ERRI (de heris, de leher, delero, del R)
Nella famiglia degli E., attestata a Modena a partire dal '300, il primo ad esercitare la pittura fu Bartolomeo, figlio del maestro di legname Geminiano, documentato dal 1372, quando compariva tra i fondatori della Compagnia della Buona Morte, fino al 1425, quando fece testamento (18 dicembre) e morì (prima del 21 dicembre; se non altrimenti specificato, per tutti i documenti si fa riferimento al regesto di O. Baracchi, in Benati, 1988, pp. 185-205 ed al medesimo volume di Benati in cui è ricostruita tutta l'attività della bottega). Nel 1406 era in rapporto col pittore bolognese Iacopo di Paolo, che gli prometteva 100 lire, e nel 1410 era iscritto alla matricola delle quattro arti di Bologna; tuttavia nel 1412 risultava sempre abitante a Modena. In base a tale documentazione bolognese si è ipotizzato che fosse lui l'autore della Madonna della colonna dipinta per Pietro de' Donzi (Modena, sagrestia capitolare del duomo), che presenta forti caratteri alla Iacopo di Paolo (Benati, 1988, p. 159 n. 64). Dal 1419 al 1423 fu sapiente del Comune di Modena; negli stessi anni (1419, 1420, 1425) fu pagato dal Comune per la pittura del palio di S. Giminiano e di vari stemmi su carta per la festa del santo.
Tale attività passò ai suoi discendenti, innanzitutto al figlio Giorgio (pagamenti negli anni 1417, 1418, 1423). Di un secondo figlio, Pellegrino, che gli era premorto, non sappiamo se esercitasse pure l'arte della pittura. Giorgio, che aveva sposato Agnese Serafini, figlia del pittore modenese Serafino de' Serafini, nel 1418 dipinse lo studio del podestà; morì precocemente, il 6 marzo 1430, lasciando quattro figli: Angelina, Agnolo, Serafino e Bartolomeo.
Per il Comune lavorò pure Benedetto, figlio di Pellegrino, documentato la prima volta nel 1418, a fianco dello zio Giorgio, per la pittura degli stemmi del podestà sulle berrette dei nunzi. Nel 1420 fu incaricato di eseguire le miniature (frontespizi ed iniziali) di tre codici con gli Statuta Mutinae reformata, tuttora conservati nell'Archivio storico comunale (Vicini, 1926).
Lo stile di queste miniature, di non alta qualità, è direttamente aggiornato sull'esempio del concittadino Giovanni Faloppi, che era attivo a Bologna.
Le fisionomie acciaccate ricorrono in otto tondi affrescati nelle crociere dell'oratorio inferiore dell'ospedale della Buona Morte (ora strappati e depositati nel Museo civico), che rappresentano verosimilmente un'ulteriore testimonianza dell'arte di Benedetto, attivo a più riprese per l'ospedale (Benati, 1988). Morti il nonno e lo zio, Benedetto subentrò nella pittura periodica di pali, stemmi e barde per conto del Comune (1431, 1432); nel 1432 dipinse la ruota delle ore, in piazza, ma dovette rifarla perché il suo lavoro non era soddisfacente. Nel 1430, nel 1432 e nel 1452 era sapiente del Comune di Modena. Il 25 febbr. 1433 stipulò un impegnativo contratto con Aldrovandino Guidoni, che lo incaricò della intera decorazione dell'altare familiare in duomo.
Da questo documento apprendiamo che Benedetto era plasticatore oltre che pittore: le due crociere della navata antistante andavano affrescate con otto tondi; il tabernacolo, affrescato con storie all'interno e decorato all'esterno con colonne, cornici e figure di profeti in terracotta policroma e dorata, doveva includere un'ancona, pure in terracotta, con S. Pietro circondato da otto rilievi raffiguranti Storie della sua vita, sormontato dalla Crocifissione e da altri quattro rilievi. L'impresa, per cui Benedetto aveva abbandonato, nello stesso 1433, un lavoro precedentemente avviato per Geminiano Sigoni, nella chiesa di S. Vincenzo, non andò però in porto e il Guidoni, insoddisfatto, nel 1436 rescisse il contratto.
Per l'ospedale della Buona Morte nel 1436 Benedetto restaurò un tabernacolo; nel 1437 dipinse un cataletto e una "tavoletta indorata" che fu portata trionfalmente nell'oratorio; tra il 1439 e il 1440 fu pagato per la pittura di una tavola di indulgenza col simbolo della morte. Nel 1442 sciolse la società "in arte pictorie" che aveva insieme con Antonio Azzi. Nel 1448 gestì una fornace insieme con Antonio Ingoni. Nel 1452 dipinse 177 tavolette di soffitto ("cantinelle") ed altri fregi nei locali dell'ospedale della Buona Morte. In quell'anno risulta tenere col figlio Pellegrino (allora diventato maggiorenne, e perciò nato prima del 1427) una bottega specializzata nella lavorazione e nella vendita della carta, di barde e cuoi decorati. Ultima sua notizia è il pagamento per la pittura di un palio, il 30 sett. 1453. L'anno successivo era probabilmente già morto: il 15 nov. 1454 infatti il figlio Pellegrino, con cui aveva bottega in comune, è citato da solo, per l'incarico, affidatogli dall'ospedale della Buona Morte, di dipingere i cappucci per i confratelli col simbolo della morte. Nel 1455 lo stesso ospedale commise a Pellegrino alcune tavole di soffitto e tre fregi.
Anche i tre figli maschi di Giorgio, Agnolo, Serafino e Bartolomeo, esercitarono l'arte della pittura.
Il primogenito Agnolo è documentato per la prima volta a Modena nel 1430, alla morte del padre, quindi nel 1441, quando sposò Lucia di Tommaso Pignatta. In quell'anno non erano ancora maggiorenni gli altri due fratelli: Serafino (nato nel 1417 e morto il 28 ag. 1448) e il più giovane, Bartolomeo, che compare nei documenti molto più tardi, solo nel 1460.
Nel 1442 Agnolo e Serafino costituirono una società "de arte pictorie et bardarum" col pittore Antonio Azzi, che fino a quel momento aveva lavorato in compagnia del loro cugino Benedetto. Il 1º febbr. 1449 Agnolo è pagato dall'ospedale della Buona Morte per le miniature di un messale (una Crocifissione sul frontespizio ed otto iniziali). È la prima testimonianza di una commissione più qualificata, per cui fu preferito al più anziano cugino, Benedetto, che pure aveva lavorato più volte per l'ospedale. Un profilo professionale più impegnativo distinse più tardi la bottega di Agnolo e Bartolomeo da quella di Pellegrino, figlio di Benedetto. L'ospedale della Buona Morte, cui l'intera famiglia degli E. era legata fin dalla fondazione trecentesca, nel 1461 si rivolse a Bartolomeo per la pittura del gonfalone e affidò ad Agnolo la prestigiosa commissione della pala d'altare per l'oratorio superiore della compagnia, i cui primi pagamenti risalgono al 1462.
Già dal 1448 Agnolo, e poi anche Bartolomeo, lavorarono assiduamente alla decorazione interna della dimora estense di Sassuolo, per cui furono saldati nel 1462. Da un documento del 1460 si capisce che il lavoro veniva materialmente condotto da Bartolomeo: si specifica infatti che Agnolo era pagato per "le depinture facte per maestro Bertolamio suo fratello in le stantie del palazo". Nel 1463 e 1464 Pellegrino subentrò per la pittura dei merli. Negli stessi anni sia Agnolo (1450, per la cornice della stalla; 1459, 1460, 1463, per varie tavolette di soffitto e nappe da camino) sia Pellegrino (1460, affrescatura di colonne, e poi ancora dal 1468 al 1471 e nel 1483) dipinsero nel nuovo castello estense di Modena. Nel 1459 Pellegrino dipinse l'arme ducale sulla facciata del castello di San Martino in Rio; nel 1461-62 fu pagato insieme con Agnolo e Bartolomeo da Bologna (forse Bartolomeo di Cristoforo Maineri) per altre pitture dentro al palazzo, di cui rimangono alcuni resti, di carattere araldico. Pellegrino fu in particolare richiesto dal duca Ercole, per commissioni ordinarie: uno stendardo con l'impresa del diamante, in occasione della sua successione (1471), varie barde e lance (1471, 1478, 1479, 1482), 40 targoni col diamante (1487).
Fin da giovane Agnolo rimpiazzò gradualmente il cugino Benedetto come favorito dal Comune di Modena: per piccoli lavori di decorazione, nel 1443, per la mappatura dei confini col Bolognese lungo il Panaro, nel 1444, quindi per l'abituale pittura del palio (1447, 1454, 1458, 1459, 1461, 1465, 1466), degli stemmi per le berrette dei messi e degli stemmi per i ceri ("per depinzere le arme suso le berete di messi et per le arme de li duperi": 1447, 1449, 1452, 1456, 1463, 1464, 1465, 1466); nel 1465 Bartolomeo dipinse il quadrante delle ore e nel 1467 entrambi i fratelli furono pagati per la pittura dei merli di porta Albare. Agnolo e Pellegrino ebbero pure incarichi pubblici: al pari degli avi Bartolomeo di Geminiano e Benedetto di Pellegrino furono più volte sapienti del Comune modenese (Agnolo nel 1455, 1462, 1465, 1467, 1474, 1480, 1496; Pellegrino nel 1456, 1464, 1466, 1468, 1471-1474, 1476, 1481, 1482, 1484, 1487, 1490, 1492, 1493, 1496) e nel 1462 Agnolo dovette riscuotere le gabelle nelle podestarie di Fontefestino, Vignola e Savignano.
Sia Pellegrino sia Agnolo e Bartolomeo ebbero stretti rapporti con la fabbrica di S. Giminiano: "le loro case, acquistate nel 1441, erano contigue alle proprietà della fabbrica, da cui affittarono i locali di bottega, dal 1455 al 1458. Nel 1459 (e di nuovo nel 1461, nel 1471 e nel 1472) Pellegrino tenne invece a pigione una fornace: la sua attività si rivolse in parte verso la fabbricazione di vasi, terraglie, materiale edile e più tardi vetri (dal 1472, inoltre, risulta immatricolato all'arte del legname). Agnolo continuò ad affittare la stessa bottega, in corso Canalchiaro, dal 1458 fino al 1487. Non a caso i due fratelli lavorarono pure per la fabbrica di S. Giminiano: nel 1457. Agnolo fu pagato per vari oggetti, tra cui una croce e una Pace dipinta su tavola; nel 1463 fu pagato per la pittura delle portelle e della cassa dell'organo; nel 1476 Bartolomeo montò i ponteggi per dipingere le volte della cripta del duomo; nell'occasione della festa di S. Giminiano la loro bottega fornì vari apparati effimeri (gonfalone di S. Giminiano, stemmi dipinti per le berrette ovvero da appendere alle colonne, carte e pergamene con l'immagine del santo) non solo per conto del Comune, ma anche della fabbriceria (1459, 1462).
La pala dell'ospedale della Buona Morte (Modena, Galleria Estense), identificata da A. Venturi (1885), è la più antica opera sicuramente documentata, uscita dalla bottega di Agnolo e Bartolormeo, da cui ha preso le mosse la ricostruzione moderna della loro attività. Nel 1460 il maestro di legname Andrea De Polli aveva già preparato la tavola ed intagliato la cornice. Il lavoro passò allora ad Agnolo, che nel 1462 ricevette i primi pagamenti; nel 1464 la pala era ancora in lavorazione nella bottega comune dei due fratelli; all'inizio del settembre 1466 venne trasportata in chiesa, insieme con la relativa cassa; nel 1468 il giovane Bartolomeo Bonascia dipinse la cortina che doveva proteggere la tavola.
Contro il fondo dorato e all'interno della ricchissima cornice lignea, di Andrea De Polli, coronata da pinnacoli e volute vegetali come nei polittici bolognesi di S. Clemente, di Marco Zoppo, e della cappella Griffoni in S. Petronio, di Francesco Del Cossa, le figure hanno un'imponenza straordinaria, che regge il paragone con i due grandi artisti. Ma la lucentezza metallica delle loro opere non si trova nella pittura di Agnolo che è invece morbidamente intessuta, intenerita e luminosa come nei modelli di Domenico Veneziano, prima ancora che di Piero della Francesca (Benati, 1988). L'intenso tenore emotivo, il carattere umorale e sanguigno dei volti, il tormento dei panni, presuppongono una diretta suggestione di Donatello, in parallelo con l'interesse documentatamente dimostrato dal bolognese Tommaso Garelli negli stessi anni: anche la balaustra da cui si affacciano alcuni angeli, sopra l'Incoronazione della Vergine, nello scomparto centrale, è motivo donatelliano.
Il fatto che ad opera ultimata, nel 1466, il saldo sia stato versato a Bartolomeo, non già ad Agnolo, va interpretato alla luce del rapporto di compagnia che li univa, per cui l'uno poteva figurare anche per conto dell'altro. L'assoluta coerenza esecutiva (nonostante i tentativi di distinguere due mani, da parte del Venturi, 1885) fa peraltro concludere che uno solo dei fratelli abbia atteso a questo lavoro, verosimilmente il più anziano Agnolo che godeva di una posizione più affermata. Bartolomeo, infatti, era piuttosto impegnato nell'attività della società costituita il 27 febbr. 1460 (al posto della precedente compagnia costituita nel 1442, tra Agnolo e Serafino da una parte e Antonio Azzi dall'altra) da tre parti distinte: Pellegrino; Agnolo e Bartolomeo; Antonio Azzi e il figlio Francesco. L'atto societario stabiliva infatti la responsabilità preminente di Bartolomeo, che aveva diritto alla quinta parte di tutti gli introiti, e chiariva il tipo di lavori, più frequenti, per cui era sorta l'impresa, vale a dire la pittura di barde, targhe, forzieri, lance ed oggetti simili (con l'esclusione dunque di tavole d'altare o affreschi). Un inventario redatto il 23 dic. 1464, relativo agli oggetti che si trovavano nelle tre botteghe, elenca principalmente barde decorate o dipinte, cofani, ceste, forzieri decorati, dipinti e non, coperchi di forzieri in cuoio, cuoi di bufalo incisi. Solo da Agnolo e Bartolomeo si trovano due ancone in lavorazione: quella per l'ospedale della Buona Morte ed un'altra per la chiesa di S. Giacomo, su commissione di Ludovico Anelli. La società fu sciolta nel 1465. Allora Agnolo e Bartolomeo continuarono il commercio "in arte pictorie et bardarum", ricorrendo al sostegno finanziario di Ludovico Zarlatti (1465); Pellegrino rimase invece in società con gli Azzi, facendosi sovvenzionare da Aurelio Bellincini (1466). Alcuni documenti testimoniano che anche Agnolo e Bartolomeo erano dediti alla fabbricazione di barde dipinte: nel 1454 per Battista Tassoni, nel 1457 per gli Ordelaffi signori di Forlì, nel 1482 per Pietro della Marchesana.
Successiva allo scioglimento della società è una commissione di rilievo, quella della tavola per l'altar maggiore di S. Domenico, il 12 marzo 1467, affidata al solo Bartolomeo, ma sottoscritta da entrambi i fratelli, responsabili comuni di un'unica bottega.
Vari pagamenti si susseguirono fino al 1474-75, ma ancora nel 1480 l'opera non era stata completata: il 2 maggio Cristoforo da Lendinara e Pietro Antonio degli Abati, per conto dei frati, ed Agnolo, dall'altra, furono chiamati a valutare la parte già dipinta e quanto rimaneva da fare, essendo probabilmente morto Bartolomeo, che aveva infatti testato il 3 nov. 1479. Sono stati riconosciuti un frammento dello scomparto centrale, una Madonna col Bambino del Musée des beaux-arts di Strasburgo (già attribuita a Bartolomeo dal Venturi, 1914) ed un pannello della predella prevista dal contratto, S. Domenico che risana Napoleone Orsini, al Metropolitan Museum di New York (Christiansen, 1983).
Il Vasari (Le vite ... [1568], a cura di G. Milanesi, VI, Firenze 1881, p. 481) aveva visto questa pala insieme con altre tre, sugli altari addossati al tramezzo della stessa chiesa: "quattro tavole ... bellissime e lavorate con diligenza", di cui ignorava l'autore. Il complesso venne smantellato con la demolizione del tramezzo, nel 1601-02, e definitivamente disperso all'inizio del '700 (1708-10), quando si ricostruì la chiesa. Anche le pale del tramezzo, dedicate rispettivamente a s. Pietro martire, s. Tommaso d'Aquino e s. Vincenzo Ferrer, vennero dipinte dalla bottega di Agnolo e Bartolomeo, nonostante non sopravviva documentazione a proposito.
La critica (Venturi, 1927; Id., 1931; Ragghianti, 1939) ha infatti loro riconosciuto una serie di tavole, con Storie di s. Tommaso e di s. Vincenzo Ferrer, smembrate in diverse collezioni e già ricollegate sotto il nome del veronese Domenico Morone (B. Berenson, Nove pitture in cerca di un'attribuzione, in Dedalo, V [1924-25], pp. 601-42, 688-723, 745-75), che provengono verosimilmente dagli altari di S. Domenico.
La struttura di queste pale, con la figura stante del santo circondata ai lati e sopra da numerosi scomparti narrativi, riflette il modello già attestato a Modena dal dettagliato contratto, del 1433, per un'ancona in terracotta, dedicata a s. Pietro, che Benedetto avrebbe dovuto eseguire nella cappella Guidoni in duomo.
Sicura è la provenienza dal S. Domenico a Modena dell'ancona con S. Pietro martire, diciotto storie della sua vita e una tabella dedicatoria col santo e i committenti in adorazione del Crocifisso, passata nel palazzo ducale di Colorno, quindi nella Galleria nazionale di Parma. È questa la pala più antica della serie: se è giusto il riferimento ad Agnolo e Bartolomeo (Venturi, 1931), in luogo di quello a un mitico Simone Lamberti (A. O. Quintavalle, Precisazioni e restauri nella riordinata Galleria di Parma, in Bollettino d'arte, XXXI [1937], pp. 212-15), fondato sull'errata lettura di una scritta (Chiusa, 1989), deve essere stata dipinta molto presto, subito dopo la consacrazione della nuova chiesa nel 1451 (Benati, 1988). L'attribuzione è incoraggiata dal fatto che il donatore della pala, il mercante modenese Antonio Colombo (A. Venturi, L'ancona di s. Pietro martire nella Galleria di Parma, in L'Arte, XII [1909], p. 211), aveva commissionato a Bartolomeo la pittura della volta di S. Domenico, cui il pittore attendeva ancora nel 1460. In tal caso diventa opera chiave per individuare la formazione degli E., svoltasi tutta in direzione del Veneto (cui rimandano anche le architetture dipinte), in analogia con Giovan Francesco da Rimini documentato a Padova nel 1441-42 (Storie della Vergine del Louvre), e in rapporto con la cultura diffusa negli anni Quaranta tra Padova, Venezia e Verona intorno a Iacopo Bellini.
Della seconda pala, dedicata a s. Tommaso, si conservano solo sette storie (Brno, Moravska Galerie; New Haven, Yale University Museum; New York, Metropolitan Museum; già Parigi, coll. Parravicini; San Francisco, M. H. De Young Memorial Museum; Washington, National Gallery). Lo scomparto con la Predica di s. Tommaso, a Washington, presenta forti affinità col polittico dell'ospedale della Buona Morte, al punto che in queste due opere il Longhi (1940) ha tentato di riconoscere il solo Agnolo, attribuendo a Bartolomeo tutto il resto: una distinzione oggettiva che potrebbe pure spiegarsi con una diversità cronologica, prima che esecutiva (Ferretti, 1985; Benati, 1988). La cesura, da collocare intorno al 1470, è legata al crescente interesse a Modena per la cultura prospettica pierfrancescana, tramite l'attività del pittore e intarsiatore Cristoforo da Lendinara. Il lavoro dovrebbe allora essersi protratto nel corso degli anni '70, in parallelo all'esecuzione dell'altar maggiore; in ogni caso la commissione, che gli stemmi fanno risalire alla famiglia Rangoni, forse a seguito della morte di Gaspare Rangoni poco oltre il 1467 (Benati, 1988), deve porsi dopo il 1464, quando nell'inventario dei beni nella bottega d'Agnolo e Bartolomeo non si fa menzione di quest'opera.
Più tarda è la Pala di s. Vincenzo Ferrer, di cui si conserva lo scomparto centrale (Modena, seminario arcivescovile: Chiodi, 1951), un grande riquadro sommitale con la Predica di s. Vincenzo Ferrer (Oxford, Ashmolean Museum) e dodici Storie di s. Vincenzo Ferrer (Vienna, Kunsthistorisches Museum).
In continuità con gli altri due altari del tramezzo è il ricorso al fondo dorato, ma una sagoma riquadrata sostituisce le centine lobate delle precedenti pale. Inoltre le figure più numerose e ridotte di proporzione, il grande respiro atmosferico e spaziale delle vedute urbane indicano una data più avanzata e fanno presagire gli esiti lombardi del Bergognone (Ambrogio da Fossano).
Agnolo sopravvisse a Bartolomeo, morto quasi sicuramente tra il 1479 e il 1480: perciò fu probabilmente lui ad eseguire la Pala di s. Vincenzo Ferrer. Tra il 1482 e il 1483 fu in contatto con lo stampatore Enrico da Colonia (v. la voce relativa in questo stesso Dizionario). Nel 1487 teneva ancora bottega, a pigione dalla fabbrica di S. Giminiano. Il 23 luglio 1497 dettò testamento. Lo stesso anno, il 12 luglio, secondo la Cronaca del Lancillotto, morì pure Pellegrino.
Furono pittori anche due figli di Agnolo: Giorgio, già documentato nel 1464 come in età matura, perciò nato prima del 1439, che nel 1478 si stabilì con moglie e figli a Bologna, dove affittò una bottega dalla fabbrica di S. Petronio; Baldassare, documentato nel 1478 a Bologna, col fratello, ma nel 1486 attivo di nuovo a Modena, forse a fianco del padre ormai vecchio (in quell'anno fornì forzieri e chiavi per la duchessa Eleonora d'Este). A Bologna è attestato come pittore, nel 1490, un nipote di Giorgio, Annibale di Francesco di Giorgio (F. Malaguzzi Valeri, L'architettura in Bologna, Bologna 1899, p. 12), che sarebbe stato allievo di Francesco Francia e Lorenzo Costa (C. C. Malvasia, Felsina pittrice [1678], Bologna 1841, I, p. 56).
Nella Galleria Estense di Modena si conserva una copia del S. Giovannino di Raffaello, già nella chiesa dei Ss. Filippo e Giacomo (G. Tiraboschi, Biblioteca modenese, Modena 1786, VI, p. 411), firmata in Bologna da un Camillo Erri e datata 1577 (Pallucchini, 1945, p. 63): si ignora in quale relazione di parentela fosse col resto della famiglia. Pittrice sarebbe stata Ippolita Erri, monaca nel convento di S. Marco a Ferrara, morta nel 1661 (L. N. Cittadella, Documenti e illustrazioni riguardanti la storia artistica ferrarese, Ferrara 1868, p. 155).
Fonti e Bibl.: I. Lancillotto, Cronaca [1542-1543], a cura di C. Borghi, Parma 1862, p. 175; G. Tiraboschi, Notizie della Confraternita di S. Pietro martire, Modena 1789, p. 29; A. Venturi, La R. Galleria Estense in Modena, Modena 1883, p. 463; Id., L'oratorio dell'ospedale della Morte. Contributo alla storia artistica modenese, in Atti e mem. delle Rr. Deput. di storia patria per le prov. modenesi e parmensi, s. 3, III (1885), pp. 245-77; Id., La pittura modenese nel sec. XV, in Arch. stor. dell'arte, III (1890), pp. 379-83; Id., Nuovi documenti. I pittori degli E. e del R, ibid., VII (1894), pp. 132-43; G. Cantalamessa, R. Galleria e Medagliere estensi in Modena, in Le Gallerie nazionali italiane, I (1894), p. 47; A. Dondi, Notizie storiche ed artistiche del duomo di Modena; Modena 1896, p. 107; A. Venturi, Storia dell'arte italiana, VII, 3, Milano 194, pp. 1048-54; Id., Una fonte dimenticata di storia artistica. Il catalogo di Tommasino Lancilotto [1542-1543], in L'Arte, XXV (1922), p. 33; R. Van Marle, The development of the Italian schools of painting, IV, The Hague 1924, p. 391; E. P. Vicini, Benedetto degli E. pittore e plastico del secolo XV, in Mem. della R. Acc. di scienze, lettere ed arti in Modena, s. 4, I (1926), pp. 15-29; A. Venturi, Studi dal vero attraverso le raccolte artistiche d'Europa, Milano 1927, p. 37; Id., La pittura del Quattrocento nell'Emilia, Bologna 1931, pp. 12, 44; E. P. Vicini, Nota sul pittore Bartolomeo degli E., in Atti e mem. della R. Deput. di storia patria per le prov. modenesi, s. 7, VII (1932), pp. 123-26; R. Longhi, Officina ferrarese [1934], Firenze 1956, pp. 102, 152; E. P. Vicini, Del secondo castello degli Estensi in Modena, in Studi e documenti della R. Deput. di storia patria per le antiche prov. modenesi, II (1939), pp. 87-97; C. L. Ragghianti, Sul problema E.-Domenico Morone, in La Critica d'arte, II (1939), pp. I-V; R. Longhi, Ampliamenti nell'officina ferrarese [1940], Firenze 1956, p. 169; R. Pallucchini, I dipinti della Galleria Estense di Modena, Roma 1945, pp. 41-42, 63; A. M. Chiodi, Bartolomeo degli E. e i polittici domenicani, in Commentari, II (1951), pp. 17-25; M. C. Nannini, Guida all'arte pittorica modenese dalle origini al Bianchi Ferrari, in Atti e mem. della Deput. di storia patria per le antiche prov. modenesi, s. 8, IV (1952), pp. 80-97; R. Longhi, Nuoviampliamenti (1940-1956), in Officina ferrarese, Firenze 1956, p. 185; A. Ghidiglia Quintavalle, La Galleria Estense di Modena, Modena 1959, p. 34; F. Filippini-G. Zucchini, Miniatori e pittori a Bologna. Documenti del sec. XV, Roma 1968, pp. 27, 72 s.; C. Volpe, Vicende pittoriche dal gotico al manierismo, in Emilia Romagna, Milano 1972, p. 274; K. Christiansen, Early Renaissance narrative painting in Italy, in The Metropolitan Museum of art Bulletin, XLI (1983), 2, pp. 20 s.; M. Ferretti, L'immagine del duomo, in Lanfranco e Wiligelmo. Il duomo di Modena (catal.), Modena 1985, p. 582; O. Baracchi, Notizie inedite di storia artistica modenese tra '400e '500, in Atti e mem. della Deput. di storia patria per le antiche prov. modenesi, s. 9, VIII (1986), pp. 210, 213, 197-224; M. Ferretti, "Casamenti seu prospective". Le città dipinte, in Imago urbis. Dalla città reale alla città ideale, Milano 1986, p. 89; F. Zeri-E. E. Gardner, Italian paintings. A Catalogue of the Metropolitan Museum of art. North Italian school, Vicenza 1986, pp. 15 ss.; O. Baracchi, La cattedrale di Modena nei documenti della fabbrica di S. Geminiano, in Atti e mem. della Deput. di storia patria per le antiche prov. modenesi, s. 9, IX (1987), pp. 189-98; D. Benati, La pittura a Ferrara e nei domini estensi nel secondo Quattrocento. Parma e Piacenza, in La pittura in Italia. Il Quattrocento, Milano 1987, I, p. 267; II, pp. 621 s.; O. Pujmanova, Italské gotické a renesanční obrazy v československých sbírkách (Primitivi italiani in collezioni cecoslovacche), catal., [Praha] 1987, pp. 39-41; D. Benati, La bottega degli E. e la pittura del Rinascimento a Modena, Modena 1988; O. Baracchi-C. Giovannini, Ilduomo e la torre di Modena. Nuovi documenti e ricerche, Modena 1988, ad Indicem; V. Gheroldi, in Il tempo di Nicolò III, Modena 1988, pp. 105-108, 161; M. C. Chiusa, Sul dossale di S. Pietro martire: un'ipotesi di lettura, in Bollettino d'arte, s. 6, LXXVI (1989), pp. 109-34; E. Negro, La pittura a Modena nel Rinascimento, Modena 1989, pp. 8, 13; O. Baracchi, Miscellanea di inediti archivistici, in Atti e mem. della Deput. di storia patria per le antiche prov. modenesi, s. 11, XII (1990), pp. 141-45; A. Lugli, G. Mazzoni e la rinascita della terracotta nel Quattrocento, Torino 1990, pp. 8794, 99, 114; U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, VI, p. 13.