Abstract
Viene esaminata la fase esecutiva relativa alle sanzioni amministrative dipendenti da reato applicate all’esito del procedimento a carico degli enti. La disciplina è quella prevista dal d.lgs. 8.6.2001, n. 231, in particolare dagli artt. 74-79 e, anche, dagli artt. 9 e 11, 30-32 e 40 d.P.R. 14.11.2002, n. 313, per quanto concerne l’anagrafe delle sanzioni de quibus e dei carichi pendenti. Il tema, dunque, è quello dell’attuazione del comando contenuto nella sentenza con la quale il giudice ha sanzionato l’ente in conseguenza di un reato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio dalle persone menzionate nell’art. 5 d.lgs. n. 231/2001, statuendo così in termini di sussistenza di una responsabilità dell’ente stesso per illecito amministrativo.
L’esecuzione delle sanzioni amministrative dipendenti da reato impone il costante riferimento alla omologa disciplina contenuta nel codice di procedura penale: l’art. 34 stabilisce appunto che si osservano le norme del decreto n. 231/2001 e, in quanto compatibili, quelle del codice di procedura penale e delle relative disposizioni di attuazione. La fase esecutiva riservata agli enti condannati è caratterizzata da due momenti: il primo – necessario – riguarda l’efficienza del comando contenuto in sentenza, che in linea di principio deve essere attuato; il secondo – eventuale – è, invece, relativo alla verifica circa la «fungibilità» della sanzione. È, in questi termini, esplicativa la Relazione governativa al d.lgs. n. 231/2001, la quale evidenzia – quanto al primo momento – la probabile impossibilità dell’applicazione in concreto della sanzione (si pensi alle vicende modificative dell’ente) e rileva – in merito al secondo momento – la incentivata «via di fuga» per l’ente attraverso l’attività riparatoria al fine di ottenere la conversione della sanzione interdittiva. Esplicativa ed esaustiva in merito alle finalità perseguite dal legislatore delegato, è certamente la stessa Relazione, la quale, in particolare, individua due diverse esigenze: «[…] assicurare la rapidità ed efficacia dell'esecuzione delle sanzioni; apprestare, in conformità al criterio di delega, una concreta tutela giurisdizionale anche in executivis»; inoltre, continua la Relazione, in considerazione delle peculiarità sia del soggetto (condannato) di cui trattasi (la persona giuridica, appunto), sia del sistema sanzionatorio, «[…] è proprio in questa fase che dovrà essere verificata la attualità della concreta applicazione del dictum del giudice, in riferimento agli eventi che si siano medio tempore verificati». Ben può accadere, infatti, che, da un lato, sopravvengano «[…] vicende oggettive, dovute a modificazioni subite dall’ente o al venir meno dell’oggetto della sanzione interdittiva, che ne rendano impossibile l’applicazione», e, dall’altro, si incentivi l’ente all’attuazione di quelle condotte riparatorie, di cui all’art. 17 al fine di ripristinare la legalità. In altri termini, consapevole del non esiguo lasso di tempo realisticamente intercorrente fra l’emissione della sentenza e la sua relativa esecuzione (in ragione anche dell’interruzione del corso della prescrizione dell’illecito amministrativo ex art. 22, co. 2), e tenendo ben conto della possibilità, già prima esposta, che il soggetto destinatario della sanzione si modifichi o trasformi in un soggetto nuovo e diverso, il legislatore ha ben pensato di riservare al giudice dell’esecuzione competenze funzionali volte all’adeguamento della sanzione impartita alla concreta, ed attuale, situazione in cui versa l’ente.
La fase dell’esecuzione “amministrativa” è d’impulso del magistrato del pubblico ministero, che, analogamente a quanto previsto per l’esecuzione penale, promuove, ai sensi dell’art. 655 c.p.p., l’attuazione delle statuizioni contenute nella sentenza divenuta irrevocabile. La relativa legittimazione deriva dai criteri di attribuzione al giudice della competenza in executivis in forza dell’art. 665 c.p.p., al quale rinvia l’art. 74, coerentemente con la scelta di coniare un processo all’ente simultaneo rispetto a quello previsto per la persona fisica; l’art. 36 attribuisce, infatti, al giudice penale la competenza a conoscere anche gli illeciti amministrativi dell’ente e il successivo art. 38 prevede la riunione dei due processi. Nonostante appaia evidente come la scelta sia quella di riservare al medesimo giudice le due competenze funzionali nelle differenti fasi esecutive, la soluzione sconta in concreto un considerevole limite operativo che deriva dalla non remota eventualità che il simultaneus processus non si sia celebrato per ragioni varie (ad esempio, rito alternativo in una sola sede processuale oppure sentenza impugnata solo dalla persona fisica e non anche da quella giuridica e viceversa).
Le altre competenze del giudice dell’esecuzione sono individuate dal comma 2 dell’art. 74: si tratta delle questioni concernenti la cessazione dell’esecuzione in caso di abrogazione dell’illecito amministrativo o del reato-presupposto (analogamente a quanto previsto dall’art. 673 c.p.p.), la determinazione dell’esecuzione in caso di estinzione del reato per amnistia (può farsi riferimento all’art. 672 c.p.p.), la determinazione della sanzione amministrativa applicabile in caso di cumulo delle comminatorie (l’ipotesi prevista per le persone fisiche è disciplinata dall’art. 671 c.p.p.), la confisca e la restituzione delle cose sequestrate (potrebbe rinviarsi all’art. 676 c.p.p.); a queste si aggiungono quelle relative al conflitto di giudicati (art. 669 c.p.p.) e alle verifiche sul titolo esecutivo (art. 670 c.p.p.).
Come si vede, le sanzioni amministrative dipendenti da reato non hanno la stessa “sorte” delle sanzioni amministrative accertate nel processo a carico delle persone fisiche: l’art. 664, co. 4, c.p.p. impone infatti al magistrato del pubblico ministero, che debba dare esecuzione a una sentenza di condanna contenente anche l’accertamento della violazione di sanzioni ammnistrative, di trasmettere l’estratto della sentenza esecutiva all’autorità amministrativa competente.
L’art. 74, co. 3, prima parte, contiene il richiamo all’art. 666 c.p.p. ovvero al procedimento camerale “ordinario”, definito con ordinanza a seguito della partecipazione necessaria del magistrato del pubblico ministero e del difensore; va da sé la conseguente e logica esclusione delle norme attinenti lo status detentionis del condannato. La restante parte del medesimo comma e il successivo comma 4 sono, invece, dedicati al procedimento semplificato menzionato dall’art. 667, co. 4, c.p.p.: quando si tratta di cessazione dell’esecuzione in caso di estinzione del reato per amnistia (art. 74, co. 2, lett. b), di confisca e restituzione delle cose sequestrate (art. 74, co. 2, lett. d), di autorizzazione al compimento di atti di gestione ordinaria che non comportino la prosecuzione dell’attività interdetta (art. 74, co. 4), di confisca del profitto ottenuto all’esito della gestione commissariale dell’ente (art. 79, co. 3), la decisione è resa de plano con ordinanza (avverso la quale è ammessa opposizione entro quindici giorni dalla notificazione o comunicazione, con conseguente procedura camerale ex art. 666 c.p.p. nel contraddittorio innanzi al medesimo giudice).
La disciplina è contenuta negli artt. 200 ss. d.P.R. 30.5.2002, n. 115 in tema di spese di giustizia; disciplina che ha sostituito quella di cui all’art. 75 d.lgs. n. 231/2001 e che, dunque, parifica le sanzioni pecuniarie applicate all’ente a ogni altra somma di natura giudiziaria. L’art. 212 d.P.R. n. 115/2002 prevede la notifica all’ente dell’invito al pagamento entro un mese dalla irrevocabilità della sentenza, decorso il quale l’ufficio provvede, ai sensi del successivo art. 213, alla riscossione a mezzo dei ruoli esattoriali. In caso di temporanea e obiettiva difficoltà, l’ente può chiedere la rateizzazione della somma dovuta sino ad un massimo di sessanta rate mensili o anche la sospensione della riscossione e, poi, di frazionare il pagamento fino a quarantotto rate mensili (art. 240 d.P.R. n. 115/2002); non si fa, invece, menzione della impossibilità, sicché la garanzia del pagamento della sanzione dipende dalla eventuale adozione, nella fase della cognizione, del sequestro conservativo previsto dall’art. 54 d.lgs. n. 231/2001.
Una disciplina a parte è prevista per l’esecuzione della pena pecuniaria in caso di condanna dell’ente per illecito amministrativo dipendente dai delitti, commessi dalla persona fisica, di abuso di strumenti privilegiati e di manipolazione del mercato di cui al d.lgs. n. 58/1998, previsti dall’art. 25-sexies d.lgs. n. 231/2001. Sono previste, infatti, sanzioni pecuniarie ulteriori rispetto a quelle «ordinarie», applicate a seguito di un procedimento autonomo, che si affianca a quello penale, che vede la partecipazione della CONSOB e della Guardia di Finanza. La eventuale duplicazione di sanzione per il medesimo fatto è, però, scongiurata dall’art. 187-terdecies d.lgs. n. 58/1998: quando per lo stesso fatto è applicata a carico del reo o dell’ente una sanzione amministrativa pecuniaria ai sensi dell’art. 187-septies, l’esazione della pena pecuniaria e della sanzione pecuniaria dipendente da reato è limitata alla parte eccedente quella riscossa dall’autorità amministrativa.
La competenza funzionale a verificare che si tratti dello stesso fatto spetta al giudice dell’esecuzione, che deve anche valutare l’eventuale richiesta di sospensione proposta dall’ente ai sensi dell’art. 74, co. 3, previa dimostrazione della riscossione della sanzione in sede amministrativa.
L’art. 76 stabilisce che la pubblicazione della sentenza di condanna è eseguita a spese dell’ente condannato e rinvia alla disciplina contenuta nell’art. 694, co. 2, 3 e 4, c.p.p. prevista per le persone fisiche (anche nel caso dell’ente condannato il direttore o il vice direttore responsabile del giornale o periodico designato sarebbe tenuto ad eseguire una parte del comando contenuto nella sentenza). Deve però rilevarsi come tale rinvio deve ora tenere conto della modifica dell’art. 36, co. 2, c.p., che prevede la pubblicazione solo nel sito internet del Ministero della giustizia.
Ai sensi dell’art. 77, organo propulsivo e funzionalmente competente a dare esecuzione alle sanzioni interdittive è il magistrato del pubblico ministero, cui spetta notificare all’ente, secondo le forme previste dall’art. 43, l’estratto della sentenza irrevocabile che ha disposto la loro applicazione; esso dovrà contenere il dispositivo del provvedimento da eseguire, con l’indicazione delle attività o delle strutture oggetto della sanzione (e, in caso di divieto a contrarre con la pubblica amministrazione, la possibile limitazione a determinate tipologie contrattuali, ovvero determinate amministrazioni). Tale disciplina deroga a quanto disposto dall’art. 664, co. 4, c.p.p. che, in tema di sanzioni conseguenti a violazioni amministrative accertate nel processo penale, prevede la trasmissione, da parte del magistrato del pubblico ministero, dell’estratto della sentenza esecutiva all’autorità amministrativa competente. Sarà la notificazione dell’estratto della sentenza irrevocabile a segnare il dies a quo per la durata della sanzione, cui sarà detratto l’eventuale presofferto ex art. 51, co. 4, nonché per la decorrenza del termine utile per l’istanza di conversione della sanzione interdittiva in sanzione pecuniaria. Pertanto, come chiarisce la Relazione, è con la conoscenza legale dell’estratto, e dei relativi obblighi o divieti, che si dà esecuzione alle sanzioni interdittive; da questo momento in poi, dunque, la loro violazione comporterà la responsabilità ex art. 23. L’art. 74, co. 4, prevede, nell’ipotesi di interdizione dall’esercizio dell’attività, che il giudice, su richiesta dell’ente, possa autorizzare il compimento di atti di gestione ordinaria che non comportino la prosecuzione dell’attività interdetta; si tratta, dunque, di una procedura de plano, finalizzata alla salvaguardia del patrimonio sociale, nonché alla tutela dei terzi (la Relazione, a tal proposito, porta ad esempio l’ipotesi in cui vi sia necessità di consegnare all’acquirente merce deperibile, custodita nella sede, che sia stata alienata in precedenza). Il giudice dell’esecuzione, soprattutto nel caso di interdizioni parziali su singoli contratti o attività, sarà nella maggior parte dei casi indotto a nominare un perito, al fine di determinare le attività ed i settori cui consentire di operare malgrado la sanzione.
Il d.lgs. n. 231/2001 riconosce all’ente (così come avviene, ai sensi dell’art. 657 c.p.p.) la detrazione del c.d. “presofferto”, e lo fa con l’art. 51, co. 4, prevedendo lo scomputo delle misure cautelari della durata delle sanzioni applicate in via definitiva. Nel confronto con la disciplina prevista dal codice di rito per la persona fisica, va rilevato che l’art. 657 c.p.p. prevede che sia la parte pubblica quella cui è affidato il computo; tuttavia, l’art. 77 affida al magistrato del pubblico ministero unicamente la notifica dell’estratto della sentenza di condanna, tacendo in merito al tema di cui trattasi. È in virtù di tali valutazioni che si è portati a credere, pertanto, che in questo caso (come in molti altri casi) il legislatore delegato attribuisca all’organo giurisdizionale, e, dunque, al giudice dell’esecuzione, competenza generale in tema di sanzioni; non solo, va, infatti, considerata la natura di valutazioni discrezionali che devono essere operate, nonché la necessità di operare in contraddittorio, in camera di consiglio, con l’eventuale presenza, altresì di periti o consulenti.
La decisa volontà del d.lgs. n. 231/2001 di conseguire la legalità quale primo risultato perseguito dalla normativa, permea anche la fase esecutiva, e prova ne è il richiamo che l’art. 78 fa alle condotte di cui all’art. 17: la loro tardiva realizzazione, entro venti giorni dalla notifica dell’estratto della sentenza, permette all’ente di chiedere la conversione della sanzione interdittiva inflitta in sanzione pecuniaria; va, ad ogni buon conto, precisato che la conversione della sanzione di cui all’art. 78 non può disporsi nell’ipotesi di sanzioni interdittive applicate in via definitiva di cui all’art. 16, co. 3. La richiesta, motivata sulle ragioni di tale tardività e, soprattutto, documentante l’avvenuta esecuzione degli adempimenti di cui all’art. 17, come previsto dal comma 2 dell’art. 78, è presentata al giudice dell’esecuzione, come già detto, entro venti giorni dalla notificazione dell’estratto della sentenza (termine, questo, che, nonostante il silenzio della norma, è da ritenere non perentorio). La peculiare procedura prevista per la decisione è specificata dal comma 3 dell’art. 78; dunque, il giudice in executivis fissa l’udienza in camera di consiglio entro dieci giorni, previa comunicazione alle parti e ai difensori; preliminarmente, il giudice effettuerà una valutazione sull’ammissibilità della richiesta avanzata dall’ente, che, laddove non manifestamente infondata, consentirà la disposizione della sospensione della esecuzione della sanzione con decreto motivato revocabile (la Relazione chiarisce che «[…] il riferimento alla non manifesta infondatezza della richiesta evidenzia che il giudice deve disporre la sospensione se emerge anche un semplice fumus di accoglimento della richiesta»). Per il resto, dato il richiamo dell’art. 34 del d.lgs. n. 231/2001 al codice di rito, l’udienza seguirà le forme disciplinate dall’art. 666 c.p.p. La decisione nel merito sarà adottata con ordinanza all’esito dell’udienza camerale con intervento necessario del pubblico ministero e del difensore. In caso di accoglimento, dunque, il giudice convertirà la sanzione interdittiva inflitta in sanzione pecuniaria, che si andrà ad aggiungere a quella già inflitta nella sentenza di condanna, cui, inoltre, non potrà essere inferiore, né tantomeno superiore al doppio della stessa. Come precisato anche dalla Relazione, «[…] a differenza dell'ordinaria conversione, quella disposta in executivis determina un aumento della sanzione pecuniaria. Ciò dipende dall’ovvia necessità di non incentivare condotte strumentali dell’ente, che potrebbe altrimenti monetizzare a costo zero la sanzione maggiore afflitta». Ancora, il giudice, come previsto nel comma 4 dell’art. 78, e ancora nella Relazione, nel determinare l'importo della somma dovuta per la conversione, dovrà tener conto, da un lato della gravità dell’illecito ritenuto in sentenza, dall’altro delle ragioni che hanno determinato il tardivo adempimento delle condizioni di cui all’art. 17. Questo potrà, infatti, essere il percorso volto ad adeguare l’aggravamento sanzionatorio alla condotta dell’ente, dovendosi distinguere i casi di obiettiva difficoltà del tempestivo adempimento, da quelli che evidenzino la volontà dell’ente di ritardare il più possibile il momento della doverosa riparazione. Quanto, invece, all’eventuale rigetto della richiesta operata dall’ente, questo non preclude ulteriore iniziativa, data anche la non perentorietà, come già esposto in precedenza, del termine di venti giorni entro cui l’istanza può essere proposta. In ogni caso, tanto per l’accoglimento della richiesta di conversione della sanzione interdittiva, quanto per il suo eventuale rigetto è ammesso il ricorso per cassazione, la cui proposizione, tuttavia, non ha effetto sospensivo, salva disposizione del giudice in merito (art. 666, co. 7, c.p.p.).
Può accadere che il giudice della cognizione, in luogo dell’applicazione di una sanzione interdittiva che determini l’interruzione dell’attività, in sede di condanna disponga il commissariamento dell’ente nel caso in cui sussista almeno una delle condizioni previste dall’art. 15 (dunque, se l’ente svolge un pubblico servizio o un servizio di pubblica necessità la cui interruzione può provocare un grave pregiudizio alla collettività; ovvero, ancora, se l’interruzione dell’attività dell’ente può provocare, tenuto conto delle sue dimensioni e delle condizioni economiche del territorio in cui si trova, rilevanti ripercussioni sull’occupazione). Il giudice, in sede di condanna, dunque, tenendo conto della specifica attività in cui è stato posto in essere l’illecito da parte dell’ente, indicherà i compiti ed i poteri del commissario, chiamato pertanto a proseguire l’attività dell’ente; tuttavia, solo in fase esecutiva, come disposto dall’art. 79, si provvede alla nomina del commissario, senza formalità e su richiesta del magistrato pubblico ministero, da parte del giudice dell’esecuzione. La norma tace in merito alle ipotesi di revoca o sostituzione del commissario il quale non adempia al proprio mandato in modo consono: è da ritenere che tale potere competa allo stesso organo giurisdizionale. Tra giudice e commissario, infatti, viene ad instaurarsi un rapporto di tipo fiduciario: sarà il commissario giudiziale a curare l’adozione, nonché l’efficiente attuazione di compliance programs atti a prevenire la commissione di reati della medesima specie di quello verificatosi, pur tuttavia ottenendo sempre la propedeutica autorizzazione al compimento di eventuali atti di straordinaria amministrazione. Soprattutto in merito a quello che è il “lavoro” del commissario in seno all’ente, che spesso presenta dimensioni e struttura ampie e complesse, occorre chiedersi se costui debba svolgere la propria attività sostituendosi del tutto agli ordinari organi gestori, ovvero debba in qualche modo “affiancarli”. La risposta sembra abbracciare la seconda ipotesi, proprio in riferimento a quelle che sono le finalità perseguite, e dunque, la concreta e, soprattutto, efficiente attuazione dei modelli organizzativi, per il cui compimento necessitano, senz’altro, di vaste conoscenze e dimestichezze che ben possono appartenere a soggetti coinvolti nella gestione ordinaria dell’ente. A conferma del ruolo centrale che il d.lgs. n. 231/2001 attribuisce all’organo giurisdizionale nella fase esecutiva, è previsto dal comma 2 dell’art. 79 che il commissario riferisca ogni tre mesi al giudice dell’esecuzione e al magistrato del pubblico ministero sull’andamento della gestione, e che, una volta terminato l’incarico, trasmetta al giudice una relazione su quanto svolto, e nella quale altresì fosse indicata l’entità del profitto da sottoporre a confisca, nonché le modalità di attuazione dei compliance programs. Ancora, quanto alla confisca del profitto derivante dalla prosecuzione dell’attività, come riferito dalla Relazione Ministeriale, «[…] il giudice provvede de plano, con eventuale contraddittorio successivo, ai sensi dell’art. 667, c. 4, c.p.p.». È probabilmente pleonastico evidenziare quale ne sia la ratio, ossia evitare che l’ente possa persino avvantaggiarsi con un profitto che l’interruzione della sua attività, a seguito della sanzione interdittiva emessa nella sentenza di condanna, non gli avrebbe consentito di raggiungere. L’ente, altresì, dovrà sostenere, ai sensi dell’art. 79, co.4, le spese relative all’attività del commissario, nonché il suo compenso, che, nel silenzio della norma, sarà determinato dal giudice dell’esecuzione.
Dall’art. 83, e da quanto esposto nella Relazione, emerge come il legislatore abbia inteso elevare tale normativa a legge fondamentale della responsabilità amministrativa degli enti, soprattutto per quanto attiene all’ambito sanzionatorio, prevedendo così l’esclusiva applicabilità delle sanzioni interdittive che siano espressamente previste nel suddetto decreto. Il comma 2 del medesimo articolo, invece, disciplina l’ipotesi in cui, in caso di separazione tra il procedimento a carico della persona fisica e quello a carico dell’ente, in conseguenza della sentenza di condanna per il reato presupposto, si verifichi una sorta di “sovrapposizione” della sanzione interdittiva con una di contenuto identico o analogo. In tale ipotesi, dunque, prevede il legislatore delegato, si debba operare uno scomputo (successivo e meramente aritmetico) della durata della sanzione già sofferta, al fine di determinare la durata della sanzione amministrativa dipendente da reato. Ora, la norma tace in merito al concreto funzionamento di quanto previsto: se, cioè, tale detrazione deve essere operata dal giudice di merito (qualora, quindi, ci si trovasse nella fase di cognizione), o se, invece, come maggiormente si ritiene, debba intendersi la fase esecutiva quale sede naturale delle valutazioni e scelte concrete operate in tema di sanzioni, con il giudice in executivis che opererà ai sensi ai sensi dell’art. 666 c.p.p.
6.4 L’esecuzione delle sanzioni interdittive nei confronti di banche, intermediari finanziari e imprese assicuratrici
Se destinataria della sentenza che accerta l’illecito amministrativo dipendente da reato, con conseguente applicazione delle sanzioni previste dall’art. 9, co. 2, lett. a) e b), è una banca, una società di intermediazione mobiliare (SIM), una società di gestione del risparmio (SGR), una società di investimento a capitale variabile (SICAV), gli artt. 8 e 10 d.lgs. n. 197/2004 prevedono che il titolo esecutivo, decorsi i termini per la conversione delle sanzioni di cui all’art. 78, sia trasmesso per l’esecuzione dall’autorità giudiziaria alla Banca d’Italia (se si tratta di banca), ovvero alla Banca d’Italia ed alla CONSOB (se si tratta di SIM, SGR e SICAV), nonché all’ISVAP (se si tratta di assicurazione); a dette autorità che esercitano il controllo o la vigilanza sull’ente, la sentenza irrevocabile di condanna deve essere trasmessa, ai sensi dell’art. 84, dalla cancelleria del giudice che l’ha emessa, così come al magistrato del pubblico ministero spetterà il potere-dovere di provvedere, in caso di mancata conversione della pena interdittiva, a informare le medesime autorità, le quali potranno «proporre od attuare» i provvedimenti di competenza (quali, ad esempio, il divieto di intraprendere nuove operazioni o l’ordine di chiusura di succursali bancarie), che hanno natura amministrativa e, appunto, discrezionale, con evidente possibilità di neutralizzazione del comando contenuto nella sentenza di condanna, rispetto alla quale si profila anche un rimedio “extra-giurisdizionale”, dal momento che può essere fatto ricorso a rimedi dinanzi all’autorità amministrativa e non giurisdizionale, come invece previsto nella ordinaria fase dell’esecuzione.
Le sanzioni amministrative sono iscritte nella relativa anagrafe secondo una disciplina analoga a quella prevista per le persone fisiche e sono disciplinate dal d.P.R. 14.11.2002, n. 313 che, con l’art. 52, ha abrogato le norme del d.lgs. n. 231/2001 (artt. 80-82) dedicate, appunto, all’istituto de quo. I provvedimenti iscrivibili, per estratto, nell’anagrafe sono menzionati dall’art. 9 d.P.R. n. 313/2002: a) i provvedimenti giudiziari definitivi che applicano agli enti le sanzioni amministrative di cui al d.lgs. n. 231/2001; b) i provvedimenti giudiziari definitivi relativi all’esecuzione delle stesse sanzioni; c) qualsiasi altro provvedimento che concerne a norma di legge i provvedimenti già iscritti, come individuato con decreto del Presidente della Repubblica, ai sensi dell’art. 17, co. 1, l. 23.8.1988, n. 400, su proposta del Ministro della giustizia. Come si vede, l’iscrizione (il contenuto è previsto dal successivo art. 10) è relativa ai provvedimenti giudiziari e non solo giurisdizionali, con ciò ricomprendendosi anche quelli emessi dal magistrato del pubblico ministero (ad esempio, la determinazione del cd. “presofferto” ed il suo computo, ai sensi dell’art. 657 c.p.p.).
L’eliminazione delle iscrizioni avviene, ai sensi dell’art. 11 del medesimo decreto, decorso il termine di cinque anni dal giorno in cui è stata eseguita la sanzione pecuniaria o di dieci anni da quello in cui è cessata l’esecuzione di qualsiasi altra diversa sanzione, a condizione che medio tempore l’ente non abbia commesso un ulteriore illecito amministrativo.
Il rilascio dei certificati dell’anagrafe è consentito a richiesta dell’autorità giudiziaria, dell’ente interessato e delle amministrazioni pubbliche e gestori di pubblici servizi (artt. 30-32).
Ai sensi dell’art. 12 d.P.R. n. 313/2002, nell’anagrafe dei carichi pendenti, sono, invece, iscritti (il contenuto è previsto dall’art. 13): a) i provvedimenti giudiziari con i quali viene contestato all’ente l’illecito amministrativo dipendente da reato; b) ogni altro provvedimento giudiziario che decide sulla contestazione dell’illecito emesso nelle fasi e nei gradi successivi. La cancellazione avviene con la cessazione della qualità di ente sottoposto al procedimento di accertamento (art. 14).
Sulle questioni concernenti le iscrizioni e i certificati delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dell’anagrafe dei carichi pendenti degli illeciti amministrativi dipendenti da reato decide il tribunale ordinario di Roma, in composizione monocratica; le forme sono quelle di cui all’art. 666 c.p.p.
Artt. 74-79, d.lgs. 8.6.2001, n. 231; artt. 9 e 11, 30-32 e 40, d.P.R. 14.11.2002, n. 313; artt. 187-bis-187-septies e 187-decies-187-quaterdecies, d.lgs. 24.2.1998, n. 58; artt. 8-10, d.lgs. 9.7.2004, n. 197.
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