente incanta gli europei è quella relativa alla necessità di forgiare l’uomo nuovo che, da una parte, cesserà di essere merce grazie alla soppressione del lavoro alienato e, dall’altra, in virtù dell’innalzamento del livello di coscienza, diventerà disinteressato e solidale, riacquisendo la propria dignità e conquistando una libertà non individuale ma collettiva. Nel 1968 ci sono molti echi di questo ideale di uomo nuovo, pronto a donare se stesso a favore della collettività e opportunamente indotto a questi comportamenti dall’istruzione, dall’esempio, dalla mobilitazione, perché ciò significa credere nella perfettibilità dell’essere umano, nella sua capacità di diventare popolo pur rimanendo individuo, nella possibilità di saldare la politica a un’eticità superiore.
Un comunismo senza partito
Sempre in quel periodo, Guevara viene visto come mentore di un movimentismo che proprio allora si sforza di superare gli schemi rigidamente organizzativi del passato e punta su un comunismo senza partito. In quest’ottica, le teorizzazioni sulla guerriglia (in Italia il volumetto La guerra per bande compare già nel 1961) fanno ampia breccia tra i giovani di sinistra, che esaltano la teoria guevariana del focolaio guerrigliero come centro propulsore del processo rivoluzionario, anche senza dover aspettare che maturino le condizioni oggettive per innescare tale processo e senza la necessità di una partecipazione di massa.
Soprattutto sul piano dell’eticità vengono poi valutati e accolti gli attacchi portati dal “Che” al mondo socialista, in particolare all’Unione Sovietica, totalmente condivisi dai giovani politicamente impegnati in Francia, Italia, Germania, Olanda e altrove, in particolare quelli che si appuntano sulla filosofia degli scambi commerciali dei Paesi dell’Est con quelli del Terzo Mondo sorti dalle lotte di liberazione, scambi che ripropongono, secondo Guevara, l’avida meschinità capitalista, che spinge i primi a vendere a prezzi di mercato beni di cui i secondi hanno disperatamente bisogno. Altrettanto convincenti risultano, in quel periodo, le critiche all’elefantiasi e farraginosità del sistema sovietico, alla sua inefficienza e alle riforme economiche in vigore sin dall’inizio degli anni Sessanta, che sembrano reintrodurre la logica di mercato, facendo rientrare dalla finestra ciò che era stato scacciato dalla porta.
Una forte attrazione esercitano naturalmente l’antimperialismo e l’internazionalismo del “Che”. Il primo valore è fondamentale in un momento in cui gli Stati Uniti sono impegnati nella guerra nel Sud-Est asiatico e diventano il bersaglio di imponenti manifestazioni di protesta. La parola d’ordine coniata da Guevara – “creare due, tre, molti Vietnam” – diviene una delle più diffuse nelle mobilitazioni europee, a testimonianza della condivisione di una strategia che punta a impegnare Washington su molti fronti per indebolirla su tutti. L’internazionalismo rappresenta invece, ancora una volta, un valore etico e solidaristico nonché l’esatto contrario di quella globalizzazione che finirà per dominare in seguito il sistema mondiale. Il fatto di essersi sempre battuto in Paesi e per Paesi diversi da quello di nascita gli ha conferito un’aureola di romanticismo ottocentesco.
La figura del “Che” domina, in sostanza, il panorama della sinistra europea per quasi un quindicennio (in Italia i primi centri a lui intitolati cominceranno a sorgere nel 1967), ma se in quell’arco di tempo la sua fortuna si inquadra perfettamente in un preciso contesto storico, anche successivamente e pur perdendo parzialmente le connotazioni ideologiche essa riuscirà a stimolare l’immaginario collettivo, specie quello giovanile, con ampie sollecitazioni. In questa fascia di età il mito si è in realtà nutrito di vari elementi, il cui vigore non è sembrato scemare nel corso del tempo, primo fra tutti quello di essere morto ancor prima di compiere quarant’anni. Non c’è poi dubbio che le generazioni uscite da poco dall’adolescenza o ancora immerse in essa rimangano colpite dalla sua coerenza, dal suo dedicare la vita all’umanità, dal suo essere rivoluzionario come atto d’amore e di altruismo, dalla sua idiosincrasia per ogni calcolo politico, dalla difesa dei propri ideali sino all’estremo sacrificio.
Così, queste generazioni hanno continuato ad apprezzare e ad ammirare l’indifferenza con cui il “Che” abbandona onori e glorie, il suo rifiuto di piegarsi alla ragion di Stato e di ottenere un qualsiasi privilegio, non solo nell’esercizio delle funzioni politiche e di governo – e sta a dimostrarlo l’esiguità dello stipendio percepito in qualità di ministro – ma anche nel corso della lotta armata e nella vita alla macchia. Pervaso da freddo rigore e incapace di compromessi, dà un’immagine di estrema rigidità nell’imporre la disciplina, ma applica tale regola prima di tutti a se stesso e divide da pari a pari con i compagni le dure privazioni imposte dalla guerriglia. Malgrado la mancanza di flessibilità in questo campo, di lui rimane impressa, in maniera se si vuole epidermica, una grande generosità e si tende a far proprio il giudizio di alcuni che giunsero a conoscerlo da vicino, come ad esempio Ben Bella che lo descrive come un contenitore di umanità, una persona capace – ed è lo stesso Guevara a sostenerlo – di essere dura senza mai perdere la tenerezza.
Un ultimo elemento del mito va ricercato nell’iconografia, nella facilità di riprodurre la sua immagine con pochi tratti di penna, ma soprattutto in quel suo volto perennemente sorridente o, come nella celeberrima fotografia scattata da Alberto Korda – poi regalata a Feltrinelli, che la porta in Italia nel 1967 per trasformarla nella copertina del suo Diario in Bolivia e che invade tutto il mondo dopo l’assassinio del “Che” – con lo sguardo pieno di speranza rivolto all’avvenire, oppure ancora, da morto, quella istantanea a Higuera dove richiama, come è stato più volte sottolineato, il Cristo morto del Mantegna.