ERODOTO (Ηεόδοτος, Herõdotus)
Storico greco del V secolo a. C. Nacque in Alicarnasso, fra il 490 e il 480 a. C. di ragguardevole famiglia, imparentata col poeta Paniaside. Giovanissimo, forse anche fanciullo, andò in esilio col padre, cacciato, come pare, dai tiranni, che dominavano nella città. Visse esule in Samo, dove peraltro non imparò il dialetto ionico, come pretende la tradizione, perché quel dialetto era comunemente usato nella sua patria Alicarnasso, sebbene essa facesse parte dell'esapoli dorica. Tornò in patria coi fuorusciti quando cadde la tirannide ed ebbe forse parte nella sua caduta, sebbene non sia molto degna di fede la tradizione che ne considera lui come autore. Da Alicarnasso E. venne poi in Atene, che era allora il centro di quell'impero marittimo, di cui Alicarnasso faceva parte. Ivi entrò probabilmente in relazione con Pericle, certo strinse amicizia con Sofocle. Quando Atene per impulso di Pericle fondò nell'Occidente la colonia panellenica di Turii, E. prese parte alla sua fondazione (446 o 444). Non rimase però a lunge in Turii, forse anche per effetto del sopravvento che vi prese il partito avverso ad Atene. Tornò dunque ad Atene, e di lì imprese, forse intorno al 440, i suoi grandi viaggi nell'impero persiano. Non sappiamo di sicuro se tornasse allora in Occidente; certo tornò in Atene, dove viveva nei primi anni della guerra del Peloponneso, come mostrano varie notizie sparse nelle sue storie. Morì probabilmente durante la guerra archidamica (431-421); la sua tomba si mostrava più tardi nell'agorà di Turii, ove forse egli tornò ancora sul finire della sua vita.
I viaggi di E. - E., come risulta dalle sue storie (ne tacciono invece gli antichi biografi), fece molti viaggi. Fu, come vedemmo, a Samo, percorse le coste dell'Asia Minore, visitò Sardi, navigò nel Mar Nero, ove certo si fermò in Olbia, alle foci del Boristene (Dnepr); viaggiò in Tracia, in Macedonia, nella penisola greca, nelle colonie greche di Sicilia e d'Italia; fu a Cirene, in Egitto, ove giunse a sud sino ad Elefantina, a Tiro, a Babilonia. Descrive Ecbatana, ma non pare vi sia stato: e probabilmente non fu neppure a Susa. Il viaggio di Samo spetta alla sua giovinezza; alla prima parte della sua vita possono anche spettare i viaggi nel Ponto, in Tracia, in Macedonia. Con la colonizzazione di Turii, si collegano i suoi viaggi nell'Occidente. Il viaggio in Cirenaica si può indifferentemente collocare in qualsiasi momento della vita di E. Ciò che più importa è la cronologia, molto discussa, dei suoi viaggi nell'impero persiano. Come amico fedele di Atene e suddito d'una città alleata agli Ateniesi, non pare che egli abbia potuto viaggiare nell'impero persiano se non dopo la pace fra Atene e la Persia, che fu conclusa circa il 448. E poiché pochi anni dopo egli partecipò alla colonizzazione di Turii, pare verosimile che il suo viaggio in Egitto e nel rimanente dell'impero non sia anteriore al 440 circa.
Questi viaggi hanno dato luogo alla controversia sulla cosiddetta "autopsia" di E. Deve cioè ritenersi che egli abbia visto realmente i paesi che descrive o che desuma le sue informazioni da viaggiatori che lo hanno preceduto? L'immediatezza della rappresentazione e l'impressione della sua veridicità che prova ogni lettore non prevenuto, fanno tenere per fermo che sia ipercritica negare l'autopsia di E. Pare soltanto indubitato, ed era già stato avvertito dagli antichi, che egli ha completato e precisato i suoi appunti e ricordi di viaggio con notizie desunte da fonti scritte e che di regola non ha distinto nella sua esposizione il proprio dall'altrui, al segno da dare qualche volta l'impressione che voglia far passare per desunto da proprie informazioni dirette quello che trascrive letteralmente dalle sue fonti e in particolare da Ecateo, il cui influsso è soprattutto notevole nella parte concernente l'Egitto e là dove parla di Babilonia.
Le letture di E. - Secondo varie testimonianze antiche E. avrebbe fatto argomento di pubbliche letture le sue storie: così si parla di letture ad Atene e in Olimpia e si narra che il cattivo successo delle sue letture a Corinto lo indusse a invenzioni odiose per i Corinzî e che dall'essergli state vietate pubbliche letture a Tebe derivò il suo odio per i Tebani. Tutte queste notizie sono nei particolari poco degne di fede; quelle su Tebe e Corinto sono invenzioni destinate a spiegare l'avversione a queste due città che si rispecchia nelle storie di E. La quale si spiega invece a sufficienza col suo soggiorno ad Atene e con la sua amicizia per gli Ateniesi e i sentimenti che dominavano in Atene verso Corinto e verso Tebe, circa il principio della guerra del Peloponneso. Tuttavia è difficile dubitare di queste letture pubbliche, sia perché esse dovevano essere allora in uso, tanto che Tucidide contrappone la sua opera, "possesso perpetuo" dell'umanità, ad altre dirette ad acquistare il favore degli ascoltatori nell'ora presente, sia perché non sembrano mancare tracce di conoscenza dell'opera di Erodoto in drammi sofoclei che paiono anteriori alla pubblicazione di essa: ciò che le pubbliche letture spiegherebbero assai bene. Si collega con queste notizie quella intorno a un compenso di dieci talenti dati dagli Ateniesi a E., su proposta di Anito. La notizia, sebbene dovuta allo storico Diillo, non sappiamo quanto meriti fede; dà luogo a sospetti l'altezza della somma e il nome del proponente, il noto accusatore di Socrate, della cui attività pubblica non abbiamo tracce anteriormente al 409. Anche la motivazione del compenso con la lettura delle storie fatta da E. alla bulè pare estremamente incerta.
La storia di E. - L'opera storica di E. ci è pervenuta divisa in 9 libri. Questa divisione, nota già a Diodoro, è tarda e artificiale e proviene non dall'autore ma dai grammatici alessandrini. Anche più tarda è la denominazione dei libri col nome delle nove Muse, la cui prima testimonianza è per noi in Luciano. E. dopo il proemio, in cui accenna alle origini mitiche della lotta tra Asia ed Europa, tra Greci e Barbari, dice di voler far cenno del principe asiatico che primo assalì ingiustamente gli Elleni. Questo principe è Creso; ciò dà luogo a una digressione sulla storia dei Lidî: dopo di che E. torna a Creso per narrare la sottomissione della Lidia ai Persiani per opera di Ciro. A questo punto E. prende a narrare come i Medi e i Persiani cominciarono ad acquistare il dominio dell'Asia e poi torna a Ciro e riferisce come, soggiogata la Lidia, i Persiani compirono l'assoggettamento dell'Asia Minore e poi quello dell'Asia Superiore, con digressioni su Babilonia e sui Massageti, fino alla morte di Ciro (libro I). A Ciro succedette Cambise, il quale mosse all'assalto dell'Egitto. Qui E. descrive l'Egitto e i costumi degli Egiziani e ne narra la storia fino ad Amasi (libro II). Cambise sottomette l'Egitto. Si narrano le altre sue imprese e particolarmente la spedizione contro gli Etiopi. Sono inserite varie digressioni sui fatti di Grecia durante il regno di Cambise. Smerdi si ribella; si narra la morte di Cambise, il regno di Smerdi, la congiura dei Sette, la salita al trono di Dario, l'ordinamento da lui dato all'impero e il suo regno fino alla spedizione scitica non compresa (libro III). Si racconta poi la spedizione scitica di Dario, con ampia digressione sugli Sciti e popoli vicini, e quella del satrapo Ariande contro Cirene, con digressioni sulla storia di Cirene e della Libia (libro IV). E. continua quindi la narrazione delle imprese dei Persiani in Tracia e nella parte settentrionale dell'Egeo, con digressione sulla Tracia. Segue la ribellione degli Ionî, i quali si rivolgono per aiuto a Sparta e ad Atene. Ciò dà luogo a importanti digressioni sulla storia di queste città, che si collegano con le digressioni dei libri precedenti, in modo da farcene conoscere sostanzialmente le vicende dalla metà del sec. VI. Si riprende il racconto della ribellione ionica e si conduce fino alla morte di Aristagora (libro V). I Persiani sottomettono la Ionia; si narrano le loro imprese successive contro la Grecia fino alla battaglia di Maratona e se ne riferiscono gli effetti (libro VI). Morto Dario, gli succede serse, il quale prepara la sua grande spedizione contro la Grecia. Se ne narrano le vicende fno alla battaglia delle Termopile compresa (libro VII). Per mare si combatte all'Artemisio e poi a Salamina. La narrazione procede sino al termine del primo anno della guerra (libro VIII). Essa si chiude con le battaglie di Platea e di Micale e con la successiva presa di Sesto (libro IX).
La composizione della storia di E. - A prima vista, la composizione della storia di E. pare bene e coerentemente pensata. Il libro s'inizia con mossa lenta, accennando alle prime, relativamente piccole e poco importanti, lotte tra Greci e Barbari, e si arricchisce in questa parte di ampie digressioni, che ci fanno conoscere gli attori di quelle lotte. Poi, man mano che le lotte s'intensificano, le digressioni diminuiscono di misura e d'importanza, si fanno tali da non lasciar più perdere neppure al lettore disattento il filo della narrazione. In fine, quando il conflitto greco-barbarico culmina nella guerra di Serse, il racconto si fa rettilineo, le digressioni quasi scompaiono, l'interesse si concentra intorno alla peripezia finale del grande dramma. Le cose in realtà non snno così chiare e semplici come pare a prima vista. La digressione, p. es., maggiore e più accurata, quella sull'Egitto, si riferisce a un popolo che, nelle lotte tra Greci e Barbari, non ha avuto se non una parte affatto secondaria. E fin dal principio, dove E., chiuso il proemio mitico, dice di voler accennare al primo barbaro ch'egli sappia aver iniziato la serie delle offese contro i Greci, e designa come tale Creso, si mette poi subito in contraddizione con sé stesso quando enumera Gige e gli altri Mermnadi predecessori di Creso come coloro che iniziarono offensivamente la lotta contro i Greci d'Asia. Per risolvere queste e altre difficoltà che la storia di E. presenta, fu proposta da A. Scholl e da A. Bauer la teoria dei λόγοι. Essi ritennero cioè che E. componesse indipendentemente le varie parti della sua storia, p. es. il λόγοι sugli Egiziani, quello sui Lidî, quello sugli Sciti, e via dicendo, e poi fondesse il tutto più o meno arbitrariamente in un'opera unitaria destinata a narrare le guerre tra i Greci e i Barbari. Questa ipotesi spiega anche le piccole contraddizioni e ripetizioni che si riscontrano qua e là nell'opera di E. e spiega pure la somiglianza di schema che c'è tra i varî λόγοι, ciascuno dei quali sembra potersi distinguere in 4 sezioni fondamentali: I. natura e sito del paese; II. leggi e costumi; III. singolarità (ϑαυμάσια); IV. storia; come spiega anche infine le ricapitolazioni che si notano talvolta alla fine dei λόγοι e che sembrano superflue in un'opera unitaria.
Questa teoria ha certo un fondamento di verità: ma da una parte gli argomenti addotti per l'assoluta indipendenza originaria dei varî λόγοι non sembrano probanti; le piccole contraddizioni e ricapitolazioni infatti e l'identità dello schema (che non conviene però esagerare e che spesso è soltanto approssimativa), si spiegano bene anche con l'indipendenza soltanto relativa dei λόγοι, vale a dire nel senso che E. li abbia elaborati separatamente con una certa unità artistica, per farne oggetto di letture e di conferenze, pure avendo il proposito di consertarli in una grande opera unitaria. D'altra parte questa ipotesi non spiega a sufficienza quelle che sembrano le maggiori incongruenze nella storia di E., quella prima di tutto suaccennata dell'iniziare con Creso la storia delle lotte tra Greci e Barbari laddove essa andava iniziata, come lo stesso E. riconosce, con Gige. Il che è tanto più difficile a spiegare in quanto il naturale punto di partenza di un λόγοι sui Lidî era Gige e non Creso.
Sembra invece eliminare ogni difficoltà la relativa indipendenza dei λόγοι combinata con un cambiamento di piano nell'architettura dell'opera erodotea. Quando E. ha cominciato a scrivere la sua storia, i Greci non avevano ancora nessuna storia, propriamente detta, di fatti d'interesse nazionale. Essi avevano: 1. annali di singole città, come gli ῟Ωροι Λαμψακηνῶν di Carone di Lampsaco; 2. opere concernenti la storia dell'età eroica, come le genealogie di Ecateo; 3. monografie storico-etnografiche su popoli barbari, come iΠερσικά di Carone e i Λυδιακά di Xanto. In tali condizioni era quasi impossibile che E. si proponesse sin dal principio di scrivere una storia d'avvenimenti recenti d'interesse nazionale ci che sarebbe stato, pare, un'assoluta novità. Egli cominciò quindi con una serie di monografie, i λόγοι, riferentisi a singoli popoli barbarici come i Lidî, gli Egiziani, gli Sciti, i Libî, ecc., non destinate però a rimanere isolate, ma ad essere inquadrate in una storia della Persia, la quale forniva ad esse assai opportuna cornice, in quanto questi popoli erano stati, prima o poi, combattuti dai Persiani o incorporati nel loro impero. Ma una storia della Persia comprendeva anche una storia delle guerre tra la Persia e la Grecia e particolarmente dell'ultima grande guerra, la guerra di Serse. A mano a mano che E. si accostava con la stesura della sua opera e con le sue letture alla storia della grande guerra, cresceva l'interesse del pubblico, cui E. si rivolgeva, il quale non aveva ancora una relazione ampia e coerente della più grande guerra dei Greci, ma si doveva contentare dei magri cenni che ne trovava nei Περσικά di Carone o d'altri, e cresceva a un tempo l'interesse dello scrittore, il quale s'avvedeva della grandiosità e novità della materia storica che aveva tra mano. Così l'opera cominciata con una raccolta di λόγοι etnografico-storici inseriti nel quadro d'una storia persiana, si trasformava nelle mani di E., quasi senza ch'egli se n'avvedesse, in una storia delle guerre tra Greci e Barbari. Finchè divenne egli stesso consapevole di questo mutamento che faceva di lui il primo vero storico dell'occidente, il "padre della storia" com'è stato chiamato. Allora trasformò il piano con cui aveva concepito l'opera e fin dal proemio, aggiunto o rifatto, dichiarô di prendere come argomento la grande lotta tra Greci e Barbari.
Cosi si suggellava lo spostamento dell'interesse di E. dal polo etnografico, che era quello cui esso inizialmente mirava, al polo propriamente storico. Ma di tale spostamento sono rimaste nette le tracce, ed è questo appunto il modo di spiegare le incongruenze che offre l'architettura della storia di E. Così si spiega in particolare lo sviluppo grandissimo che ha il λόγοι sull'Egitto. Era naturale un simile sviluppo in una storia persiana; era affatto fuori di luogo in una storia della lotta tra Greci e Barbari. Ma E., il quale aveva coscienza della bellezza e del valore del suo λόγοι egiziano, non ha avuto il coraggio di sacrificarlo alle esigenze del suo nuovo piano, nel quale esso era un fuor d'opera. Similmente in una storia persiana era ben naturale che il λόγοι lidio venisse introdotto come digressione a proposito di Creso, appunto perché sotto Creso la Lidia fu vinta e soggiogata dai Persiani. Mutando il piano, E. non ha voluto qui mutare profondamente, e si è contentato di adattare alla meglio il racconto già steso al piano nuovo, giustificandosi con l'asserzione falsa che Creso fu il primo barbaro che assalisse in età storica i Greci.
Gli 'Ασσύριοι λόγοι. - Questa teoria spiega anche la grave difficoltà, variamente risoluta dai critici, circa gli 'Ασσύριοι λόγοι. E. (I, 184) promette di dare negli 'Ασσύριοι λόγοι la serie dei re di Babilonia: e a questi λόγοι egli si riferisce, quando in un altro passo (I, 106) promette di dare "in altri discorsi" la storia della caduta di Ninive. Qui alcuni hanno pensato che E. abbia voluto annunziare un'opera a parte, che potrebbe anche essere stata poi da lui pubblicata. Ma oltre alla mancanza totale di tracce sicure di quest'opera nella tradizione antica, va osservato che quei due rinviì sono perfettamente analoghi ai rinvii che E. fa altrove da una parte all'altra dell'opera sua. Né, trattandosi di materia così importante come la serie dei re di Babilonia e la caduta di Ninive, è facile ammettere che E. abbia senz'altro dimenticato tale promessa. La spiegazione probabile è questa. E. aveva ideato per la sua storia un 'Ασσύριος λόγοι della misura probabilmente e dell'importanza del λόγοι egiziano che, è da ritenere, avrebbe dovuto essere inserito alla fine del libro III, dove si parla della sottomissione di Babilonia (Babilonia era appunto, secondo la terminologia erodotea, nell'Assiria) fatta da Dario per opera di Zopiro. E questa digressione era perfettamente a suo luogo in una storia persiana. Ma, trasformata la storia persiana in una storia delle guerre persiane, egli si avvide che una seconda digressione, sul tipo di quella dell'Egitto, intorno a popoli che nelle lotte tra Greci e Barbari non avevano avuto se non minima parte, avrebbe guastato irrimediabilmente l'architettura dell'opera. Perciò egli soppresse gli 'Ασσύριοι λόγοι, inserendone forse qualche frammento là dove parlava della conquista di Babilonia da parte di Ciro. Tanto più che forse non li aveva ancora elaborati o magari neppure abbozzati. E solo si dimenticò di sopprimere le frasi in cui li aveva promessi.
La chiusa. - Il racconto di E. termina con la presa di Sesto nella primavera del 478. Non è questo veramente il termine della guerra tra la Grecia e la Persia, la quale, combattuta con maggiore o minore energia, non si chiuse se non trent'anni più tardi, dopo la morte di Cimone nel 448. Ma la presa di Sesto, escludendo virtualmente dall'Europa i Persiani, chiudeva in modo acconcio la storia della loro offensiva in Europa. E il protrarre il racconto più oltre avrebbe condotto E. a discorrere della fondazione e delle prime lotte dell'impero marittimo ateniese, di quell'impero che era il centro delle lotte politiche, combattute nel momento in cui E. scriveva. Con che E. sarebbe entrato, volente o nolente, nella storia contemporanea, ciò che egli, evidentemente, non volle. Ciò si può confermare dall'aver egli, per via di digressione, trattato di fatti posteriori alla presa di Sesto, come la spedizione in Tessaglia, e non è infirmato dalla promessa, non mantenuta, di parlare della morte di Efialte, che si deve considerare come una pura e semplice dimenticanza. Ma non può non sorprendere che, narrata la presa di Sesto, E. torni a parlare di Ciro e a dire che, conforme al consiglio di Ciro, i Persiani preferirono, "abitando una terra sterile, dominare, anziché, coltivando una terra fertile, servire ad altri".
Chiusa, certo, singolare, per una storia della guerra vittoriosa dei Greci contro i Barbari. Tanto che alcuni hanno voluto ricavarne che l'opera di E. è incompiuta, e altri, pur riconoscendone la compiutezza nel rispetto storico, hanno ritenuto che E. non l'abbia ultimata nel rispetto artistico. In realtà la difficoltà si risolve assai agevolmente, osservando che quella era una chiusa altrettanto adatta a una storia persiana, quanto poco adatta a una storia delle guerre persiane. E. l'ha pensata quando il piano dell a sua storia era diverso, e l'ha lasciata intatta, come altre tracce della prima architettura, quando il piano è stato mutato.
Erodoto e l'Occidente. - Dei Greci e dei Barbari d'occidente E. non si occupa che in alcune digressionî assai brevi, la prima sui Focesi nell'occidente, fino alla battaglia d'Alalia e alla fondazione di Velia (I, 163-167); la seconda sul viaggio d'esplorazione di Democede nel mare Ionio (III, 126-140); la terza sulla spedizione in Sicilia dí Dorieo con cenni intorno alla distruzione di Sibari per opera dei Crotoniati (V, 42-48); la quarta sui Samî nell'occidente e sulla loro occupazīone di Messina (VI, 22-24); la quinta su Gelone, i principî della sua tirannide e la sua lotta coi Cartaginesi (VII, 153-167); la sesta infine sull'origine cretese degli Iapigi e sulle lotte di questi coi Tarentini (VII, 169-171). Digressioni che, brevi come sono, ci forniscono alcune delle notizie più preziose che noi abbiamo intorno all'antichissima storia d'Italia. Il piano primitivo della storia d'E., che era quello d'una storia persiana, spiega come E. desse ai Barbari dell'Occidente, quali i Tirreni o gl'Iberi, così poca parte nella sua storia, e spiega altresì come alla gloriosa lotta di Gelone con i Fenici, che rappresentava pure un momento così importante nella guerra tra Greci e Barbari, si facesse appena un piccolo accenno.
Le fonti. - E. non accenna quasi mai a fonti scritte. In due soli luoghi menziona nominativamente come fonte Ecateo (II, 143; VI, 137) accennando nell'ultimo ch'egli parla delle cose di cui si tratta ἐν τοῖσι λόγοισι. Invece moltissime volte cita informazioni orali, e queste nel modo più vario, sia indicando specificamente col suo nome l'informatore o, in genere, i sacerdoti dell'una o dell'altra città, sia genericamente i Greci, gli Egiziani, gli Ateniesi, i Persiani, gli Sciti, ecc., dove poi di regola non siamo mai in grado di farci un'idea chiara come egli sia giunto a ritenere una data opinione propria genericamente dei Persiani, degli Egiziani o dei Greci. Talune di queste fonti orali sono certo citate indirettamente; p. es. E. non è stato in Etiopia né, probabilmente, ha trattato molto con Etiopi, in modo che quelle opinioni che attribuisce agli Etiopi non può averle risapute se non dagli Egiziani. Nell'insieme, si ha l'impressione che F. voglia ascrivere tutto quel che egli narra, salvo eccezioni rarissime, a sue informazioni personali. E si ha pure l'impressione che ciò corrisponda in massima a verità, se anche, come vedemmo parlando della sua autopsia, è fuori di dubbio che nei primi 4 libri delle sue storie egli ha controllato i suoi ricordi con l'uso di fonti scritte. Anche meno della prima parte la seconda, sulle guerre persiane, ha il carattere d'un racconto basato su erudizione libresca. Qui l'impressione che si ha è che l'uso di fonti scritte sia anche più raro che nei primi libri, e infondata sembra poi l'opinione che egli abbia attinto a vere e proprie narrazioni tradizionali orali, propagate da novellatori popolari. Della novellistica popolare nei suoi libri c'è traccia, ma si tratta sempre, per quel che pare, della novellistica ionica, per racconti concernenti l'Asia e particolarmente la Lidia. Rari sono i tratti che derivano senza dubbio da fonti scritte, tale probabilmente un centinaio di capitoli del libro VII, dove sono riferite le marce di Serse da Celene nella Frigia a Terme nella Calcidica e dove è la lista dei popoli che facevano parte dell'esercito di Serse, coi loro capi. Anche il diario delle tappe dell'esercito e della flotta fino alle battaglie delle Termopile e dell'Artemisio non sembra poter essere desunto che da una fonte scritta e forse dalla stessa a cui si è alluso sopra. Ma la natura di questa fonte non è punto chiara. Di altre fonti scritte sappiamo solo casualmente e per il fatto che ci sono conservate; p. es., essendoci conservati i Persiani di Eschilo, possiamo constatare che essi hanno influito sul racconto erodoteo della battaglia di Salamina e che in particolare da Eschilo è desunto, probabilmente fraintendendolo, il numero delle navi persiane. Anche documenti E. ha qualche volta usato: tali alcuni epigrammi che egli cita; tali varî oracoli (e qui poco importa se gli siano pervenuti isolatamente o già collegati in una o più raccolte). Un altro documento usato da E. conosciamo solo casualmente appunto perché ci è conservato: è la lista degli alleati ellenici, che, dopo la vittoria, offrirono in Delfi un tripode votivo ad Apollo. Da questa lista E. desunse la sua lista dei popoli greci che parteciparono alla battaglia di Platea, e poiché nel documento votivo era il nome dei Fαλεῖοι, che egli, non usando, come ionico, il digamma, non capì e prese per Παλεῖοι, fra i contingenti che combatterono a Platea registrò gli abitanti di Pale nell'isola di Cefalonia ed omise gli Elei; anzi, con l'aiuto di qualche tradizione più o meno rettamente interpretata, cercò di spiegare il ritardo degli Elei e d'illustrarne le conseguenze. Non è dubbio che, se la nostra conoscenza della letteratura e dei documenti di quei tempi fosse maggiore, noi potremmo trovare qualche altra fonte letteraria usata come i Persiani di Eschilo o qualche documento usato come il tripode delfico. Ma è da ritenere che si tratterebbe sempre, come in questi casi, di uso conforme alla natura di quelle fonti, saltuario e, ad ogni modo, non frequente. Tutta questa parte della storia di E. mostra l'immediatezza e l'incoerenza delle notizie, attinte alla tradizione orale.
I varî tentativi che sono stati fatti per attribuirne larghi brani alle pretese memorie d'un fuoruscito ateniese, Diceo, memorie che probabilmente non sono mai esistite, o al logografo Dionisio da Mileto, si sono mostrati fallaci. Un qualche influsso d'Ecateo anche qui, per la parte concernente la ribellione ionica, è innegabile, ma si tratta d'influsso saltuario perché Ecateo non ha certo narrato continuatamente quella insurrezione e solo ha fatto, non sappiamo bene dove nè come, qualche accenno alla parte personale che egli vi ebbe.
Le tradizioni raccolte da E. spettano quasi tutte al quartier generale greco; solo poche sono di parte persiana. Oltre quelle, probabilmente scritte, cui sopra abbiamo accennato, un gruppo di tradizioni orali risalenti alla famiglia del re spartano Demarato, che aveva partecipato alla spedizione di Serse e aveva avuto da lui, per sé e discendenti, possessi in Teutrania nella Troade; e un altro gruppo di tradizioni che facevano capo ad Artemisia e ai suoi compagni d'arme, raccolte ad Alicarnasso.
Di fronte alle tradizioni che gli pervengono, E. si astiene quasi sempre dalla critica e proclama come suo principio fondamentale quello di dover riferire fedelmente quanto gli è stato detto senza sentirsi obbligato a credervi (VII, 152: ἐγὼ δὲ ὀϕείλω λέγειν τὰ λεγόμενα, πείϑεσϑαί γε μὲν οὐ παντάπασιν ὀϕείλω, καί μοι τοῦτο τὸ ἔπος ἐχέτω ἐς πάντα τὸν λόγον). In ciò si riconosce l'effetto della critica audace di Ecateo verso la tradizione. Tornare al] a cieca fede nella tradizione o all'ingenua fiducia nelle combinazioni arbitrarie fra tradizioni diverse od opposte, dopo Ecateo non si poteva. Ma E. è troppo più d'Ecateo aderente alla realtà concreta per non sentire l'arbitrario delle correzioni e razionalizzazioni audaci di Ecateo. E tuttavia una critica delle tradizioni effettivamente egli fa, anche all'infuori dei pochissimi casi in cui esprime la sua opinione in proposito. La critica sta intanto nella stessa selezione fra le tradizioni, selezione che qualche volta è dovuta a motivi puramente esteriori e sentimentali, sia nella combinazione che spesso compie fra tradizioni o fra tradizioni e fonti letterarie o documenti, del che sono esempio le narrazioni delle battaglie di Salamina e di Platea; naturalmente egli non pensa affatto, in questi casi, a informare il lettore di ciò che è propriamente tradizione da lui raccolta e di ciò che è modificazione o inserzione suggeritagli da altre fonti.
E. e la statistica. - Uno dei punti più deboli delle storie di E. sono le valutazioni numeriche. Se si guarda alle sue cifre, la spedizione di Serse sarebbe stata una spaventosa migrazione di popoli, senza esempio nella storia. Basti questa enumerazione: combattenti portati dall'Asia, 1.700.000; cavalieri, aurighi, cammellieri 100.000; marinai (200) e soldati (30) delle 1207 triremi, 277.610; equipaggio delle 3000 navi da carico, 240.000; provenienti dall'Asia in totale 2.317.610, senza le salmerie. Dalla Tracia Macedonia, Tessaglia, soldati 300.000; equipaggi di 120 triremi, 24.000; totale, truppe e marinai, 2.641.610. Calcolando che ogni uomo di truppa avesse con sé un attendente o inserviente, e dimenticando che questo non si applica davvero alle truppe leggiere e molto meno ai marinai, E. raddoppia quella somma e giunge alla cifra incredibile di 5.283.220 uomini. Non c'è neppure bisogno, oggi, di discutere simili numeri. L'assurdità della concentrazione di tali masse in regioni povere come la Grecia e coi mezzi logistici primitivi di cui allora si disponeva, salta agli occhi di tutti. Ciò che fa meraviglia è che si sia giunti solo assai tardi, nel sec. XIX, a riconoscere l'erroneità di queste cifre.
Primi a farne una critica severa, sostituendovi numeri d'un ordine del tutto diverso, sono stati H. Delbrück e J. Beloch. È del Delbrück l'osservazione che, se simili masse dovevano marciare sopra una sola strada (e non v'era difatti assai spesso che una strada sola, e questa assai stretta e disagiata), mentre l'avanguardia giungeva alle Termopile, la retroguardia non sarehbe ancora uscita dalle porte di Susa o di Babilonia. Altro esempio caratteristico: Eschilo dice che a Salamina i persiani avevano 1000 navi e disponevano di 207 navi eccellenti per velocità; cioè, come pare debba intendersi, disponevano d'un migliaio (in cifra tonda) di navi grandi e piccole, da guerra e da carico, di cui 207 triremi. E. intende che disponevano di 1207 navi da guerra, tutte triremi, e vi aggiunge 3000 navi da carico; effettivi, beninteso, che le armate persiane non hanno raggiunto neppur lontanamente nei secoli seguenti e da cui sono state lontanissime pur le armate delle due maggiori potenze navali antiche, Cartagine e Roma. Peggio: E. trasferisce sbadatamente quegli effettivi alla flotta persiana nell'atto della sua partenza e, come poi deve sottrarne le perdite e tuttavia ritrovare le 1207 triremi a Salamina, pensa che le perdite siano state esattissimamente compensate dai sussidî avuti dalle regioni occupate in Europa e nelle isole, sussidî che calcola nella somma di 400 triremi, mentre è probabilmente esagerato calcolare a una quarantina.
Il sentimento nazionale in E. - E. è lo storico delle guerre persiane, cioè delle guerre più gloriose combattute dai Greci. Egli ammira certamente la grandiosità delle vittorie e contrappone, specie nei dialoghi tra Serse e Demarato, che formano il prologo e l'epilogo della battaglia delle Termopile, lo spirito di libertà che animava i Greci, a cui essi dovettero la loro vittoria, all'animo servile dei Barbari, che avevano bisogno di essere spinti con lo staffile alla battaglia e nei quali E. non vedeva che i servi del re. E tuttavia non si rispecchia nella storia di E. il gioioso compiacimento e l'ardore impetuoso, l'immensa fiducia in sé stessi, che la vittoria suscitò nei Greci. I maggiori eroi della guerra di libertà sono rimpiccioliti e messi quasi sempre in luce poco buona. Il principio stesso della guerra, la gloriosa insurrezione degli Ionî contro l'impero piú vasto che fosse mai stato, è considerato come una meschina cosa dovuta a beghe e ad ambizioni personali. Il tentativo di Aristagora per chiamare a soccorso degli Ionî i fratelli della madre patria, non è che un tentativo di inganno. Le navi mandate dagli Ateniesi per soccorrere i fratelli d'Asia non sono che principio di mali, ἀρχὴ κακῶν. E durante tre generazioni sotto Dario, Serse e Artaserse, vien detto che i Greci soffersero tanti mali quanti neppure nelle venti generazioni precedenti. E tuttavia durante quelle generazioni essi vinsero i Persiani e liberarono i Greci dell'Asia Minore. In sostanza l'epopea nazionale, in quanto tale, lascia freddo E. Egli era nato in Alicarnasso, città che aveva partecipato alla guerra persiana contro i Greci e che ricordava con ammirazione la sua sovrana Artemisia, la quale si era segnalata tra le file dei Persiani. Non era questo il terreno più adatto per ispirare a E. un forte sentimento nazionale. Nè terreno molto adatto era l'Atene di Pericle, la quale aveva posto termine alla guerra persiana e teneva con la forza sottomessi i Greci appartenenti al suo impero e si preparava alla lotta per l'egemonia contro Sparta. Quel sentimento dell'immensa superiorità della civiltà greca sulla barbarica, che è così netto in Tucidide o in Senofonte, manca a E., il quale non finisce di celebrare la scienza dei Barbari e l'antichità di questa scienza e ritiene persino che i Barbari abbiano dato ai Greci le loro idee religiose, tanto che dagli stessi antichi è stato chiamato ϕιλοβάρβαρος.
Tendenza politica. - Eppure una tendenza politica nell'opera erodotea non manca, la tendenza a glorificare Atene. Bene si è osservato che la vera chiave per intendere lo spirito della storia di E., è nel passo (VII, 139) in cui egli dice, che, se gli Ateniesi non si fossero opposti ai Medi, la resistenza degli altri Greci sarebbe stata vana, tantoché essi furono veramente i liberatori della Grecia, quelli a cui dopo gli dei può attribuirsi la cacciata dei Persiani. Scrivendo questo quando l'opinione pubblica in Grecia insorgeva contro l'imperialisno ateniese, E., evidentenente, senza entrare in modo aperto nelle questioni politiche dei proprî tempi, voleva dare dell'egemonia di Atene una giustificazione ideale.
Gli avversarî più accaniti d'Atene circa il principio della guerra del Peloponneso, sono rappresentati nel modo più odioso: Tebe non solo ha aderito ai Persiani, ma vi ha aderito in modo così codardo, che gli stessi Persiani hanno ricompensato i Tebani, traditori dei loro fratelli alle Termopile, marchiandoli a ferro rovente. Invenzione tendenziosa, certo; ma è caratteristico appunto che E. la raccoglie senza discussione. Né migliore figura fanno i Corinzî, sebbene partecipassero alla guerra nazionale; il loro ammiraglio Adimanto, cui la tradizione corinzia ascriveva una parte importante della vittoria, non è che un uomo corrotto e vile. Assai diversamente sono trattati gli Argivi, sebbene nella grande guerra rimanessero neutrali. Non solo E. si mostra disposto ad accettare le giustificazioni da essi date della loro neutralità, pur conoscendo la tradizione secondo cui gli Argivi avrebbero concluso un accordo coi Persiani, promettendo di passare apertamente dalla loro parte, non appena forzato l'istmo, ma è pure caratteristica la mitezza con cui qui a proposito degli Argivi formula il principio che ciascun popolo, pensando alle colpe che ha, non deve essere corrivo a condannare le colpe degli altri (VII, 152), principio del quale si dimentica giudicando di Corinto e di Tebe.
Non così avverso egli è agli Spartani. Riconosce molte volte la loro prodezza, celebra Pausania come l'autore della più bella vittoria che sia mai stata riportata. Ciò del resto si spiega tenendo conto che, nonostante la guerra, un certo filolaconismo era a quel tempo assai diffuso tra gli Ateniesi. Ma anche rispetto a Sparta non manca qualche invenzione odiosa, tendente a mettere il valore spartano in cattiva luce, in confronto con quello ateniese. Si veda per esempio quanti sforzi debbono essere fatti, secondo E., prima di Platea per indurre gli Spartani a sperimentarsi in campo nella Grecia centrale. Ed anche a Platea, quando la battaglia è imminente, gli Spartani, che occupano il posto d'onore all'ala destra di fronte ai Persiani offrono agli Ateniesi di sostituirli, allegando di non aver ancora mai combattuto per terra contro i Barbari. La sostituzione ha effettivamente luogo, e solo i Persiani, facendo un uguale spostamento nel loro fronte di battaglia, inducono gli Spartani a rassegnarsi e a tornare al posto di prima: dove questi spostamenti di grossi reparti sul fronte di battaglia, nella vicinanza immediata del nemico sono assurdi; ma è caratteristico che E. anche qui non abbia esitato ad accettare la favola. E. dunque è particolarmente favorevole agli Ateniesi. Tra gli Ateniesi favorisce in particolare gli Alcmeonidi, che si sforza di scagionare dalle accuse di tradimento durante le guerre persiane. Ciò si collega evidentemente con le strette relazioni di E. con Pericle e i suoi amici, potendo Pericle, Alcmeonide per parte di madre, considerarsi come l'erede politico degli Alcmeonidi. Di Pericle E. parla una volta sola, a proposito della sua nascita, dove nell'apparente obiettività classica del racconto è evidente lo scopo di esaltazione. Narra cioè che ad Agariste, "essendo incinta, parve di vedere in sogno un leone; e partorì Pericle di Santippo" (VI, 13). Con la simpatia per gli Alcmeonidi si spiega la non celata antipatia verso Temistocle, che pur fu nelle guerre persiane l'uomo più benemerito della libertà della Grecia. Ma conviene ricordare che Temistocle riuscì a far approvare il suo programma navale soltanto dopo aspre lotte con gli Alcmeonidi e che gli Alcmeonidi ne conservarono tale avversione, che uno di essi intentò contro di lui l'ultimo processo per tradimento.
Concetti filosofico-religiosi di E. - I concetti religiosi di E. sembrano assai incoerenti e contraddittorî, ciò che forse in parte dipende dalla diversità delle fonti da lui usate. Talora i miti sono prosaicamente razionalizzati, come quando Io o Europa vengono trasformate in fanciulle rapite da mercanti greci o fenici; e talora queste razionalizzazioni E. pare non le desuma dalle fonti ma le proponga per suo conto: per es., sembra sua l'interpretazione della leggenda sulle due colombe nere che da un albero avrebbero in Dodona ordinato la fondazione del santuario: si tratterebbe di due sacerdotesse egiziane; la pelle scura e il cinguettio loro in una lingua incomprensibile avrebbero fatto sì che la tradizione le trasformasse in colombe. Ancor più caratteristica è la critica che E. fa dell'opinione dei Tessali, secondo cui la valle di Tempe è opera di Posidone; troverà giusta questa opinione, dice E., chi ritenga opera di Posidone i terremoti, perché l'apertura di quella valle è l'effetto di un terremoto. Ma altrove, al contrario, E. si mostra estremamente credulo di fronte a oracoli, prodigi, sogni profetici e se gli avviene di fare qualche congettura intorno a miti e genealogie divine, chiede umilmente perdono della sua audacia agli dei. Caratteristica è pure l'importanza che egli dà all'invidia divina (ϕϑόνος). Certo gli dei, presso di lui, intervengono qualche volta come provvidenziali tutori del diritto e della giustizia. Ma, più spesso, la divinità è invidiosa e torbida (πᾶν τὸ ϑεῖον ϕϑονερὸν καὶ ταραχῶδες) e interviene, non per ragioni di carattere etico, ma per abbassare chi s'innalza. La dottrina dell'invidia divina è ben più antica di E. e ve n'è traccia già in Omero; ma non è più che una sopravvivenza, segno di mediocre altezza di spirito, in uno scrittore del sec. V. Ad ogni modo, questi concetti, sorpassati, sull'invidia divina, tengono in E. il luogo di qualsiasi seria indagine intomo alle ragioni umane dei fatti. Manca persino ogni ricerca intorno ai precedenti ideali e reali di quella vittoria greca che forma l'argomento della sua storia; e si può appena dire che ve ne sia un qualche barlume nei dialoghi fra Serse e Demarato. I primi tentativi di valutazione delle forze umane contrastanti che operano nella storia, si avranno solo con Tucidide.
E. come scrittore. - Il dialetto ionico, già largamente usato come lingua letteraria, offre ad E. un mezzo espressivo, ricco e malleabile. Il suo pensiero, poco profondo e complesso, trova adeguata espressione in uno stile che ignora ancora la complessa architettura del periodo ed ama la paratassi più che la ipotassi. Mai ricerca d'ornamenti, al più qualche espressione poetica, ricordo delle letture d'Omero o dei lirici; nell'insieme però l'esposizione ha una malia che rende il libro d'Erodoto, anche a prescindere dal contenuto, una delle letture più attraenti che possano mai farsi. Molti hanno cercato di spiegare ciò soprattutto col pregio dell'architettura dell'opera erodotea; ma quest'architettura, come vedemmo, se non è priva di pregi, è disorganica e diseguale ed è qualche cosa di sovrapposto al racconto e di estrinseco ad esso. Il vero pregio artistico dell'opera erodotea sembra stare "nell'unità d'interesse umano con cui lo storico segue i fatti piccoli e grandi, le battaglie e gli aneddoti, le novelle e le singolarità dei costumi e delle leggi". In tal modo egli riesce a trasfondere nel lettore la sua gioia ingenua di narratore che segue con occhio sereno e vigile le opere e le vicende degli uomini e che, in questa visione serena, ne placa i contrasti.
Fortuna. - La fortuna di E. fu immediata, ma la storia di essa coincide con il supeiamento della sua storiografia; Tucidide si contrappone a E. per la nuova intuizione della storia e delle forze che vi agiscono e anche per la critica consapevole delle notizie trasmessegli; ma nello stesso tempo se ne fa continuatore, ricollegando la sua storia della guerra del Peloponneso all'opera di E. con l'excursus sul periodo della Pentecontetia (478-431 a. C.). A E. si oppone pure Ctesia, ma senza superarlo né per il metodo né per l'attendibilità dei fatti narrati. Senofonte come narratore è più sotto l'influsso di E. che di Tucidide, sebbene si limiti a narrare fatti del presente. Eforo usa largamente E., che è la sua fonte principale e quasi unica per la storia delle guerre persiane, mentre Teopompo riassume in due libri l'opera di E. per costituirne elemento di una trilogia con l'opera di Tucidide e le sue Elleniche; ma d'altra parte critica acerbamente, perché tropoo filoateniese, il racconto tradizionale delle guerre persiane. Nelle Filippiche Teopompo si sforza di gareggiare con E. nella cnstruzione artificiosa, nelle descrizioni di costumi e nella tecnica degli excursus. Più tardi E. fa parte dei classici della storia, e la critica s'impadronisce di lui, ma conforme alla tendenza della storiografia greca posteriore, ne considera più le doti artistiche che non la visione storica. Formale è anche l'influsso su storici più tardi come Nicola Damasceno. La critica è in genere favorevole a E. Basti citare come tipico il giudizio di Quintiliano (X, I, 43): historiam multi scripsere praeclare, sed nemo dubitat longe duos ceteris praeferendos, quorum diversa virtus laudem paene est parem consecuta; densus et brevis et semper instans sibi Thucydides, dulcis et candidus et fusus Herodotus: ille concitatis hic remissis afJectibus melior, ille contionibus hic sermonibus, ille vi hic voluptate. Ma c'è anche una corrente antierodotea, la quale è tipicamente espressa nel De H. malignitate di Plutarco, che parte da una concezione patriottica della storia e non riesce quindi a comprendere la relativa mancanza di sentimento nazionale in E.
Codici e testo. - I codici di E. si dividono in due famiglie indicate con le sigle α e β e coi nomi di stirps florentina e di stirps romana, la prima rappresentata da manoscritti che risalgono al sec. X e XI; la seconda da manoscritti del sec. XIV. Entrambe le famiglie risalgono ad archetipi antichi, come mostrano ritrovamenti di papiri del sec. II o III d. C., che hanno rapporto con l'una o con l'altra. Un papiro peraltro (Oxyrh., 1092) ci dà un testo indipendente da entrambe le famiglie e ad esse equipollente. La scelta tra le lezioni date dalle due famiglie di codici è estremamente difficile; la critica finisce con l'appigliarsi a un certo eclettismo pratico. La critica del testo è resa più difficile dalla constatazione che qualche lezione sicuramente autentica, come, per esempio, al principio, ‛Ηροδότου Θουρίου, è completamente scomparsa dai nostri manoscritti, sostituita da quella non autentica ‛Η. ‛Αλικαρνησσέος, e dal frequente comparire in tutti i nostri manoscritti di forme dialettali indubitatamente errate e senza riscontro nei documenti. D'altra parte anche qui la sostituzione sistematica delle forme tramandateci con forme documentate da iscrizioni ioniche è arbitraria, tanto più che i documenti stessi presentano discrepanze formali notevolissime, né è detto che la lingua letteraria di E. coincidesse sempre con quella dei documenti.
Edizioni: Editio princeps, Aldina di Venezia 1502. Migliori edizioni: Stein, Berlino 1879-81 (con commento, Berlino 1856-62, più volte riedita); Sayce e Macan, Londra 1883-95 con ampio commentario; Hude, Oxford 1908. Del II libro commentario del Wiedemann, Lipsia 1890.
Bibl.: A. Kirchhoff, Über die Entstehungszeit des Herodotischen Geschichtswerkes, Berlino 1878; A. Bauer, Die Entstehung des Herod. Geschichtswerkes, Vienna 1878; E. Meyer, Forsch. zur alten Geschichte, II, Halle 1892, p. 196 segg.; A. Hauvette, Hérodote et les guerres médiques, Parigi 1894; f. Jacoby, in Pauly-Wissowa, Real-Enc., Suppl. II, col 205 segg.; T. R. Glover, Herodotus, Cambridge 1924; G. De Sanctis, in Riv. di filologia, class., LIV (1926), p. 289 segg.; W. Aly, Volksmärchen, Sage u. Novelle bei Herodot u. seinen Zeitgenossen, Gottinga 1921; F. Focke, Herodot als Historiker, Stoccarda 1927; Th. Comperz, Griech. Denker, I, Lipsia 1896, p. 205 segg.; G. Busolt, Griech. Geschichte, II, 2ª ed., Gotha 1895, p. 600 segg.; J. Vogt, Herodot in Aegypten, Stoccarda 1929; O. Regenbogen, Herodot u. sein Werk, in Die Antike, VI (1920).