ESARCATO
Dopo la riconquista bizantina dell'Italia e la cacciata dei Goti, a seguito di una guerra protrattasi per quasi venti anni dal 535 al 554, Ravenna, liberata nel 540 dal magister militum Belisario, mantenne il rango di capitale, cui era assurta già dal sec. 5°, come sede politica e amministrativa della prefettura d'Italia e poi dell'Esarcato.Non si conosce esattamente la data d'istituzione dell'E.: nel 584 una lettera di papa Pelagio II menziona l'esarca residente a Ravenna; nel 585 è esarca Smaragdo, il primo di cui è documentato il nome.L'esarca, supremo rappresentante del governo bizantino, tra i più alti dignitari della corte di Costantinopoli, insignito della dignità di patricius, sostituiva l'imperatore a tutti gli effetti anche nella conferma dell'elezione del papa. La sua autorità si estendeva sul territorio dell'Italia peninsulare; verso la fine del sec. 7° il Bruttium (od. Calabria), il Salento e più tardi il ducato di Napoli, sottratti all'E., entrarono a far parte del tema di Sicilia.Il territorio della provincia bizantina, articolato in ducati retti da un dux, comprendeva, oltre all'E. propriamente detto, Istria, Veneto, Liguria, Pentapoli (Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia, Ancona), Perugia, Roma e Napoli (o Campania). Il resto dell'Italia centrosettentrionale e meridionale era occupato dai Longobardi, che gradualmente, nel corso del sec. 7°, invasero le città delle coste ligure e tirrenica determinando, in concomitanza con l'indebolimento del governo centrale e con il rinvigorirsi delle tendenze autonomistiche regionali, una decisiva riduzione dei possedimenti bizantini, che si restrinsero al ducato di Ferrara, alla Venezia marittima, all'E. propriamente detto, alla Pentapoli, ai ducati di Perugia, Roma e Napoli e alla penisola sorrentina con Amalfi. Nel sec. 8°, la progressiva avanzata dei Longobardi e la definitiva conquista di Ravenna da parte di Astolfo (751) segnarono la fine dell'E. e del governo bizantino in Italia, che sopravvisse nel tema di Sicilia fino alla conquista araba del 10° secolo.Per E. in senso stretto s'intende un'area geografica circoscritta, con una fisionomia autonoma, sotto l'influenza del potente arcivescovo di Ravenna, che tendeva a imporre la sua autorità temporale e religiosa, indipendente da Roma. Si tratta, a partire dalla conquista longobarda del 751 - nei momenti di maggiore affermazione del potere arcivescovile ravennate -, del territorio affacciato sull'Adriatico e delimitato a N e a S dai fiumi Po e Musone, a O dal corso del Panaro e dagli Appennini.Sui precedenti del pur breve periodo di autocefalia dal papa - che l'arcivescovo Mauro (648-671) ottenne nel 666 dall'imperatore Costante II (641-668), allora residente a Siracusa -, dopo il 751 e le trattative di papa Stefano III (752-757) con i Franchi, che nel 755 sfociarono nella restituzione alla Santa Sede dei territori dell'E., si acuì nell'ambito della Curia e dei potentiores ravennati l'antagonismo con il papato nella finalità di costituire un governo politico-amministrativo autonomo, su cui fondare le aspirazioni autocefaliche da Roma. Il comportamento antiromano dell'arcivescovo Sergio, che agiva veluti exarchus (Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis; MGH. SS rer. Lang, 1878, p. 380), sottolineava, oltre che il prestigio del metropolita di Ravenna, la sua politica di rivendicazione sui territori esarcali. Parimenti il successore di Sergio, l'arcivescovo Leone, che nel 775 si presentò a Carlo Magno come Italiae exarchus (G.A. de' Rossi, Historiarum Ravennatum libri X, Venezia 1589, p. 200), perseguiva la linea di aspirazione egemonica sull'Esarcato. Tuttavia l'effettiva supremazia di Roma e nel contempo il primato morale di Ravenna capitale si evince dalla spoliazione operata da Carlo Magno del palazzo di Teodorico, per la quale chiese e ottenne l'autorizzazione pontificia.All'epoca degli Ottoni - che risiedettero a Ravenna nel nuovo palazzo di Cesarea, costruito da Ottone II (973-983) per volere dell'imperatrice Teofano - la Chiesa di Ravenna raggiunse finalmente, tra il 999 e il 1001, il riconoscimento cui aveva aspirato da vari secoli, ossia il dominio temporale in perpetuum sui territori esarcali, a esclusione di Bologna e Faenza. Nel 1156 l'arcivescovo Anselmo si fregiò del titolo di exarchus consono all'autorità temporale sui possedimenti dell'Esarcato.È questa l'area geografica che interessa l'architettura e l'arte figurativa tra la seconda metà del sec. 6° e l'epoca degli Ottoni, in cui, specie nell'architettura, si colgono sintomi di quel rinnovamento che investe l'Europa.
Sono note le accese polemiche tra gli studiosi della prima metà del Novecento sulla definizione dell'arte dell'E., soprattutto in riferimento all'architettura. Si tratta di diatribe su questioni non di pura terminologia, ma in diretta relazione con i problemi di inquadramento stilistico e cronologico, specie dell'architettura, risolti o ipotizzati secondo prospettive diverse, in un contesto regionale oppure più ampio, e che si basano oltre che sugli esiti di interventi radicali che hanno interessato nell'Alto Medioevo le chiese di Ravenna, su quel consistente gruppo di edifici religiosi a una o a tre navate che caratterizzano l'architettura minore delle campagne, le pievi, segnate da particolarità strutturali e decorative (absidi poligonali all'esterno, scansione dei paramenti tramite lesene, archetti pensili) che si riconducono alla tradizione costruttiva ravennate del 5° e 6° secolo. Al di là delle definizioni proposte - architettura deutero-bizantina e poi ravennate seriore (Gerola, 1921), protoromanica (Galassi, 1928), preromanica (Salmi, 1936), esarcale (Fiocco, 1940-1941), tardoravennate (Mazzotti, 1958a) - che non possono esaurire la complessa problematica di questi edifici sommariamente indagati, Verzone (1940; 1961; 1962) - se per le testimonianze databili tra i secc. 7° e 9°, che giudica peraltro rarissime, sembra accettare la terminologia di Gerola (1921) per sottolinearne la filiazione bizantino-orientale - a partire dall'epoca degli Ottoni inserisce l'architettura ravennate, pur con le peculiarità strutturali e planimetriche che le sono proprie, nel più vasto quadro della primitiva arte romanica. È l'epoca delle innovazioni nei nuovi edifici, scompartiti da pilastri a T o con l'appendice rostrata verso le navatelle, e nelle antiche chiese, che vengono dotate di cripte a oratorio e di campanili, per lo più cilindrici. L'abside unica, tipica dell'architettura ravennate, mantiene, salvo poche eccezioni, la caratteristica tipologia poligonale all'esterno d'origine costantinopolitana; le finestre, già ampie e arcuate, divengono strette e a feritoia con strombatura semplice. A tali caratteri si uniscono, secondo Verzone (1940; 1961), particolarità decorative dei paramenti lesenati racchiudenti coppie o sequenze di archetti ciechi con mensola intermedia, che tuttavia Mazzotti (1958a), sul precedente più antico offerto dal battistero della cattedrale di Ravenna nella fase del vescovo Neone (458 ca.), rivendica come nota peculiare dell'architettura ravennate alla fine della Tarda Antichità, respingendo l'innovazione medievale. Mentre Galassi (1928; 1953) retrodata, secondo criteri del tutto personali, l'architettura del territorio ravennate, indicando precise cronologie ai secc. 7°, 8° e 9°, Verzone (1940) è invece propenso a inquadrarla nel movimento artistico del sec. 11°, pur riconoscendone caratteri che si riconducono a prototipi ravennati. Ritornando al problema stilistico e cronologico delle pievi, finora trattate singolarmente solo da Mazzotti (1958a) - che tuttavia, in mancanza di ritrovamenti archeologici, propende ad ancorare la struttura esistente alla data dei più antichi documenti -, non si può che rimandare ai suoi studi e, per quanto riguarda l'unica pieve indagata recentemente con metodi scientifici, alla monografia di Gelichi (Storia e archeologia, 1992). Si tratta del S. Giorgio di Argenta, fondato dall'arcivescovo Agnello negli ultimi anni del suo episcopato (ante 569), chiesa originariamente mononave (facies attuale) conclusa da un'abside poligonale all'esterno con ampie finestre ad arco, ampliata nel sec. 12°, epoca con la quale concorda la data del portale con le figurazioni dei Mesi (1122). A questa fase, in cui l'edificio venne ad assumere pianta a tre navate, scompartite da pilastri, appartiene il paramento, che reca ancora sul perimetrale nord una coppia di archetti ciechi e tracce di lesene ed è caratterizzato da finestre a feritoia nell'abside - che insiste su quella antica - e nella navata mediana, decorata da resti di affreschi coevi alla ristrutturazione della chiesa.Un altro edificio di grande interesse anche per il suo carattere tradizionale, a tre navate, scompartite da due filari di colonne con capitelli e pulvini di spoglio e abside poligonale, è la chiesa dell'abbazia di Pomposa, assegnata da Salmi (1936) a un periodo compreso tra la conquista longobarda di Ravenna (751) e la data del primo documento conservato riferito al monastero (874). Entro il 1026 la chiesa, dotata di cripta, assunse le dimensioni attuali mediante un ampliamento che incluse l'area del primitivo nartece. L'atrio di Mazulo magister e il campanile, che risale al 1063, completarono il rinnovamento dell'edificio. La chiesa altomedievale - che come ad Argenta era preceduta da una fase anteriore: una struttura absidata sottostante l'abside nord - e una vicina basilichetta mononave, sita presso il monastero, documentano, come in altri casi accertati, la precocità degli insediamenti religiosi nelle campagne e anche la continuità delle sequenze cronologiche relative a ristrutturazioni oppure a nuove fondazioni intorno al Mille.Per quanto riguarda Ravenna, già così ricca di monumenti del suo glorioso passato, oltre a edifici scomparsi - come il nuovo palazzo degli Ottoni a Cesarea o il primo palazzo Comunale presso l'episcopio, collegato con la signoria degli arcivescovi e di cui recenti scavi hanno rintracciato le fondazioni della torre - rimane in alzato solo la singolare facciata a due piani pertinente a un distrutto edificio identificato nella chiesa di S. Salvatore ad Calchi. Il prospetto è dotato di uno spazioso nartece che si apre sulla strada con uno stretto portico (esonartece) con ampio portale arcuato nella parte mediana in leggero aggetto, sormontato, al piano sovrastante, da una vasta nicchia tra due logge, da riferirsi a una fase successiva di lavori che hanno interessato la parte superiore della facciata. Tra nartece e aula a tre navate si inseriscono due vani per le scale a chiocciola che conducevano al primo piano. L'edificio, oggetto di ripetuti ma parziali saggi di scavo che resero possibile l'individuazione di pilastri a fasce sporgenti, dei divisori delle navate e della terminazione absidale, risulta di difficile assegnazione cronologica (Gerola, 1921: sec. 9°; Verzone, 1940; 1962: seconda metà del sec. 11°; Mazzotti, 1956: fase più antica della metà del sec. 9°; Rusconi, 1971: tre fasi databili tra il sec. 8° e l'11°-12°). Situata a S della teodoriciana S. Apollinare Nuovo, la chiesa - che ebbe funzione di cappella dell'attiguo palazzo, abitato anche dagli esarchi e per ultimo dal sovrano longobardo Astolfo - insiste su strutture pertinenti all'ambito palaziale e, come si evince dal toponimo che la indica (il locativo ad Calchi), sorse presso il monumentale ingresso del palazzo, che, a imitazione di quello del Grande Palazzo di Costantinopoli, la Chalké, ebbe il nome di Calchi. A questo riguardo non è forse da trascurare una probabile voluta coincidenza con quanto avvenne a Costantinopoli verso la fine del sec. 10°: la Chalké fu trasformata in chiesa per volere dell'imperatore Giovanni I Zimisce (969-976) e fu dedicata al Salvatore. Sembra dunque non azzardato individuare nella chiesa di S. Salvatore ad Calchi uno dei più tardi richiami alla metropoli, sulla scia di quelli che si riscontrano a Ravenna già a partire dal sec. 5°, e che in questo caso sarebbe comprensibile con la presenza dell'imperatrice Teofano, la principessa bizantina sposa nel 972 di Ottone II, che dopo la morte dell'imperatore divenne reggente (983-991) per il figlio Ottone III (983-1002). Una concomitanza cronologica, topografica e di dedica con la chiesa di Costantinopoli che potrebbe far luce sulla discussa attribuzione della chiesa ravennate.L'epoca ottoniana a Ravenna è caratterizzata da un grande fervore edilizio, documentato nei restauri e nel rinnovamento delle antiche chiese: lavori che determinarono trasformazioni nella concezione spaziale degli interni, mediante l'introduzione di cripte e di sopraelevazioni pavimentali e talvolta anche di colonnati, come nel caso della cattedrale e di S. Pietro Maggiore (od. S. Francesco), nonché nuove connotazioni degli esterni per la presenza del campanile, spesso cilindrico, secondo una tipologia che si riscontra anche in area veneto-lagunare e che forse precede quella a torre, a quanto si potrebbe evincere dall'originario campanile di S. Severo in Classe a struttura circolare, inglobato, come accade anche a Bologna nel campanile della cattedrale di S. Pietro, in uno successivo a pianta quadrata.Le cripte presentano la configurazione a oratorio che si distacca da quella più tradizionale a semi-anello, che a Ravenna è documentata in S. Apollinare in Classe e in S. Apollinare Nuovo in età carolingia, epoca in cui si registrano in minore misura restauri e rifacimenti a varie chiese ravennati. Una facies intermedia è rappresentata dalla cripta della basilica Ursiana, la cattedrale di Ravenna, databile intorno al 970, che trova riscontro in quella del duomo di Ivrea, fatta probabilmente erigere dal vescovo Varmondo tra il 966 e il 1002. Certamente questi lavori che interessarono in epoca ottoniana l'edilizia religiosa di Ravenna sono da collegarsi anche con l'istituzione di monasteri benedettini insediati presso gran parte delle antiche chiese. La sopraelevazione del piano pavimentale che si registra in quest'epoca dovette ovviare all'invasione dell'acqua di falda o agli effetti delle alluvioni ben documentate nelle sequenze stratigrafiche dei livelli d'uso di Santa Croce, chiesa che fu dotata verso il sec. 10° di cripta e di pavimento settile, un precedente della nota pavimentazione pomposiana, ma che denuncia una continuità, come del resto il pavimento medievale della basilica Ursiana, con i lastricati in marmo dei secc. 5° e 6° di cui un prezioso esempio è l'opus sectile della cappella arcivescovile d'epoca teodoriciana. Anche i superstiti pavimenti a mosaico d'epoca esarcale, come quello della chiesa di S. Severo in Classe, terminata verso la fine del sec. 6° dal vescovo Giovanni Romano (585-593), o d'epoca più recente, conservano un carattere tradizionale, come per es. il pavimento promosso nel 595-606 dall'arcivescovo Mariniano nel S. Giovanni Evangelista, il pavimento della cripta di S. Pietro Maggiore e quello della sesta esedra di S. Vitale.
Le sopravvivenze musive sono rare in epoca altomedievale e interessano soprattutto S. Apollinare in Classe, chiesa che a partire dall'episcopato di Giovanni Romano - che insieme all'esarca Smaragdo fece costruire nel nartece la cappella per le reliquie dei ss. Marco, Marcello e Felicola donate da Gregorio Magno - divenne, sul modello di S. Pietro in Vaticano a Roma, il mausoleo dei presuli ravennati. Nel presbiterio sono conservati i due riquadri (sec. 7°) raffiguranti le Offerte di Abramo, Abele e Melchisedec e la Concessione dei privilegi imperiali alla Chiesa ravennate; nell'arco trionfale le due palme nei rinfianchi e, di datazione controversa ma forse parte di un programma decorativo unitario, i due registri superiori con le simmetriche teorie dei dodici agnelli provenienti dalle città gemmate di Gerusalemme e Betlemme, sormontate dalla composizione teofanica con Cristo Pantocratore tra i simboli degli evangelisti. Le decorazioni monumentali superstiti a Ravenna e nel territorio riguardano soprattutto documenti pittorici che, pur rivelando una continuità di schemi compositivi, recano nuovi accenti formali. Così le vigorose figure e i volti dai tratti marcati di s. Apollinare e dell'arcivescovo Martino (810-817), con il nimbo quadrato dei viventi, ai lati di s. Pietro, nell'affresco proveniente dalla cappella del Sancta Sanctorum di S. Vitale (Ravenna, Mus. Naz.), allusivo alla leggendaria missione petrina con chiara intenzione glorificante dei vescovi di Ravenna. Altrove invece prevale un deciso linearismo e appiattimento che si evince dagli affreschi difficilmente leggibili che riguardano la Vita e il Martirio di s. Teodoro nell'ex cattedrale ariana (od. chiesa dello Spirito Santo), che assunse in epoca giustinianea l'intitolazione a Teodoro, santo di Amasea. I confronti stilistici con gli affreschi del primo atrio dell'abbazia di Pomposa - raffiguranti Salomone, figure di profeti e immagini clipeate di santi, databili tra i secc. 9° e 10° (Salmi, 1936) - fanno propendere per una cronologia al sec. 10° (Pasi, 1981). Di difficile collocazione sono gli affreschi della pieve di S. Martino a Barisano, presso Faenza, e il bell'Arcangelo già pertinente al muro settentrionale della cripta della chiesa ravennate di S. Pietro Maggiore, attualmente staccato e addossato alla parete orientale del campanile. Da altre pitture distrutte di Ravenna e di pievi (per es. S. Pancrazio), di cui rimangono solo riproduzioni fotografiche, e da affreschi più recenti del territorio ravennate (S. Giorgio ad Argenta, abbazia di Pomposa) e delle Marche (Pesaro, cripta di S. Decenzio) emerge la posizione preminente di questa tecnica pittorica nella decorazione monumentale, a sostituzione del tradizionale mosaico, che riprende vigore solo nel 1112 nei mosaici della cattedrale di Ravenna, che sono propri di quel clima artistico bizantineggiante collegato con Venezia e con l'arco altoadriatico.
Nell'ambito funerario, specie a Ravenna, ove sono conservati numerosi sarcofagi, si osserva in epoca esarcale una trasformazione tettonica della cassa in favore di un prevalere del puro decorativismo e una commistione delle tipologie che si erano affermate alla fine della Tarda Antichità (Kollwitz, Herdejuergen, 1979). Tuttavia una nota conservatrice è costituita dall'iconografia simbolico-cristologica o con animali araldici, che accomuna vari tipi di arredi, che si rileva a Ravenna per es. nel coperchio del sarcofago della famiglia Cavalli a S. Vitale, in quello da porta Nuova oggi in S. Francesco e a S. Apollinare in Classe nel sarcofago con agnelli cruciferi, nonché nella stessa chiesa dalla più complessa composizione dell'arca dell'arcivescovo Felice (m. nel 725) che si rifà al tipo architettonico. In ogni caso è evidente l'esito estremo del rilievo piatto, tipico dell'età giustinianea, che si esprime nelle approssimative sagome degli animali dell'ambone del sec. 6°-7° (Ravenna, Mus. Arcivescovile) dalla chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo - che come tipologia strutturale e decorativa deriva dall'ambone donato dall'arcivescovo Agnello alla basilica Ursiana - e di altri rilievi dell'area altoadriatica. Un accento conservatore caratterizza la scultura ravennate dopo la conquista bizantina; l'unica innovazione che segna forse un'impronta iconoclastica sono i sarcofagi del sec. 8° dei vescovi Giovanni e Grazioso (S. Apollinare in Classe), scanditi da pannelli decorati dalle tipiche croci con estremità a ricciolo, alternate a specchiature con l'iscrizione, o quelli più tardi di Gregorio e Maria e di Cirilla Arrenia (Ravenna, Mus. Arcivescovile), apparentati con il sarcofago in pietra d'Istria (sec. 9°) del vescovo Stefano nella cattedrale di Comacchio, caratterizzato da ampia tabula con l'iscrizione tra due croci, racchiusa da una cornice a matassa e delimitata, a mo' di pilastrini, da una fascia verticale a pale d'elica.Tra i secc. 8° e 9° si accentuò la pratica del reimpiego e rilavorazione di arche marmoree, preceduta verso la fine del sec. 6° e gli inizi del successivo dall'introduzione di un nuovo tipo di sarcofago in pietra, verosimilmente importato già lavorato dalle cave dell'opposta costa adriatica, che documenta, oltre la mancanza di nuovi sarcofagi in marmo, il ridotto orizzonte culturale di Ravenna in questo periodo. Si tratta di semplici casse caratterizzate dal simbolo cristologico sul lato frontale, che si erge al centro del listello di base, presenti anche in Puglia, e che trovano i naturali riscontri in Dalmazia. Parimenti un tipo iconografico con croci alternate da palmette-cipresso in campo libero, per es. il sarcofago proveniente da San Vittore presso Cesena (Ravenna, Mus. Naz.), o con la stessa composizione trina sotto arcate - per es. quello del Lapidario Marciano di Venezia (S. Apollonia, chiostro), quello nella cripta della chiesa di Sant'Ellero presso Galeata (Forlì) e quello nella Villa Imperiale di Pesaro - ebbe diffusione in epoca altomedievale nell'area altoadriatica in Dalmazia. Si tratta comunque di uno schema iconografico mediobizantino che caratterizza un gruppo di sarcofagi turchi di Saray e di Antalya e altri conservati a Sofia (Nat. arheologitcheski muz.; Feld, 1970). Riscontri con l'area orientale si propongono anche per altri temi, peraltro ampiamente diffusi, specie per le serie verticali di semipalmette affrontate entro uno schematico tralcio a forma di otto che - al pari di altri motivi vegetali a pale d'elica, liberi o composti nelle volute di un girale, e più tradizionali fasce di fiori quadripetali che campiscono serie di cerchielli collegati a forma di otto, alternanze di grappoli e foglie o rifasci a girali d'acanto, e del ben noto tema a intrecci di doppi o triplici giunchi più o meno complessi - si dispongono a ornare pilastrini, plutei, sarcofagi, cibori, a inquadrare specchiature decorate, come i due parapetti ricurvi dell'ambone della cattedrale di Voghenza del 749 o del 764 (Ferrara, Mus. del Duomo), che si apparentano, anche per la scansione in quattro riquadri determinati da due larghe fasce a croce, ai parapetti della fine del sec. 8° o degli inizi del 9° della cattedrale di Modena (Mus. Lapidario del Duomo) e all'ambone di Gurano (Pola, Arheološki muz. Istre). Un ambone analogo è conservato nel Mus. lapidario del chiostro della Canonica del duomo di Novara. È interessante osservare nell'iscrizione dell'ambone di Voghenza la definizione dell'arredo come pergum, che ripete la citazione più corretta di pyrgum dell'epigrafe dell'ambone di Agnello, latinizzazione del termine greco πύϱγοϚ usato per l'ambone di Santa Sofia di Costantinopoli da Paolo Silenziario (Descriptio ambonis, v. 52; CSHB, XXXVI, 1837). Richiami ravennati nella scansione ad architettura mistilinea (per es. ambone dell'ex cattedrale ariana) si osservano nell'ambone di S. Maria della Misericordia di Ancona (Mus. Diocesano d'Arte Sacra), ascritto in modo convincente (Russo, 1981) all'epoca dell'arcivescovo ravennate Sergio (744-769). I parapetti considerati dovevano appartenere verosimilmente al tipo di ambone a rampe opposte, il più diffuso, alla fine della Tarda Antichità, nell'area di Costantinopoli.La tipologia degli arredi liturgici rimane ancorata a forme del passato. Così gli altari a cippo e i cibori nei quali prevalgono la pianta quadrangolare e la copertura a cuspide; gli archetti, a seconda delle epoche, presentano una resa più o meno curata della decorazione che nel sec. 9° procedette verso forme ornamentali a intreccio; lo si rileva, oltre che in numerosi frammenti di cibori di Ravenna e del territorio esarcale, nell'esemplare dell'806-810 proveniente da S. Eleucadio in Classe (ora in S. Apollinare in Classe) e in quello di Bijaci (sec. 9°), ove permangono l'equilibrio compositivo tra spazi liberi e decorati, l'ornato che profila gli archetti e gli animali affrontati che campiscono gli spazi triangolari. Tra gli esemplari altomedievali emerge l'elegante archetto riutilizzato nella tomba di Egidio Foscherari (1289) accanto alla chiesa di S. Domenico a Bologna, databile all'epoca carolingia.Il panorama unitario che si rileva nella scultura tra Ravenna e l'arco altoadriatico emerge anche in epoca precedente nel caso di una particolare tipologia strutturale e decorativa di amboni che deve rifarsi a un verosimile prototipo di Costantinopoli - forse superstite nel citato ambone di Agnello - probabilmente in marmo proconnesio, che ha un'ampia documentazione a Ravenna in almeno altri cinque esemplari, oltre a quello ben conservato dei Ss. Giovanni e Paolo del 595-606 (Ravenna, Mus. Arcivescovile), e riscontri puntuali in alcuni frammenti della basilica eufrasiana di Parenzo (Zavičajni muz. Poreštine), della cattedrale di Zara e a Nevidane nell'isola di Pašman.Più tardi, in epoca ottoniana, si precisarono nell'ambito della scultura i rapporti già osservati da Salmi (1936) con i rilievi lagunari, anche nell'applicazione di forme e tipologie ornamentali inserite in paramenti murari: patere con animali araldici, croci, animali fantastici e altri elementi decorativi (rifasci a girali popolati) che si riscontrano a Pomposa e a Ravenna e che, al pari di nuovi temi e tecniche dell'opus sectile pavimentale, segnano nuovamente la nuova apertura verso l'area orientale della Ravenna degli Ottoni e la fortuna delle esperienze artistiche di Venezia.
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