Esclusione di aggravante e reformatio in peius
Gli esatti confini del divieto di reformatio in peius della sentenza di primo grado impugnata dal solo imputato risultano problematici: per oscurità di testi normativi e per complessità sistematiche. Il contributo analizza l’ipotesi − oggetto di un recente dictum delle Sezioni Unite − di esclusione, da parte del giudice di appello, di circostanza aggravante o di riconoscimento di circostanza attenuante, con conferma dell’originario giudizio di equivalenza tra circostanze. Soluzione che rischia di apparire infelice sul piano della giustizia sostanziale, ma fondata dal Supremo Giudice su ragioni tecniche poco confutabili.
Le Sezioni Unite penali della Cassazione, all’udienza del 18 aprile 2013 (dep. 2.8.2013), con sentenza n. 33752, hanno affermato che il giudice di appello non incorre nella violazione del divieto di reformatio in peius nel caso in cui, avendo escluso una circostanza aggravante o riconosciuto un’ulteriore circostanza attenuante in accoglimento dei motivi proposti dall’imputato, confermi la pena applicata in primo grado e ribadisca il giudizio di equivalenza tra le circostanze, purché quest’ultimo sia sorretto da adeguata motivazione.
A sostegno della decisione militano due tipologie di argomentazioni. La prima, di ordine letterale, fa leva sull’osservazione che «l’obbligo di diminuzione della pena di cui al comma 4 dell’art. 597 c.p.p. è limitato all’accoglimento dell’appello dell’imputato relativo a circostanze o reati concorrenti ossia solo … ad ipotesi interessate da un metodo di calcolo comportante mere operazioni di aggiunta o eliminazione di entità autonome di pena rispetto alla pena-base, senza accenno alcuno ad ipotesi implicanti un giudizio di comparazione», oltre che sul rilievo che «nessun richiamo o riferimento al divieto di reformatio in peius è rinvenibile nella disposizione di cui al comma 5 dell’articolo citato che … disciplina ipotesi derogatorie alla regola dell’effetto parzialmente devolutivo posta dal comma 1 dello stesso articolo». A ciò, si aggiungono le ragioni di ordine sistematico. Con esse, la Corte sottolinea, da un lato, «la riconosciuta possibilità per il giudice di appello di estrinsecare liberamente, seppure nell’ambito del devolutum, i suoi poteri di cognizione con ampia libertà di motivazione» e, dall’altro, «l’innegabile autonomia e discrezionalità del giudizio di comparazione che non sempre conduce ad attribuire un peso quantitativamente apprezzabile ad ogni elemento considerato».
Al riguardo, la giurisprudenza largamente maggioritaria era, invece, dell’idea che il divieto di reformatio in peius della sentenza di primo grado impugnata dal solo imputato riguardasse non solo il risultato sanzionatorio finale, ma anche tutti gli elementi del calcolo, per cui la conseguente obbligatoria diminuzione della pena complessiva comportava che la riduzione dell’entità di uno degli elementi costitutivi del trattamento sanzionatorio non potesse essere in alcun modo compensata da un aumento della misura di altro elemento1.
In particolare le sentenze n. 24895/2009 e n. 42132/2012 affermavano che il giudice dell’appello in sede di rinnovato giudizio di comparazione non potesse dare all’aggravante residuata all’esclusione di altra riconosciuta nel primo grado di giudizio un valore maggiore rispetto all’attenuante ritenuta e ciò in applicazione del principio per il quale il divieto di reformatio in peius riguarda, per l’appunto, non soltanto il risultato finale ma anche i singoli elementi di calcolo della pena. Seguendo lo stesso percorso argomentativo, la sentenza n. 40007/2011 affermava che l’esclusione di circostanze aggravanti da parte del giudice di appello comporterebbe altresì la necessità di una ulteriore diminuzione del trattamento sanzionatorio applicato dal giudice di primo grado, «essendo diminuito il disvalore complessivo della residua aggravante». Con riguardo alla diversa fattispecie del riconoscimento in appello di una inedita circostanza attenuante, la pronuncia n. 2432/1997 riteneva che il precedente giudizio di equivalenza espresso dal giudice di prime cure dovesse necessariamente essere rivisto dal giudice della impugnazione proprio in forza del divieto di reformatio in peius, in quanto il riconoscimento di una nuova attenuante, non valutata dal giudice di primo grado, non potrebbe «non spostare l’ago di quella bilancia nel senso della prevalenza delle circostanze attenuanti».
La sentenza n. 9250/1998, invece, si apriva all’orientamento contrario, ritenendo applicabile la disposizione di cui al co. 4 dell’art. 597 anche alla ipotesi di esclusione in appello di una aggravante, con il limite che la stessa disposizione non farebbe venire meno l’esigenza di un nuovo giudizio di comparazione. Nel caso infatti di un precedente giudizio di prevalenza delle circostanze aggravanti sulle attenuanti, secondo la pronunzia menzionata, il giudice di appello che riconosca un’attenuante inedita potrebbe, senza violare il divieto della reformatio in peius, ritenere tuttora maggiore il peso delle aggravanti e, rinnovando il giudizio di comparazione, confermare il giudizio di prevalenza formulato dal giudice di primo grado che non si sia espresso in indicazioni analitiche circa il “peso” di ciascuna delle circostanze considerate prevalenti. Obbligata sarebbe invece la trasformazione del giudizio di equivalenza in un giudizio di prevalenza nel caso in cui il giudice di appello escluda una delle aggravanti che lo avevano giustificato. Ma la perentorietà di tale ultima affermazione veniva espressamente vincolata alla fattispecie concreta sottoposta nell’occasione alla Corte, sicché sembrerebbe possibile ipotizzare la conservazione dell’esito del giudizio di bilanciamento anche a fronte dell’elisione di una delle aggravanti qualora dalla motivazione della sentenza di primo grado risulti in maniera inequivocabile che il peso di quelle residue era stato comunque ritenuto sufficiente a giustificarlo.
Tali pronunce si riconducevano idealmente a Cass., S.U., n. 12.5.1995, n. 5987 e, ancor di più, a Cass., S.U., 27.9.2005, n. 40910, la quali affermavano che il giudice di appello, anche quando esclude una circostanza aggravante ed irroga una sanzione inferiore a quella applicata dal giudice di primo grado, non vanta il potere fissare la pena base in misura superiore a quella determinata in primo grado. In particolare, la prima di dette pronunce opinava che alla portata generale del divieto della reformatio in peius si aggiunge il dovere per il giudice altresì di diminuire la pena complessiva irrogata in misura corrispondente all’accoglimento della impugnazione anche quando, oltre all’imputato, abbia appellato il pubblico ministero, il cui gravame può avere effetti di aumento sugli elementi della pena ai quali si riferisce, ma non anche quello di impedire le diminuzioni corrispondenti all’accoglimento dei motivi d’impugnazione dell’imputato. La seconda pronuncia, invece, nel risolvere un contrasto interpretativo, ribadiva ancor più esplicitamente che nel giudizio di appello il divieto di reformatio in peius della sentenza impugnata dal solo imputato non riguarda solo l’entità della pena complessiva, ma tutti gli elementi autonomi che concorrono a determinarla, sicché il giudice di appello, anche quando esclude una circostanza aggravante ed irroga una sanzione inferiore a quella applicata dal giudice di primo grado, non vanta il potere di fissare la pena base in misura superiore a quella determinata in primo grado. Principio che si poneva come la logica conseguenza del combinato disposto del divieto di reformatio in peius e dell’effetto devolutivo dell’appello. Ed in tal senso la sentenza evidenziava come il co. 3 dell’art. 597 non si limiterebbe a ribadire il divieto già sancito dal menzionato art. 515 del codice del 1930, ma avrebbe per l’appunto introdotto in chiave innovativa al quarto comma una disposizione particolarmente pregnante, se letta alla luce della Relazione preliminare al codice del 1988, nella quale si affermava che la previsione di tale comma intendeva rafforzare il limite dei poteri decisori del giudice d’appello. La disposizione contenuta nel co. 4 dell’art. 597, dunque, individua quali elementi autonomi, nell’ambito della pena complessiva, sia gli aumenti o le diminuzioni apportate alla pena base per le circostanze, sia l’aumento conseguente al riconoscimento del vincolo della continuazione, con la conseguenza che la diminuzione della pena complessiva in caso di accoglimento dell’appello in ordine alle circostanze o al concorso di reati non solo deve ritenersi obbligatoria per il giudice del gravame, ma altresì risulta impossibile per lo stesso giudice elevare la pena comminata per ciascuno di tali singoli elementi, pur risultando ridotta la pena complessiva a seguito di appello proposto per motivi diversi non inerenti i descritti profili. Tale divieto consegue all’effetto devolutivo dell’appello di cui al primo comma dell’art. 597, che non si limita a circoscrivere l’ambito oggettivo entro il quale può operare il giudice di secondo grado ma chiarisce che nell’ambito dei motivi proposti la decisione non può che essere nel senso dell’accoglimento o della reiezione in tutto o in parte di detti motivi. Sicché, in caso di esclusione di una aggravante, a seguito della mera impugnazione dell’imputato sul punto, il giudice di appello, pur irrogando una pena inferiore a quella comminata in primo grado, non potrebbe assumere come pena base (ai fini, nella fattispecie decisa nell’occasione, della riduzione ex art. 442 c.p.p.) una entità maggiore di quella determinata in primo grado, non essendo il giudice del gravame legittimato da alcun motivo di impugnazione a rivedere la pena base.
Occorre, inoltre, ricordare che Cass., S.U., 16.3.1994, n. 40910 affermava, a proposito della cognizione del giudice dell’impugnazione, che l’art. 597, co. 5, nello stabilire che il giudice del gravame può «altresì» effettuare, quando occorre, il giudizio di comparazione tra circostanze ai sensi dell’art. 69 c.p., ha attribuito al giudice di appello non un ulteriore potere di ufficio, ma solo il compito, consequenziale all’applicazione da parte sua di nuove attenuanti, di fare, nuovamente o per la prima volta, il giudizio di comparazione, come si evince, appunto dall’inciso «quando occorre». Ne deriva che il potere di effettuare il giudizio di comparazione è subordinato all’applicazione di ufficio da parte del giudice di appello di circostanze attenuanti.
La Suprema Corte, partendo dalla dizione letterale del testo – l’avverbio «altresì» e le parole «quando occorre» in luogo di quelle «anche d’ufficio» – riteneva che il potere del giudice ad quem di effettuare il giudizio di comparazione non è posto sullo stesso piano del periodo precedente, ma è subordinato a questo. Tale potere ha portata eccezionale rispetto alla regola posta dal co. 1 dell’art. 597 dell’effetto parzialmente devolutivo e, pertanto, «mentre il giudizio di comparazione dipendente dall’applicazione di una nuova circostanza attenuante può considerarsi ‘conseguenza necessaria’, che non comporta una nuova eccezione, ben diverso sarebbe il caso della riforma del giudizio di comparazione operato dal giudice di primo grado, senza che vi sia stata un’impugnazione sul punto o una modificazione delle circostanze considerate dalla sentenza impugnata». In un caso del genere, infatti, la necessità della rinnovazione del giudizio di comparazione non potrebbe ritenersi logicamente implicata dal potere espressamente attribuito dal co. 5 dell’art. 597 e darebbe luogo ad un’ulteriore eccezione rispetto al principio dell’effetto parzialmente devolutivo.
L’orientamento al quale hanno aderito le ultime Sezioni Unite n. 33722 dell’aprile 2013 era, invece, già fatto proprio da Cass. pen., 27.2003, n. 5697 e Cass. pen., 13.1.2006, n. 13252, per cui non violerebbe il divieto di reformatio in peius il giudice di appello che, su gravame del solo imputato, pur escludendo l’esistenza di una circostanza aggravante, lasci inalterata la misura della pena inflitta in primo grado, qualora a quella esclusione non consegua una automatica riduzione di questa, ma la necessità di un rinnovato giudizio comparativo tra aggravanti residue e attenuanti, nella formulazione del quale il giudice di secondo grado conserva piena facoltà di conferma del precedente giudizio di valenza, il cui esercizio è insindacabile in cassazione, se congruamente motivato. In sostanza non sarebbe in discussione l’estensione del divieto alle singole componenti che concorrono a definire il trattamento sanzionatorio complessivo, ma il principio dovrebbe essere coniugato con la specificità della valutazione relativa al giudizio di comparazione e degli autonomi poteri attribuiti sul punto al giudice dell’appello. In tal senso la perentorietà della regola posta dall’art. 597 andrebbe circoscritta al caso in cui il disconoscimento dell’aggravante non debba essere filtrato attraverso un rinnovato bilanciamento tra le circostanze residue, che ben potrebbe esitare in una valutazione sovrapponibile a quella compiuta nel giudizio di primo grado. Per tale verso, il disvalore delle aggravanti residue potrebbe essere così pronunziato da giustificare comunque il giudizio compiuto sul punto in precedenza, fermo restando che lo stesso non potrebbe essere però ribaltato in senso sfavorevole. Sulla stessa linea Cass. pen., 17.1.2013, n. 10176, pur ribadendo che il divieto di reformatio in peius riguarda non soltanto il trattamento sanzionatorio complessivo, ma anche tutti gli elementi del calcolo della pena, specificano che «quando vi è concorso di attenuanti ed aggravanti e tale concorso permane anche dopo l’eliminazione di una o più circostanze, il giudice non ha l’obbligo di diminuire la pena allorché confermi il giudizio di equivalenza, con l’unico limite di formulare un nuovo e motivato giudizio di comparazione». In termini sostanzialmente analoghi si era espressa Cass. pen., 23.9.2005, n. 42354, che però riguardava la diversa ipotesi in cui venga riconosciuta da parte del giudice del gravame una circostanza attenuante disconosciuta o trascurata nel giudizio di primo grado. Anche questa pronunzia esplicitamente affermava la possibilità di conferma del giudizio di comparazione da parte del giudice della impugnazione con la precisazione che tale possibilità deriva sia dal tenore letterale dello stesso art. 597, co. 4 – nella parte in cui fa riferimento all’appello dell’imputato relativo a circostanze, ma non estende la dizione al giudizio di comparazione e che rimarrebbe quindi escluso dall’area di operatività del divieto – sia da ragioni di ordine sistematico, giacché «in alcun modo può dirsi che la concessione di una circostanza vieti al giudice di secondo grado, o renda necessitato nel suo esito, il giudizio di comparazione». Al dibattito non si era, finora, certo sottratta la dottrina che aveva sottolineato, diversamente dall’ultima sentenza delle S.U., sulla base dell’interpretazione storica dell’istituto e dell’analisi della direttiva n. 92 contenuta nella legge delega del 1987, che il legislatore, mediante l’introduzione del co. 4 dell’art. 597 c.p.p., ha voluto rendere effettiva l’operatività della reformatio in peius. Secondo tale prospettiva, ai fini del predetto divieto, per pena deve intendersi non soltanto il risultato finale ottenuto dopo avere calcolato gli aumenti e le diminuzioni per effetto della continuazione e del concorso delle circostanze, ma anche tutti i singoli elementi che concorrono all’operazione, ivi compresa la pena base e l’aumento a titolo di continuazione2, anche per la considerazione della natura “aritmetica” del procedimento “sanzionatorio”3. Va segnalato, in senso contrario ed in linea con la più recente pronuncia, che alcuni Autori avevano osservato che «tutto ciò non toglie che al giudice di appello residui uno spazio delibativo autonomo in tutti quei casi in cui, dall’accoglimento della impugnazione relativo ad una circostanza, debba scaturire un nuovo giudizio di comparazione fra le circostanze residue»4.
1 In tal senso v. Cass. pen., 28.5.2009, n. 24895; 3.6.2002, n. 25905; 28.7.1998, n. 9250; 20.2.1997, n. 2432; 22.9.2011, n. 40007; 26.9.2012, n. 42132, tutte aventi ad oggetto ipotesi in cui il giudice di appello, a seguito di impugnazione del solo imputato, ha proceduto alla eliminazione di circostanze aggravanti o al riconoscimento di una inedita circostanza attenuante nella permanente necessità di un giudizio di comparazione con circostanze residue.
2 In tal senso, v. Sturla, M.T., Art. 597 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di M. Chiavario, VI, Torino, 1991, p.174.
3 Così Cordero, F., Procedura penale, IX ed., Milano, 2012, 1131 ss., per il quale «se, accolto l’appello dell’imputato rispetto all’aggravante o al reato concorrente, la pena rimanesse immutata, saremmo davanti ad una sottintesa reformatio in peius (risulterebbe accresciuta la pena base o quella applicata al reato superstite); è aritmeticamente impossibile n = (n+p), dove p sia un numero diverso dalla zero».
4 L’impostazione fa capo a Macchia, A.-Gaeta, P., L’appello, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, V, Impugnazioni, Torino, 2009, 343 ss. Gli Autori, riportandosi ai contenuti della giurisprudenza appartenente all’orientamento “restrittivo” delle implicazioni derivanti dalla regola di cui all’art. 597, co. 4, c.p.p., appaiono condividerne le argomentazioni relative, in particolare, alla non riferibilità della citata disposizione ai casi in cui si renda necessario, in conseguenza della eliminazione di una circostanza aggravante o del riconoscimento di una circostanza attenuante, un rinnovato giudizio di comparazione da parte del giudice di appello, nella formulazione del quale il giudice del gravame conserva piena facoltà di conferma del precedente giudizio di equivalenza, il cui esercizio è insindacabile in cassazione se congruamente motivato.