ESCATOLOGIA (dal gr. ἔσχατος "ultimo" e λόγος; cfr. il lat. novissimae res, novissima e l'it. "i novissimi")
È la dottrina del destino ultimo dell'umanità e dell'individuo.
Il termine è di formazione recente e la teologia sistematica cattolica non l'ha ancora adottato; tuttavia si viene diffondendo sempre più tra gli storici delle dottrine e in genere nella storia delle religioni. Esso si fonda su passi biblici (Matteo, XII, 45 connesso con Isaia, II, 2 e Malachia, IV,1; cfr. anche Ecclesiastico VII, 36 [Volgata, 40]; XXVIII, 6, XXXVIII, 20 [Volgata, 21]). A differenza dei cosiddetti "novissimi" della teologia cristiana tradizionale, che trattano prevalentemente del destino oltremondano dell'individuo, il termine escatologia si applica altresì, e anzi con speciale riguardo, alla sorte dell'umanità intera, al mondo e alla sua fine, ecc.: argomenti di cui si trova almeno traccia nelle religioni più diverse. Si distingue pertanto, nelle credenze di tutti i popoli, un'escatologia individuale e un'escatologia collettiva.
L'escatologia collettiva non si riscontra nelle religioni naturali, o, se vi si trova, vi occupa un luogo secondario più mitico e filosofico che strettamente religioso, perché in quelle religioni l'attività mentale del gruppo è più preoccupata di ricercare le cause delle origini (v. cosmogonia) in quanto da queste si crede che dipenda l'assetto attuale dell'universo e la giustificazione delle origini e della storia del gruppo; a queste si ascrive anche il ritmo della vita ordinaria che preme di mantenere intatto e di ristabilire se spezzato. Mentre il destino oltremondano del gruppo come tale non ha alcun motivo attuale e pratico di affacciarsi alla speculazione del gruppo stesso; e tutto quanto esso può pensare circa il destino d'oltretomba si riferisce piuttosto alla sorte degl'individui.
Invece l'escatologia collettiva nasce in seno alle religioni storiche, a quelle cioè nate per opera di un riformatore storico (Buddha, Maometto, ecc.) o attribuite a un fondatore mitico (Dioniso, Osiride, Mitra, ecc.) il quale dà agli uomini tutta una nuova visione della vita, che impegna anche l'avvenire, descrivendo ad essi il destino felice che attende gli adepti e il castigo riservato per chi non aderisce alla parola salvatrice: destino che non investe i soli individui, ma tutto il gruppo e talora l'umanità intera, e che sarà preparato da segni precursori a norma dei fedeli e a monito degl'infedeli. Tra le religioni extrabibliche quelle che hanno un'escatologia collettiva sono lo zoroastrismo e l'islamismo (il buddhismo ha un'escatologia cosmica extrareligiosa); tra le religioni bibliche il giudaismo post-esilico e il cristianesimo (v. sotto).
Religioni extrabibliche.
Escatologia individuale. - I primitivi. - Nelle religioni naturali, la vita oltremondana è in genere immaginata come una prosecuzione umbratile della vita terrena, dove si mantengono le distinzioni sociali godute in vita, e si esercitano le medesime occupazioni che nel mondo dei vivi; perciò i riti funerarî impongono di fornire al morto gli utensili, le vesti, gli animali, gli schiavi, le donne che ebbe da vivo. L'ambiente oltremondano riproduce più o meno quello geografico dove il gruppo vive, ed è collocato in regioni diverse: isole in mezzo al mare, montagne, luoghi sotterranei, astri, secondo che il gruppo è marinaro o pastore, crematore o inumatore dei morti, ecc. Questo luogo è collocato in genere a occidente, dove il sole sparisce, ma talvolta anche in altre direzioni, determinate dalle condizioni geografiche del paese. Quello che preme a ogni modo è di fissare una netta separazione tra il mondo dei vivi e quello dei morti. L'idea di riunire tutti i morti in un unico luogo sotterraneo, fuori delle vie dove camminano i vivi, si deve a un progresso della vita sociale e delle conoscenze geografiche. E di fatto gl'inferi come dimora delle anime li troviamo nei popoli dell'antico Oriente (arallu, she'ōl) e classici (Ade, Orco). Al progresso morale, parallelo a quello sociale, si debbono le idee relative al premio o alle pene riservate ai defunti. Le pene soprattutto sono più applicate ai rei di colpe puramente rituali o legali (mancata iniziazione, mancati riti funebri, violazioni involontarie d'interdizioni sacre morte violenta o dovuta ad animali speciali o ad altri agenti o malattie magicamente temibili) che non a colpe di carattere morale (trasgressione delle leggi tribali, delle norme sessuali, degl'imperativi della coscienza). Per i popoli primitivi, dato l'immenso e unifomie materiale, non è possibile dar qui un'esemplificazione che si troverà amplissima nell'opera del Frazer (v. Bibliografia).
Estremo Oriente. - Nella Cina confuciana, nonostante la venerazione degli spiriti degli antenati, non esiste una credenza nella vita oltremondana. I morti vivono nella memoria dei discendenti, che prestano a essi il culto della pietà filiale; ma non v'è traccia di un luogo destinato ai defunti. Il medesimo si dica del Giappone shintoista. Il buddhismo, penetrato in entrambi i paesi nella forma mahayanica (v. buddhismo), ha orientato gli spiriti verso le preoccupazioni oltremondane, ma secondo quella visione che gli è propria, basata sull'impermanenza dell'io individuale, e sboccante, attraverso le trasmigrazioni (metempsicosi), nel Nirvāna.
Egitto. - L'Egitto è stato tutto preso dalla visione della vita oltremondana, come ci è attestato dai documenti e monumenti superstiti. Alla morte il koi (ka) o soffio vitale, perfettamente uguale all'uomo e suo doppio, si allontana dal cadavere, ma ama di ritrovare le condizioni sperimentate in vita: donde l'importanza data alla conservazione del cadavere (imbalsamazione) e ai riti della sepoltura. Il regno dei morti si trova all'occidente (Amenti) e l'anima vi giunge sulla barca solare, dopo aver vinto molti ostacoli, cosa che il defunto può fare grazie ai formularî che furono messi nella sua tomba. Giunto avanti a Osiride e ai quarantadue giudici, dopo la confessione dei peccati resa dal defunto, si pesa sulla bilancia il suo cuore. I morti giustificati entrano nel regno di Osiride, in quei "campi di Ye'lew" fatti a immagine della terra d'Egitto, mentre i non giustificati subiscono un castigo.
Babilonia e Assiria. - L'uomo ridotto allo stato di ombra (edimmu) entra nell'arallu, tetro e polveroso luogo sotterraneo, situato ad occidente, dove regna Nergal con la consorte Ereshkigal. Tutti vi hanno la medesima sorte, ma più triste vi è quella di coloro che nel mondo dei vivi sono abbandonati. Pure, fra le tenebre dell'arallu scorre la fonte di vita che Ishtar va cercando per Tammūz.
Siria. - Presso gli Aramei l'iscrizione di Hadad allude a un soggiorno delle anime dei pii presso la divinità in compagnia della quale bevono. Iscrizioni fenicie dei re sacerdoti Eshmun‛azar e Tabnit imprecano contro i violatori della tomba, che non abbiano a godere riposo tra i rĕphā'īm ("ombre").
India. - Per l'Indiano dei tempi vedici, al momento della morte, quando l'alito vitale (asu) abbandona il corpo, l'anima (manas) se ne va nel mondo dei "padri" su cui regna Yama, il primo degli uomini che ha conosciuto la morte, e in cui si vive la stessa vita che si menava sulla terra. Non mancano però tracce della credenza in un luogo di tormento per i malvagi. In questa epoca non vi è ancora traccia della dottrina della metempsicosi, che appare invece nell'epoca brahmanica, e che vede il destino dell'anima prolungarsi in innumerevoli reincarnazioni, non collegate dalla coscienza permanente dell'io, ma condizionate dalla qualità delle azioni commesse nella vita antecedente. Questa pesante catena del karma si spezzerà solo quando l'anima individuale sarà pervenuta alla comprensione dell'anima universale, perdendosi in essa come una goccia ml mare. Nell'epoca neobrahmanica o induistica attuale, sopravvenuta in india dopo la decadenza del buddhismo (molto meno filosofica dell'antico bramahnesimo e assai più ricca di elementi popolari) si trova la credenza in un luogo di tormenti (Naraka o Patala), diviso in sette riparti a seconda dei peccati, su cui regna Yama, che è anche il giudice dei morti. I tormenti non sono eterni, ma durano quanto un certo ciclo del tempo (kali), dopo il quale ogni cosa ricomincerà. Vi sono anche luoghi di beatitudine, dove le anime pervengono dopo avere scontato le loro colpe attraverso le trasmigrazioni. Essi sono quattro: Swarga o paradiso di Indra, Vaikuntha o paradiso di Vishnu, Kailasa o paradiso di Siva, Sattya-loka o paradiso di Brahma, riservato in modo particolare ai Brahmani. Neppure questi paradisi sono eterni, poiché l'anima, dopo avervi goduto più o meno a lungo, è riafferrata dalla ruota della trasmigrazione, dalla quale non si libererà definitivamente se non per rientrare nell'anima universale (Parabrahma): è ciò che gli Indù chiamano Moksha (liberazione) e Mukti (fine ultimo).
Buddhismo. - Nel buddhismo la sorte oltremondana dei singoli è legata al suo concetto dell'anima di cui nega la permanenza, e alla credenza della trasmigrazione per cui si passa di esistenza in esistenza a seconda delle azioni commesse nella vita anteriore (karma). Soltanto quando si è penetrata l'essenza del buddhismo, cioè la conoscenza del dolore e del male della vita, si può raggiungere lo scopo supremo, cioè l'estinzione del dolore nel Nirvāna; che è appunto quello stato difficilmente precisabile, perché il Buddha stesso non è stato esplicito su questo punto, in cui avviene l'estinzione della sete di vivere.
Mazdeismo. - Appena l'anima del pio mazdeo è libera dai legami del corpo, si trova in preda alle insidie demoniache, da cui la liberà Sraosha la buona guida, guidandola in capo al ponte Cinvat fra la terra e il cielo. Quivi l'attende il giudizio formulato da Mitra, dopo aver pesato le azioni del defunto. Se l'anima è in difetto, precipita dal ponte nell'abisso, se è giustificata entra nel paradiso preannunciatole, nei tre giorni dopo la morte, da una vergine bellissima raffigurante la religione "dei buoni pensieri, delle buone parole e delle buone azioni".
Grecia. - In Omero l'anima, separata dal corpo e ridotta a una pallida ombra (εἴδωλον, σκιά), scende nell'Ade (v.), situato entro le viscere della terra (Iliade) o mll'estremo occidente (Odissea). Quivi mena una vita incolore, che soltanto il sangue delle vittime da essa gustato può temporaneamente ravvivare. Di compensi o pene ultramondane non vi è traccia in Omero, giacché i "campi elisî" riservati a Menelao (Od., IV, 561-69) significano l'immortalità cui può essere assunto come genero di Zeus; e il passo che descrive le pene eterne che soffrono Tizio, Tantalo e Sisifo (Od., XI, 566-632) è un'interpolazione che manifesta l'influsso delle dottrine orfiche.
L'orfismo si sviluppa nel sec. VII a. C., epoca di doloroso travaglio sociale per la Grecia, travaglio da cui promette la liberazione in luna beata visione di vita oltremondana, dove l'anima arriverà dopo una serie di trasmigrazioni (παλιγγενεδία). Sull'Ade orfico regnano Eubuleo (Dioniso infero), Euklees (Plutone) e Persefone. Appena varcato l'ingresso si trovano due vie che si diramano dalla principale a destra e a sinistra a foggia di Y e menano ai prati fioriti dei buoni e al Tartaro punitore dei malvagi. Vi sgorga la fonte di Mnemosine, sorgente della vita, concetto tutto proprio degli orfici, che, abbandonata la prigione del corpo vanno ad attingere in Dioniso (Zagreo) la scaturigine della vita divina. Le anime degli orfici devono lasciar la via a sinistra, dov'è una fonte ombreggiata da un cipresso bianco, e imboccare quella di destra, dov'è la fonte di Mnemosine. Quivi dànno la parola d'ordine ai custodi e sono lasciate passare per recarsi a subire il giudizio di Persefone che li destina al soggiorno nei prati fioriti in attesa del finale ritorno a Dioniso Zagreo (cfr. Lam. aureae; Plat. Phaed., 62, 113; Resp., II, 364; Pind., Olymp., II, 56). Tutti i misteri dell'antichità, sia quelli propriamente ellenici (eleusinî, orfico-dionisiaci, cabirici), sia quelli ellenistici (di Attis e Cibele, di Osiride e Iside, di Adone), sono un'esaltazione della vita oltremondana e dell'immortalità beata, in quanto sono la sublimazione di un vecchio rito agrario, dove la morte e la rinascita della vegetazione è stata presa a simbolo della rinascita dell'anima a vita immortale (v. misteri).
Roma. - Secondo i Romani l'anima dopo la morte scende in un luogo sotterraneo (Orcus) dove vive una vita umbratile, ma simile a quella menata sulla terra e che è resa più tollerabile qualora i superstiti la ravvivino con sacrifici e offerte funerarie: donde la scrupolosa religione delle tombe. Negl'inferi regnano Orcus, paurosa divinità, rimasta come spauracchio nel folklore italiano (Orco), Mania, Larenta, Vediovis. Questa dimora sotterranea è messa in comunicazione con i vivi attraverso il mundus o fossa rituale situata sul Palatino, che veniva aperta tre volte l'anno.
La visione assai triste dell'oltretomba romano fu oltremodo abbellita quando le correnti orfiche e neopitagoriche penetrarono in Roma nell'ultimo secolo della repubblica. Un saggio mirabile se ne ha nel Somnium Scipionis, inserito da Cicerone nel sesto libro della Repubblica, che è tutta un'esaltazione dell'immortalità dell'anima e della sua sorte beata di fronte alle miserie della vita presente. Una poetica descrizione, basata sempre sulle fonti orfiche, si ha nel sesto libro dell'Eneide. Penetrato negl'inferi in una caverna che si profonda nella terra presso il lago di Averno, Enea traghetta l'Acheronte e, dopo aver attraversato una specie di antinferno ove sono i pargoli, gli uccisi ingiustamente, le vittime di fatali passioni, giunge a un punto ove la via si biforca. Il ramo che volge a sinistra conduce al Tartaro, visibile da lungi come una triplice muraglia lambita all'esterno da un fiume di fuoco (Flegetonte). Enea non vi s'inoltra, ma ne ascolta la descrizione dalla sibilla. Il ramo che volge a destra conduce ai Campi Elisî dove le anime dei pii non solo si compiacciono delle antiche occupazioni e godono dei campi fioriti e dei boschetti di allo10 pervasi da un'atmosfera piena di luce, ma, conforme alla dottrina orfico-pitagorica, godono anche di contemplare l'ordine dell'universo e di ascoltare l'armonia delle sfere.
Questa visione orfico-pitagorica dell'anima e del suo destino è quella che tien desta la speranza dell'immortalità durante l'epoca imperiale e culmina nel sec. III nel grandioso sincretismo della teologia solare, che vede nel sole il principio della vita universale e in lui tutto in definitiva fa rientrare. L'anima è una particella della luce solare la quale irradia nella materia corporea e al momento della morte se ne sprigiona per venir riassorbita nella sostanza del sole.
Etruschi. - Gli Etruschi hanno avuto dell'oltretomba una visione fosca, che si rispecchia nei monumenti superstiti della loro arte funeraria. Tra le figurazioni colpisce la frequente riproduzione di tutto un mondo di demoni di origine greca ma che su suolo etrusco hanno assunto un aspetto più truce: Charuns, demonio spesso alato, con la mano armata di un terribile martello; Tuchulcha, altro demonio alato, con orecchie equine, bocca a rostro di avvoltoio e due serpenti sul capo; Aita (Plutone) e Phersepnei (Persefone), i due re del mondo sotterraneo, le Lase (Parche) che recidono il filo della vita. L'anima si reca nell'oscura dimora, scortata da questi demoni, ora a piedi, ora a cavallo o su un carro.
Celti. - I Celti di Gallia credevano a una regione situata a occidente della Gallia nelle isole dell'oceano e indicata dagli autori con nome vago, orbe alio, ad alios, ad inferos, senza particolare descrizione della regione. I Celti insulari invece (Irlanda, Galles e Scozia) ci hanno lasciato nei loro documenti medievali (cicli mitologici di Ulster, di Leinster) una descrizione oltremodo fantastica del loro oltretomba. Agli Elisî celtici, visibili a distanza grazie a una grande torre trasparente, si arriva dal mare su una barca di vetro. Ivi sono praterie dagli alberi con rami d'argento e con frutti d'oro, i quali urtandosi producono un suono melodioso che fa dimenticare ogni male. Vino e idromele scorrono sulla terra e birra piove dal cielo, innaffiando i giocondi banchetti ove si mangiano grassi porci. Ma negli Elisî celtici non si banchetta soltanto, bensì si combatte anche gagliardamente, in tenzoni animose, simili a quelle di cui tanto si compiacciono i guerrieri celti abitando la terra.
Slavi. - Gli Slavi avevano la radice nav per indicare il regno dei morti e raj per indicare una regione felice per le anime dei trapassati. Mancano però testi a conferma.
Germani. - Si giunge al mondo infero dei Germani (Nifelheim) passando sopra un ponte (Gjallar) attraverso il fiume Gjal. Vi regna la dea Hel e tutte le anime sono destinate a calarvi, perfino quelle di Balder e di Brunilde. È un luogo triste e sinistro. Per gli eroi morti in guerra vi è il Walhalla, dove si beve e si banchetta intorno a Odino. In nessuno di questi due luoghi le anime dimoreranno perennemente, ma solo sino alla fire del mondo.
Islamismo. - Dopo la morte il defunto sarà interrogato da due angeli, Munkar e Nakīr, assisi uno a destra e uno a sinistra nella sua tomba. Non è chiaro il modo con il quale Maometto concepisce la condizione dell'anima tra la morte e la risurrezione finale.
Escatologia collettiva. - La fine del mondo. - Mentre dappertutto s'incontrano miti e leggende riguardanti le prime origini delle cose, rari sono quelli che riguardano la fine del mondo: l'uomo, come si è detto, sente fortemente il bisogno di spiegarsi la genesi di ciò che è, e trova naturale che debba rimanere tale quale è.
In origine anche gli Ebrei e i Greci non hanno conosciuto alcuna dottrina sulla fine del mondo. Insieme con le cause generali che hanno determinato il formarsi di un'escatologia collettiva, per lo più lo spunto alla formazione dei varî miti intorno alla fine del mondo è stato dato dalle grandi catastrofi prodotte dall'improvviso scatenarsi delle forze elementari della natura: inondazioni, eruzioni di vulcani, incendî specie di boschi o praterie, terremoti, ecc. Le rovine particolari e locali hanno fatto credere possibile la rovina generale e finale, e hanno somministmto materia per la sua descrizione. Anche nella letteratura apocalittica del tardo giudaismo e nel Nuovo Testamento varî sono i mezzi di distruzione a cui si pensa come ad agenti o a segni premonitori della rovina finale del mondo attuale: l'incendio (II Pietro, III, 7-10), l'inondazione (II Pietro, III, 6), l'oscurarsi del sole e della luna, il terremoto, la pestilenza, la fame, la guerra e la rivoluzione, la persecuzione dei fedeli, la venuta dell'Anticristo (v.), ecc. (Marco, XIII, 7 segg. e paralleli).
Un'altra fonte delle credenze sulla fine del mondo è il corso periodico della natura, per cui pare che al termine di ogni periodo essa si avvicini alla sua fine. È noto come alcune tribù selvagge sono prese realmente dal timore che il sole nel solstizio d'inverno stia per morire, onde offrono sacrifizî e celebrano riti magici per la sua rinascita. Ora, se i popoli incolti conoscono soltanto i periodi corti delle rivoluzioni celesti, cioè i giorni, i mesi e gli anni, i popoli civili, anche dell'antichità, in specie gli Egiziani e i Babilonesi, osservando il ricorso periodico delle congiunzioni del sole, della luna e degli altri pianeti tra loro e con le stelle fisse, poterono pensare a periodi cosmici della durata di migliaia e migliaia d'anni. Secondo Beroso (presso Sen., Nat. quaest., III, 29), che certamente si riferisce a una dottrina babilonese, il mondo s'incendierà quando tutti i pianeti si troveranno uniti nella costellazione del Cancro, e quando di nuovo si congiungeramo nel Capricorno verrà il diluvio; si avrà dunque un'alternativa, a grandi distanze, di distruzione e ricreazione del mondo, quella per mezzo del fuoco e questa per mezzo dell'acqua. Questa idea con diverse variazioni ricorre in molti scrittori antichi, specialmente negli stoici (v. sotto). In generale, però, in tutte queste diverse concezioni dei periodi cosmici non si tratta di una vera e assoluta fine del mondo, ma di una fine del mondo relativa: a un periodo succede l'altro, a una forma si sostituisce l'altra, regolarmente e incessantemente.
Mazdeismo. - Anche i Persiani conoscevano un grande periodo cosmico di 12.000 anni (correlativo ai 12 segni dello zodiaco), diviso in quattro periodi di 3000 anni ciascuno (corrispondenti alle quattro stagioni); ma la concezione persiana differisce essenzialmente dalle altre concezioni "cicliche" in questo, che i periodi successivi non sono semplici ripetizioni dei precedenti, ma costituiscono altrettante tappe progressive nella storia del mondo. Ché, oltre alla salvezza individuale (v. sopra), il mazdeismo vuole la salvezza cosmica e attende la venuta di un regno in cui il dominio del male sarà abbattuto e la felicità dei giusti assicurata per sempre. Questo regno verrà 3000 anni dopo Zarathustra, il quale è venuto 3000 anni dopo la creazione del primo uomo Gâyômeretan, e si trova così nel centro del tempo creato. La fine sarà annunziata da segni precursori: prodigi nel cielo, terremoti e tempeste sulla terra. Nemici violenti si scateneranno sull'Irān e i demoni vi si daranno convegno per la grande battaglia che sarà vittoriosamente condotta da Saoshyant "il salvatore", concepito da una vergine durante un bagno nel lago Khaunsava, dov'è celato da millennî il seme di Zarathustra. E allora sarà la fine del mondo (frashokereti). Zarathustra movente dall'oriente e celebrare un sacrifizio che ridurrà all'impotenza i dêvi (demoni) che saranno distrutti dagli spiriti buoni, mentre Ahura Mazdah (Ōrmazd) annienterà Angra Manyu (Ahriman). Seguirà la risurrezione dei morti, il giudizio finale con l'entrata dei buoni nel paradiso e dei cattivi nell'inferno, ma solo per tre giorni. Poi tutti gli elementi del mondo si fonderanno in un grande fiume incandescente che purificherà gli empî e darà l'oblio del passato. Così, distrutte le potenze del male, la consumazione nel bene sarà perfetta e l'immortalità felice garantita per sempre.
Manicheismo. - Anche il manicheismo - che derivando insieme dallo gnosticismo e dallo zoroastrismo concepisce tutta la vita come una lotta dei due opposti principî del bene e del male - descrive la fine del mondo come la suprema lotta del principio luminoso guidato dal "terzo antico" contro quell'elemento tenebroso che sarà rimasto non solo sulla terra ma in quelle anime che non hanno accettato la predicazione manichea, mentre le altre, già purificate e trasportate da vascelli luminosi nel regno della luce, formano colà "la colonna di gloria". Queste anime tenebrose, dopo aver perduto nel fuoco cosmico purificatore l'ultima particella di luce, rimarranno come una massa amorfa e confusa (bōlos) di fronte alla quale splenderà per sempre la sfera delle anime rientrate nella luce.
Brahmanesimo. - Conforme alla sua visione cosmica immanentistica, attraverso il ciclo perpetuo di distruzioni e di rinascite il brahmanesimo non ammette un'escatologia finale che prepari un nuovo ordine di cose definitivo. Esso ammette quattro età (yuga) del mondo chiamate kṛta, tretā, dvāpara e kali, le prime tre puramente mitiche, l'ultima corrispondente all'età storica dell'India. Queste età si calcolano in 1200 anni divini pari a 4.320.000 anni comuni, dato che un anno divino equivale a 360 anni. Cento di questi periodi (di 1200 anni divini) costituiscono un kalpa, e alla fine di ogni kalpa avviene un'apparente distruzione del mondo da cui non si salvano né la natura, né gli uomini, né gli dei, che vengono tutti riassorbiti in Brahma, cioè nella sostanza universale. Segue un lungo sonno di Brahma, al risveglio del quale la serie delle cose ricominceremo dalla prima età.
Segni premoniton annunzieranno la fine dell'epoca attuale (kali), caratterizzata dalla miseria e dal dolore: ingiustizia, crudeltà, predominio delle caste inferiori, finché il dio distruttore Siva non porrà fine alle cose con il fuoco e con l'acqua diluviale.
Buddhismo. - Anche il tardo buddhismo ha accettato l'idea del kalpa con il relativo cataclisma, dopo il quale avverte la rinascita.
Stoicismo. - Gli stoici, la cui visione escatologica non è mai stata popolare, vedevano nel fuoco, secondo la dottrina eraclitea, la causa animatrice della materia e determinatrice della successione degli eventi, in una serie di cicli; e pensavano che alla fine di ogni ciclo tutti gli elementi del mondo venissero riassorbiti dal fuoco in una generale conflagrazione (ἐκπύρωσις), dopo la quale tutto sarebbe ricominciato di nuovo con vicenda infinita. L'anima, che è un soffio infiammato (πνεῦμα πυρῶδες), non sfugge a questa legge e rientra nel fuoco animatore per ricominciare, alla nuova palingenesi, una vita in tutto simile a quella precedente.
Islām. - Esso concepisce la fine delle cose in maniera non dissimile dall'escatologia giudaica e cristiana (v. sotto), da cui quella maomettana deriva. Quando sarà giunta l'ultima ora del mondo - afferma il Corano (CI, 3,4) - gli uomini saranno dispersi come farfalle, le montagne saranno come fiocchi di lana. Dio allora giudicherà gli uomini pesandoli su una grande bilancia. Se l'esito è favorevole, il buon musulmano potrà passare sul ponte Ṣirāṭ steso sull'abisso, ed entrerà nel paradiso, concepito come un giardino pieno di delizie per i sensi e per lo spirito, che si trova alla destra di Allāh; l'infedele o il cattivo musulmano precipiteranno dal ponte nell'abisso infernale pieno di fuoco, il primo per sempre, il secondo per un certo periodo di tempo. L'inferno è concepito ora come una cosa mobile che Allāh farà avanzare il giorno del giudizio universale (Cor., LXXXIX, 24); ora più staticamente diviso in sette cerchi e con sette porte (Cor., XV, 44).
Per i Germani, v. creposcolo degli dei.
Religioni bibliche.
Ebraismo. - Accanto all'escatologia individuale, nella collettiva si possono distinguere due aspetti: il primo riguarda il destino del popolo d'Israele, il secondo quello di tutta l'umanità e del mondo. Ma quest'ultimo aspetto si risolve nel precedente: il resto della umanità fu sempre considerato dal popolo d'Israele dal punto di vista della propria storia e del proprio avvenire.
Circa l'escatologia individuale, l'Antico Testamento è piuttosto vago. Le responsabilità morali sono considerate più dal punto di vista terreno che da quello ultraterreno. I morti sono considerati come pallide ombre (rĕphā'īm)); la loro dimora (she'ōl, termine di cui è discussa la radice e il significato primitivo) appare concepita in maniera imprecisa e nebulosa.
Una descrizione di essa, poetica e fondata su dati tradizionali, è in Isaia, XIV, 9 segg., ove è presentata la discesa nello shĕ'ōl del re di Babilonia, che ivi è incontrato e schernito dagli altri grandi della terra scesi colà prima di lui. Più frequenti, ma più brevi, sono gli accenni di Giobbe e dei Salmi. Quanto a una sanzione ultraterrena, implicante un lungo stato o di punizione o di premio in relazione con le azioni della vita terrena, non si trovano testi espliciti e chiari che siano certamente anteriori all'esilio babilonese (sec. VI a. C.). Alcuni passi di Ezechiele, Proverbî, Ecclesiaste sembrano accennare alla diversità di destino ultraterreno; ma con ciò già si entra in quel patrimonio di concetti che saranno sempre più sviluppati nell'epoca successiva all'esilio, per raggiungere ai tempi dei Maccabei (sec. II a. C.) - e forse anche prima - una precisazione ormai immutabile nei suoi fondamenti. Vi è un luogo ultraterreno di premio e riposo per i giusti, chiamato spesso il "seno d'Abramo" vi è un luogo di pena e tormento per i malvagi, chiamato per lo più "gehenna" (dall'ebraico Gē-Hinnom, "valle [dei figli] di Hinnom", che era la valle a sud di Gerusalemme ove si scaricavano le immondizie della città, e perciò vi si tenevano sempre accesi dei fuochi).
Più importante è l'escatologia collettiva, quale si manifesta in scritti canonici ed extracanonici, in opere appartenenti alla letteratura apocalittica (per es., Isaia, XXIV-XXVII; Gioele; Daniele, IX-XII). Già il profetismo, che agì specialmente contro la monarchia d'Israele e il sacerdozio ufficiale troppo indulgenti verso la progressiva corruzione dell'antico culto di Iahvè, mentre minacciava castighi divini, faceva brillare la speranza che un giorno il popolo sarebbe tornato all'obbedienza della legge di Dio, ottenendo in premio una duratura felicità. Da questa predicazione si svolsero i due concetti religiosi fondamentali della letteratura apocalittica: giudizio finale di Iahvè e regno del messia.
Sulle varie forme assunte dall'aspettativa di un "giorno di Iahvè" in cui i giusti sarebbero stati retribuiti e i malvagi puniti, come sui varî segni premonitori della catastrofe, sul carattere del regno messianico, non concepito esclusivamente come l'epoca del trionfo nazionale d'Israele sugli altri popoli, ma anche come quello in cui la vera religione avrebbe regnato su tutta la terra (cfr. per es. Isaia, LXVI), v. messianismo. V. anche: apocalittica, letteratura; ebrei: Storia e religione.
Cristianesimo. - Escatologia individuale. - È compresa nei quattro termini della formula catechistica: morte, giudizio, inferno, paradiso. Anche la formula cattolica trascura il purgatorio, perché stato intermedio e temporaneo. Questi quattro termini sono chiamati, dal popolo e dalla teologia odierna, i "novissimi". La morte è considerata dalla dottrina cattolica sia come un fatto naturale postulato dall'unione dell'anima immortale con un corpo corruttibile, sia come una pena del peccato originale, sia come il termine, il traguardo definitivo del periodo di prova concesso da Dio nel chiamare il singolo alla vita terrena. Alla morte sfuggono solo Enoch ed Elia, trasferiti viventi da questa all'altra vita (Genesi, V, 24; II [IV] Re, II, 11; Ebrei, XI, 5), e quelli che saranno viventi alla fine del mondo, di cui parla S. Paolo (I Corinzî, XV, 51). Il "giudizio particolare", che ciascun' anima deve affrontare dinnanzi a Cristo giudice dopo la separazione dal corpo e che riguarda tutto il suo operato della vita terrena, è verità di fede, che ogni cristiano deve tenere (cfr. Ecclesiastico, XI, 28; Ebrei, IX, 27). L'esito di codesto giudizio particolare può essere o di condanna assoluta e definitiva (v. inferno), o (per i cattolici) di condanna relativa e temporanea (v. purgatorio), o di premio immediato ed eterno (v. paradiso). Il corpo non risorgerà che al giudizio universale, alla fine del mondo (v. sotto e v. resurrezione).
Escatologia collettiva. - I dati escatologici cristiani circa la fine del mondo non sono molti né molto precisi. Si possono raccogliere in queste affermazioni: ci sarà una fine del mondo; ne è ignoto il tempo esatto; ci saranno segni di preannungio; apparirà il Cristo a giudicare i vivi (cfr. I Cor., XV, 51) e i morti; i morti risorgeranno nei loro corpi dinnanzi al giudice divino; ci sarà la distruzione di questo mondo fisico e la creazione di un "nuovo mondo" (II Pietro, III, 13; Rom., VIII, 19; Apocalisse, XXI, 1 segg.).
Che il mondo fisico debba avere una fine è attestato in molti passi del Nuovo Testamento. I segni di preannuncio sono varî: il Vangelo dovrà essere predicato a tutto il mondo (Matt., XXIV, 14); i Giudei si convertiranno (Rom., XI, 25 segg); avverranno una grande apostasia (II Tess., II, 3 ss.), uri raffreddamento generale di carità (Luca, XVIII e paralleli), apparirà l'Anticristo (v.): tutto ciò accompagnato da catastrofi e immani calamità. Infine, circa la palingenesi del creato, assai scarso è il dato della rivelazione cristiana, e non è eccessivamente chiaro: si tratta dei tre passi citati. Inoltre, il magistero ecclesiastico non è mai intervenuto in questi riguardi, e la tradizione cattolica si è fatta sempre un dovere di non pretendere di conoscere ciò che non si può conoscere naturalmente né Cristo volle rivelare. Le opinioni numerosissime, emesse dagli esegeti nel commento a quei passi, restano opinioni private.
Una dibattuta e grave questione è quella del significato preciso, per gli scrittori del Nuovo Testamento e per lo stesso Gesù, della frase "regno di Dio", così spesso usata da potersi ravvisare in questa concezione uno dei capisaldi, se non il caposaldo, della predicazione evangelica. Che debba intendersi in senso strettamente escatologico, e che l'avvento del regno fosse presentito come imminente da Gesù e dai primi cristiani, fu sostenuto da varî critici indipendenti. La teologia cattolica non nega che il "regno di Dio", preannunciato e predicato da Gesù, sia essenziaimente escatologico; nega però, per varie ragioni, che esso sia esclusivamente tale. Un'altra questione riguarda la cosiddetta "parusia" (gr. παρουσία) o apparizione gloriosa del Cristo giudice nella fine del mondo. I passi evangelici che sembrano accennare a una sua imminenza sono variamente commentati e spiegati.
Rientra nell'escatologia collettiva del cristianesimo anche il millenarismo, cioè la credenza - presto respinta come errore - di varî gruppi di cristiani in un regno terrestre dei giusti, della durata di 1000 anni, precedente la vera e propria fine del mondo.
Il Medioevo, senza alterare sostanzialmente né recare grandi aggiunte a quanto costituiva la tradizionale escatologia cristiana, fece sorgere una ricca fioritura di leggende circa lo stato della vita futura, leggende di grande importanza artistica e letteraria. V. anche: anticristo; apocalisse; cristianesimo; gesù cristo; giudizio universale; messianismo.
Bibl.: Per le religioni extrabibliche, oltre alle opere relative alle singole religioni, elencate sotto gli articoli speciali, v.: J. G. Frazer, The belief in immortality, Londra 1913-1924, voll. 3; E. Rohde, Psyche (trad. ital.), Bari 1914-1916; C. Pascal, Le credenze d'oltretomba, 2ª ed., II, Torino 1924; E. Lehmann, in Chantepie de la Saussaye, Lehrbuch der Religionsgeschichte, I, Tubinga 1925, p. 108 segg.; L. Ruhl, De mortuorum iudicio, Giessen 1903; F. Cumont, Afterlife in Roman Paganism, New Haven 1922. Sull'escatologia collettiva: J. A. Mac Colloch, Eschatology, in Hastings, Encycl. of Religion and Ethics, V, pp. 373-391; R. H. Charles, Eschatology, in Enciclopaedia biblica, II, col. 1335-1390; id., A critical history of the doctrine of a future life, 2ª ed., Edimburgo 1913; Davidson, Eschatology, in Dictionary of the Bible, I, pp. 734-741; Bertholet e Procksch, Eschatologie, in Die Religion in Geschichte und Gegenwart, 2ª ed., II, Tubinga 1928, coll. 320-339; H. Gressmann, Weltende, ibid., 1ª ed., V, ivi 1913; Fr. Schwally, Das Leben nach dem Tode, Giessen 1892; R. Reitzenstein, Die nordischen, persischen und christlichen Vorstellungen vom Weltuntergang, Lipsia 1923 (nei Vorträge der Bibliothek Warburg).
Per il giudaismo: J. Elbogen, Die Religionsanschauungen derl Pharisäer, Berlino 1904; Volz, Jüdische Eschatologie von Daniel bis Akiba, Tubinga 1903; Messel, Einheitlichkeit der jüdischen Eschatologie, Giessen 1915; G. F. Moore, Judaism, ecc., Cambridge (Mass.) 1928-1930, voll. 3.
Per le dottrine cattoliche, oltre ai grandi trattati sistematici di teologia, vedi: A. Lemonnyer, Fin du monde, in Dictionnaire apologétique de la foi catholique, I, coll. 1911-1928; Y. de la Brière, Église, ibid., coll. 1222 segg., 1230 segg.; M. Richard, Enfer, in Dictionnaire de théologie catholique, V, i, coll. 28-120; per la storia delle dottrine, v. le singole voci.