RAGAZZONI, Ernesto
RAGAZZONI, Ernesto. – Primo di cinque figli – gli altri erano Vittorio, Edvige, Carlo e Pietro –, nacque a Orta Novarese in una famiglia agiata l’8 gennaio 1870 da Giovanni, maggiore di fanteria e amministratore di alcune terre nel Novarese, e da Catterina Borrini-Gippini.
Nel 1883 entrò per volere paterno all’istituto tecnico Ottaviano Fabrizio Mossotti di Novara, dove si diplomò nel 1887. In questi anni maturò il suo interesse per la letteratura, soprattutto inglese e americana, cui si sarebbe avvicinato studiandone la lingua da autodidatta. Allo stesso modo imparò successivamente il francese, il tedesco e lo spagnolo.
Pubblicò i primi racconti e le prime poesie sul Cittadino novarese nel 1891. Un suo «Prologo di un dramma da scriversi poi», Byvar, in versi, apparve in Scintille di ceppo. Strenna natalizia della Concordia nello stesso anno. Nel medesimo fascicolo apparve anche il suo Memorie inedite del primo naso di Falasagna, adattamento del racconto di Edgar Allan Poe Lionizing. Sempre nel 1891 uscì a Novara la sua unica raccolta poetica, Ombra, composta di 29 liriche, fra cui versioni da Byron (La visione di Baldassare, La distruzione di Sennacherib), Bürger (Leonora), Hugo (La fanciulla d’Othaiti, Religio), Poe (Il castello incantato), Goethe (Canto di Mignon), e che risentiva delle letture compiute in quegli anni (i romantici italiani ed europei, la poesia scapigliata, Carducci e Pascoli).
Dopo un breve impiego presso la Banca popolare di Novara, nel 1892 pubblicò a puntate il romanzo L’ultima dea su Il novelliere del popolo; pubblicazione poi interrotta per volere dell’editore alla diciassettesima dispensa.
Sorta di parodia della narrativa d’appendice, il romanzo testimonia di interessi occultistico-teosofici (desunti dalle letture di Stanislas de Guaita, Eliphas Lévi e Helena Blavatsky), di cui è depositario il protagonista, un conte che vive in un castello sugli Appennini insieme a una giovane discepola.
Nel 1893 fu a Torino, dove lavorò come bigliettaio e distributore di bollette di spedizione presso la stazione di Porta Nuova. Si recava spesso al caffè Molinari in piazza Solferino e alla trattoria Il Crematoio, frequentata anche da Guido Gozzano. La vita sregolata e l’aspetto trasandato gli valsero l’etichetta di bohémien presso gli amici. Collaborò con i giornali Farfalla e con la Gazzetta letteraria, in cui apparvero i versi di Madrigale bianco (30 giugno 1894), Ascensione (22 settembre 1894) e l’articolo Percy Bysshe Shelley (6 ottobre 1894). Il 5 aprile 1895 tenne una conferenza sulla coeva lirica europea (La poesia degli ultimi giorni) presso la Società filotecnica di Torino.
Assiduo studioso di Poe (su cui aveva tenuto una lecture all’Istituto superiore femminile Bertola l’11 febbraio 1895), ne tradusse altri testi in un volume curato con Federico Garrone (Torino 1896) per i tipi Roux Frassati e Co. Il libro, che intendeva rendere noto il versante non narrativo e meno conosciuto dell’opera dello scrittore, conteneva le «versioni ritmiche» delle liriche Frances Sargent Osgood, Ulalume, The Raven, To Helen, Dream-Land, The Bells, la traduzione del saggio The philosophy of composition e del racconto A tale of Jerusalem.
Già collaboratore della Stampa e celebrato sulle pagine del quotidiano per le sue fatiche di traduttore e conferenziere, vi pubblicò un primo importante articolo, intitolato Sar Péladan e il suo prossimo volume, il 12 novembre 1896, cui fece seguito L’arte della bugia il 30 giugno dell’anno successivo.
Tenne una conferenza su La magia e le arti magiche, il 7 febbraio 1897 presso il Circolo filologico, e una su Ramón de Campoamor, il 18 febbraio presso l’Istituto Diodata Saluzzo. Il 21 aprile lesse alcune sue poesie alla Società filotecnica.
Nel 1898-99 collaborò con la rivista torinese Germinal. Su La Stampa del 9 giugno 1898 mise in luce (nell’articolo L’anima moderna) le «dissonanze» della sua epoca e l’anima «febbricitante» dell’uomo fin de siècle che, nelle parole di Ragazzoni, aveva assorbito i caratteri di una macchina a vapore, giacché la sua esistenza si era fatta artificiale e contraffatta dalla diffusione di troppa tecnica che aveva ucciso l’«ideale». Lo scetticismo e il materialismo che vedeva diffondersi nella sua epoca lo spinsero ad auspicare l’affermarsi di un nuovo genio artistico in Il Messia venturo del 22 luglio 1898.
Sposatosi il 16 aprile 1899 con la giornalista cilena Felicita Rey, pubblicò tre densi saggi monografici: Robert Luis Stevenson (in Emporium, V (1899), vol. 9, n. 52, pp. 278-300), Sar Péladan (ibid., vol. 10, n. 58, pp. 255-281) e Jerome Klapka Jerome (ibid., VI (1900), vol. 12, n. 71, pp. 353-363). Compose anche poesie intonate a un diffuso socialismo (8 maggio e I ribelli), dopo i moti del 1898, per Il lavoratore e Il Cavallotti del 15 febbraio 1900.
L’anno successivo divenne direttore della Gazzetta di Novara ed espresse, sul numero del 12-13 gennaio 1901, la propria idea sull’ineluttabilità del conflitto di classe, ma anche sull’inattuabilità della dottrina socialista. La riproduzione sul numero del 6-7 febbraio di una prosa dal titolo Il paese della muffa, in cui il mondo impiegatizio novarese, affetto da mediocrità e burocrazia, assurgeva a metafora dell’Italia, gli costò il licenziamento dal giornale, di impostazione reazionaria e filomonarchica, e il ritorno alla Stampa. L’articolo era già documento di quella vena satirica e beffarda che distinse le liriche composte in seguito, inclini alla boutade leggera, al gioco di parole, alla musicalità e alla rima facile.
Dal 1902 lavorò come corrispondente per La Stampa da Parigi. Trascorse l’estate in Svizzera, da dove inviò la descrizione impressionistica di Istantanee svizzere (3 agosto). Nello stesso anno uscì la sua traduzione di Plant life di Grant Allen (La vita delle piante, Torino 1902).
Sul quindicinale la donna del 20 aprile 1905 vide la luce un suo articolo sui gatti (I nostri piccoli amici di velluto), mentre sul numero del 5 settembre la poesia L’inno di riscossa per i poveri cani proletari, ironica trasposizione al mondo degli animali delle simpatie socialiste degli anni precedenti. La sua traduzione di The brotherhood of the seven kings di L.T. Meade e Robert Eustace fu edita a puntate su La Stampa con il titolo I sette re nel 1906. Nello stesso anno, il 12 novembre, il quotidiano riportò un suo articolo su Annie Vivanti.
Tenne una conferenza su Poe all’Università popolare (3 febbraio 1906) e un ciclo di lezioni shakespeariane al Circolo filologico di Torino (19 marzo-13 aprile 1907). Uscito illeso da un incidente automobilistico nei pressi di Vercelli il 26 giugno 1907, presentò il preraffaellismo in una serie di lezioni (Pennelli e ritmi), tenute sempre al Circolo filologico, a partire dal 17 novembre.
Da Parigi scrisse ancora per La Stampa del rinvenimento del Bollettino della polizia napoleonica (La Polizia secreta del Primo Impero, 5 dicembre 1907), di esposizioni pittoriche (Tra l’arte delle ombre e quella delle illusioni, 23 gennaio 1908), di cronaca nera (Il figlio del presidente Fallières accusato d’aver assassinato il marito della sua amante?, 23 dicembre 1908) e politica (La riforma elettorale in Francia, 24 agosto 1909). Lavorò alla traduzione di The Yoke di Hubert Wales, edito con il titolo Il giogo (Roma 1909). Sempre per La Stampa scrisse su Gérard de Nerval (Dal regno delle ombre alla piazza, 18 gennaio 1910), sulla rappresentazione del Candidat di Gustave Flaubert a teatro (14 maggio 1910), e La veglia di Cherasco, racconto storico facente riferimento, come recitava il sottotitolo, a scene e figure della prima conquista napoleonica (31 luglio e 9 agosto 1910).
A Parigi approfondì la conoscenza della poesia francese, forse attraverso l’antologia Poètes d’aujourd’hui (1880-1900), curata da Adrian Van Bever e Paul Léautaud, e conobbe Georges Fourest, alla Négresse blonde del quale si sarebbe ispirato per alcuni suoi testi.
Corrispondente da Londra alla fine del 1910, ancora per La Stampa, scrisse diversi articoli, fra cui Verso il paese delle fantasime e del romanzo e Una visita a Walter Scott (19 e 29 luglio 1911). In Inghilterra proseguì da autodidatta lo studio del cinese, intrapreso a Torino. Fu di nuovo corrispondente da Parigi fra il 1912 e il 1918, redigendo per lo più articoli di guerra, con una parentesi a Tripoli nel 1913.
Nel 1914 pubblicò cinque componimenti sul settimanale umoristico Numero: Ballata, Le malinconie e il lamento del povero bigliardo che non vuole più essere verde, Laude dei pacifici lapponi e dell’olio di merluzzo, Poesia nostalgica delle locomotive che vogliono andare al pascolo e Il madrigale della neve calda e del caffè bianco. La Ballata, in particolare, aggiornava il tema crepuscolare dell’incapacità di fare poesia contrapponendo a quest’ultima l’abilità nel «fare buchi nella sabbia». Deliberò tuttavia di interrompere la collaborazione con la rivista per i toni nazionalistici che questa aveva assunto.
Su La Stampa del 28 dicembre 1915 apparve l’articolo Le parole che ridono, personale filosofia della freddura da ricercarsi nella scomposizione di una parola nelle sue parti costitutive e nel bisticcio semantico che un termine è in grado di ingenerare. Il 21 gennaio 1916 declamò alcune sue poesie, fra cui Il teorema di Pitagora ed Elegia del verme solitario, al teatro Vittoria di Torino, mentre il 7 maggio scrisse per La Stampa un articolo su Joseph Conrad (Storie di mari lontani). Passato a Bologna nel 1918, alla redazione del Resto del Carlino, fu l’anno successivo a Roma, dove lavorò al Tempo, diretto da Filippo Naldi.
Fra gli articoli qui riprodotti anche il noto Le mie invisibilissime pagine (21 giugno 1919), in cui dichiarò, cedendo all’ennesimo gusto per la boutade irriverente, che il lavoro dei lavori è «non scrivere» e le opere letterarie migliori sono quelle non ancora composte – invisibili appunto – sulla scia di una filosofia estetica dell’ideale che è sempre superiore alla realtà. Per Il Tempo redasse anche articoli letterari, descrivendo, per esempio, l’incontro con lo scrittore inglese Oscar Browning (13 gennaio 1919). Qui apparve inoltre la serie dal titolo Romaneggiando, collana di reportage dedicati a Roma, alle località limitrofe e anche alla poesia romanesca (la recensione a Er quaderno de la guera di Lello Moriconi, 16 maggio 1919).
Ammalatosi di cirrosi epatica, fece ritorno a Orta Novarese, descrivendo le impressioni del rientro nell’articolo Il mio vecchio lago (Vedute in tempo elettorale) sul Tempo del 29 novembre 1919. Fu probabilmente nello stesso periodo che compose le otto sestine di L’apoteosi dei culi d’Orta, che prendeva spunto dalla costruzione, qualche anno prima, di un vespasiano di lamiera nei pressi del lago del paese.
Morì il 5 gennaio 1920 nella sua abitazione di Torino e fu sepolto a Piossasco.
Coerente con l’atteggiamento irrisorio dei suoi componimenti maggiori, chiese nelle ultime volontà che i partecipanti al suo funerale mangiassero assieme all’osteria. Oltre alla Gazzetta di Novara, diede notizia della sua morte Il Tempo, che lo ricordò come un singolare fanciullo in chiome grigie e senza orologio.
Postume apparvero le poesie De Africa e la monorima Ciclone in Toscana, improvvisata qualche tempo prima (rispett. in Il Tempo, 6 gennaio 1920 e 29 gennaio 1921).
Non seppe mai di una figlia, Margherita, nata da una relazione extraconiugale.
Fonti e Bibl.: A. Biancotti, Ai tempi di “Addio giovinezza”…, Milano 1954; A. Cajumi, Prefazione a E. Ragazzoni, Poesie, Milano 1956, pp. IX-XXIV; A. Viviani, Ombre del mio tempo, Milano 1960, pp. 80-84; E. Ragazzoni, Le mie invisibilissime pagine, a cura di A. Bujatti, Palermo 1993; R. Martinoni, Introduzione e Biografia, in E. Ragazzoni, Buchi nella sabbia…, Torino 2000, pp. XIX-LI; Parole che ridono. A proposito di E. R.: con un appendice di scritti inediti…, a cura di C. Bermani, Roma 2004.