ESCULAPIO ('Ασκληπιός, Aesculapius)
Divinità in origine di carattere ctonio (sotterraneo), posta poi dal mito in stretta relazione con Apollo. Patrono della medicina.
Il mito e il culto di Esculapio in Grecia. - Pindaro (Pyth., III, i segg.), ispiratosi certo alle Eoie esiodee, narra con vivi colori la leggenda di Asclepio, figlio di Apollo e Coronide, la quale per essersi data a uno straniero fu per vendetta del dio geloso trafitta da Artemide a Laceria. Ma Apollo sottrasse il corpo del figlio dal grembo della madre, allorché già bruciava sul rogo, e lo affidò al centauro Chirone, che gl'insegnò l'arte medica. Avendo poi E. osato richiamare in vita un morto, fu fulminato da Giove.
Il nome dato da Pindaro alla madre è il più comune. C'è però chi dice (v. Esiodo, fr. 87) che egli nascesse da Arsinoe, una delle figlie di Leucippo. Il nome stesso di Coronide, ravvicinato a κορώνη "cornacchia", è già ritenuto simbolo della salute, ché questo uccello ha vita lunghissima e ama le alture e l'aria fresca dei monti. In origine E. è, come si è detto, un dio sotterraneo, uno spirito della terra, che impartisce oracoli in una cerchia illimitata; ne è prova specialmente il suo attributo principale, il serpe. Più tardi diviene l'oracoleggiante per eccellenza, ma nel campo medico, a cui Apollo lo destina e in cui limita la sua azione. È il medico degli ammalati; ma è anche il presidio dei sani. Strana è la notizia di Apollodoro (III, 10, 3) che del sangue della Gorgone, avuto da Atena, egli facesse doppio uso: di quello scorso dalle vene di sinistra si servisse per lo sterminio dell'umanità, di quello dalle vene di destra per la salvezza. Secondo la leggenda guarì, fra l'altro, la pazzia delle Pretidi, la cecità dei Fineidi, le ferite di Ercole e di Ificle; risuscitò da morte Orione, Capaneo, Ippolito, Tindareo, Imeneo.
Era la natura che innanzi tutto doveva esercitare il suo benefico effetto sugli ammalati, onde i santuarî, o meglio sanatorî, di Esculapio sorgevano su alture e colli dove l'aria fosse pura e i raggi del sole non troppo acuti. Nei sanatorî di Epidauro, di Coo, di Tricca, che erano i principali, ma anche in quelli minori, a Lebena e a Roma, come dimostrano gli scavi, si tramandava ai posteri per mezzo d'iscrizioni il ricordo delle più famose guarigioni. Al tempo di Pausania esistevano ancora del sanatorio di Epidauro sei tavole o colonne di epigrafi, ma si sapeva che una volta ce n'era stato un numero molto maggiore. Recentemente furono scoperte due delle tavole marmoree (cfr. P. Kavvadias, Τὸ ἱερὸν τοῦ 'Ασκληπιοῦ ἐν 'Επιδαύρῳ καὶ ἡ ϑεραπεία τῶν ἀσϑενῶν, Atene 1900), ma esse non ci illuminano molto sulla prassi medica. E facile intendere la ragione; un mistero impenetrabile circondava l'abaton o la clinica, in cui si eseguivano le cure. Poi queste dovevano essere, per quanto possibile, spogliate dall'azione materiale, perché avessero maggiormente l'apparenza di miracolo. Parte essenziale ne era l'incubazione cioè i malati pernottavano nella clinica e guarivano dopo aver fatto un sogno. Ma, a nostro parere, sarebbe strano e assurdo pensare che quei sanatorî fossero semplici luoghi di grazia, come oggi Lourdes e Pompei. Infatti in molte esposizioni epigrafiche di quei sogni, in quella del Pluto di Aristofane, che descrive la guarigione del dio della ricchezza dalla cecità, si ravvisano operazioni chirurgiche e applicazioni medicinali (cfr. Pindaro, loc. cit.) realmente eseguite da sacerdoti medici, non puri casi di suggestione (sonnambulismo, magnetismo, ipnotismo). Il sonno doveva essere ottenuto artificialmente, né doveva servire unicamente a trucchi e frodi sacerdotali. Si pensi che a questi sanatorî d'indole ieratica, che durarono a lungo e fecero concorrenza ai sanatorî profani, non ricorreva solo il popolo superstizioso; ma uomini colti, come il tragico Aristarco, il comico Teopompo, il filosofo Crantore, ne richiesero l'assistenza e la salvezza. Dunque alla loro prassi medica non si deve togliere ogni fiducia. L'antichità ci tramanda che il più grande medico greco, Ippocrate, perfezionò la sua cultura valendosi anche di essa, anzi da essa attinse segreti per la sua arte.
Il culto di Esculapio in Roma. - Vi fu introdotto per ordine dei Libri sibillini in seguito all'epidemia del 293 a. C. (Liv., X, 47; Plinio, Nat. Hist., XXIX, 16). Un'ambasceria recatasi nel 291 ad Epidauro, dov'era il santuario principale del dio, ne riportò il sacro serpente (signum Aesculapii). Il tempio, come dedicato a un dio straniero, fu edificato fuori del pomerio nell'appartata isola tiberina: la dedicazione avvenne il 1° gennaio 289. La leggenda narrava che, giunta la nave che risaliva il Tevere presso l'isola, il serpente fuggì dalla nave stessa e si rifugiò nell'isola quasi a indicare il luogo dove doveva sorgere il santuario (Val. Max., I, 8, 2; Liv., Epit., XI; Ovid., Met., XV, 622-745). Il quale fu eretto sull'area dell'attuale chiesa di S. Bartolomeo, sul modello del santuario epidauriense. Constava cioè: 1. di una piccola cella in fondo alla quale stava la statua del dio (ora nel Museo nazionale di Napoli) togata, in piedi, appoggiata con la destra al bastone attorno a cui si attorciglia il serpente, mentre a fianco del piede sinistro stava l'omphalos ad attestare la sua relazione con Apollo; 2. di ampî portici laterali dove si trattenevano gli ammalati in attesa della guarigione (Liv., II, 5; Plut., Popl., 8). Avanti alla scalinata che conduceva alla cella stava un'ara per le offerte. Né doveva mancarvi una fonte sacra, forse ricordata dal puteale medievale che si trova dentro l'attuale chiesa, e un boschetto rappresentato sulle monete degli Antonini e sul bassorilievo del Palazzo Rondinini in Roma.
L'officiatura era graeco ritu; e il rito caratteristico che vi si praticava era quello dell'incubazione, ossia del dormire sdraiato sotto i portici aspettando il sogno rivelatore del dio. Il sacerdozio addetto al santuario era in possesso di ricette empiriche a base di cenere, miele, vino e sangue di un gallo bianco, l'animale caro al dio. I Romani erano soliti esporre nel portico i loro schiavi malati, cui l'imperatore Claudio concesse in caso di guarigione la libertà (Suet., Claud., 25).
I beneficati dal dio attestavano la loro gratitudine: 1. con iscrizioni gratulatorie: se ne possiedono oltre venti latine (Corp. Inscr. Lat., VI, 1-20, 30842-46) nelle quali però non è narrato, come era uso nelle lunghe epigrafi trovate entro i santuarî greci, la causa della malattia, il sogno rivelatore e la guarigione ottenuta. Una sola di questo genere, ma greca, proviene dal santuario dell'isola, dedicata da un tal Caio, colpito da cecità; 2. con doni votivi (donaria) di terracotta, pietra, marmo, argento, raffiguranti le membra guarite o qualche animale sacrificale.
In Roma E. aveva per paredra Salus, pari alla greca Igea. Il suo culto durò fino agli ultimi tempi del paganesimo; il luogo rimase anche in tempi cristiani dedicato all'arte salutare.
Attributi. - Attributo principale di E., è il serpe; questo, lambendo le ferite, lo aiutava nelle guarigioni. Suo attributo è anche il cane: cane e oche compivano nei sanatorî lo stesso ufficio del serpe: si consideri che la saliva è di per sé un disinfettante. Altri attributi sono lo scettro, il bastone, il rotolo di libro, o la tavoletta, la corona, il fascio di papaveri, ecc. Di rito si sacrificava a lui il gallo, che gli era sacro, perché, come il gallo annuncia il nuovo giorno, così E. ridà la vita e rinnova e continua i giorni a chi fu malato. Ogni cinque anni, sette giorni dopo le Istmiche, si celebravano feste in onore del dio, chiamate grandi Asclepiee.
Iconografia. - L'arte antica lo rappresenta giovane e imberbe. Questa tradizione seguì anche Calamide, che per Sicione lavorò una statua criselefantina del dio, appunto rappresentato senza barba e con lo scettro in una mano, nell'altra un frutto di pino. Ma dal sec. V il tipo più diffuso, che doveva diventare classico, fu quello che raffigurò E. d'età matura e barbato. Non si può asserire con certezza che fu proprio l'arte ateniese a creare questo tipo. Vi contribuì certo la fantasia popolare, che non amò più concepire E. al banchetto degli dei nell'Olimpo, ma lo vide piuttosto al capezzale dei malati, premuroso e consacrato a curare le pene dell'umanità. Mirone, Fidia, Policleto lavorarono statue del dio, a noi non pervenute, ma dei tipi rappresentati dai primi due, almeno, possiamo farci un'idea da monumenti che si ritengono loro derivazioni. Il primo aveva rappresentato E. con una lunga barba, col volto incorniciato da semplici riccioli, soffuso di una mitezza, di una benevolenza amichevole, che se non è direttamente ispirata da un sentimento di pietà per gli uomini doloranti, è l'espressione della cura, che egli prodigava all'animale sacro, al serpe, a cui dà il cibo. Le presunte copie della statua fidiaca dànno al volto del dio un'espressione tranquilla o una certa severità del capo piegato verso sinistra.
Interessante, sì che a questa s'ispirarono moltissimi artisti posteriori, fu la statua criselefantina elevata a Epidauro in suo onore, opera di Trasimede, figlio di Arignoto di Paro (sec. IV a. C.). Ce ne resta la descrizione di Pausania (II, 27, 2). Le copie che più si avvicinano all'originale della statua le abbiamo nel verso di alcune monete d'argento di Epidauro del sec. IV a. C. e in due grandi bassorilievi votivi in marmo trovati negli scavi del santuario. Il tipo dell'E. di Epidauro richiama inevitabilmente quello del Zeus di Olimpia. In generale si può dire che in molte rappresentazioni E. si confonderebbe con Zeus, se i tratti del volto del dio della medicina non fossero più dolci ed egli non avesse quegli emblemi che gli sono proprî. Ma nel sec. IV l'arte lo rappresenta avvivato di speciale pathos. Nei rilievi appare appunto pieno di compassione per gli uomini, che cercano il suo aiuto o lo ringraziano per averlo ricevuto. Nel periodo ellenistico celebre fu la statua di Piromaco ateniese per l'Asclepieo di Pergamo, che fu portata via da Prusia II nel 156, come bottino di guerra. Il tipo fu ricostruito da monete di Traiano, Caracalla, ecc.; ma non ha caratteristiche originali e speciali. La barba, i capelli ricciuti, il himation che copre parte della persona, il bastone a cui si avvolge il serpente sono elementi comuni a opere precedenti. Tipi nuovi non furono creati nell'epoca ellenistica e romana.
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Per le iscrizioni del santuario di Epidauro v. Dittenberger, Sylloge inscriptionum graecarum, III, 3ª ed., pp. 310 segg., 1168-70; e U. v. Wilamowitz, in Hermes, XIX, p. 449; id., Isyllos von Epidauros, in Philolog. Unters., IX, Berlino 1886, p. 31 segg.; Zacher, in Hermes, XXI, p. 467; H. Diels, ibid., XXIII, pag. 286; F. Buecheler, in Rhein. Mus., XXXIX, p. 620; J. Baunack, in Philologus, LIV, p. 21, ecc.; cfr. N. Festa, in Atene e Roma, III (1900), n. 13, ecc.; R. Herzog, Die Wunderheilungen von Epidauros, Lipsia 1931.
Per la prassi medica degli Asclepiei v. Vercoutre, La médecine sacerdotale dans l'antiquité grecque, in Revue Arch., 1885, II, p. 273 segg.; 1886, I, pp. 22 segg., 106; C. Du Prel, Mystik der alten Griechen, Lipsia 1888; O. Weinreich, Antike Heilungswunder, in Religionsghesch. Versuchungen und Vorarb., VIII, i, Giessen 1909; L. Deubner, De incubatione, Lipsia 1900, app. I-II. Per il culto di Esculapio in Roma v.: M. Besnier, L'île Tibérine dans l'antiquité, Parigi 1902, pp. 133-244; A. Bartoli, Una notizia di Plinio relativa all'introduzione in Roma del culto di Esculapio, in Rend. Acc. Licei, XXVI (1917, pp. 573-580.
Per le rappresentazioni artistiche di Esculapio v. specialmente Panofka, Askelepios u. d. Askelepiaden, in Abhandl. d. Preuss. Akad., 1846, pp. 53-57, tavv. III-VI; A. Löwy, De Aesculapii figura, Strasburgo 1887; Wieseler, Die bild. Darstellungen des jugendlichen und unbärtigen A., in Gött. Gel. Nachr., 1888, p. 134 segg.; H. Brunn, Griechische Götterideale, Monaco 1893, p. 96 segg.