Abstract
Il tema è trattato alla luce delle più recenti riforme legislative e, in particolare, del d.lgs. 7.9.2010, n. 161, che ha recepito la Decisione Quadro 2008/909/GAI per l’applicazione del principio del reciproco riconoscimento delle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale ai fini della loro esecuzione nell’Unione europea. Per i rapporti con Paesi extra UE, invece, opera ancora la disciplina voluta dal legislatore del 1988, analizzata anche rispetto al tema della reciprocità condizionata all’assunzione di specifici accordi e trattati internazionali.
Gli istituti dell’esecuzione in Italia di sentenze penali straniere (artt. 730-741 c.p.p.) e dell’esecuzione all’estero di sentenze penali rese da giudici italiani (artt. 742-746 c.p.p.) rinvengono la ragion d’essere nella prospettiva di un miglioramento dei rapporti giurisdizionali con le autorità d’oltre confine, al fine di creare uno “spazio giudiziario internazionale comune”. L’obiettivo si coniuga anche con la finalità rieducativa della pena (art. 27 Cost.), dal momento che il condannato ha maggiori possibilità di reinserimento se può espiare la pena nel Paese in cui ha saldi legami sociali e familiari.
La disciplina codicistica risulta, di recente, completata dal d.lgs. 7.9.2010, n. 161 che, nel recepire la decisione quadro 2008/909/GAI, consente – nei limiti delle condizioni ivi previste e delle norme transitorie appositamente dettate – l’esecuzione, in uno Stato membro dell’Unione europea diverso da quello di emissione, di sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale. Tuttavia, tale disciplina non può ritenersi completamente operativa: al febbraio 2014, infatti, gli Stati dell’Unione che avevano recepito la decisione quadro contemplata sono stati, compresa l’Italia, solo diciotto (per gli opportuni approfondimenti, v., altresì, la Circolare del Ministero della giustizia del 2.5.2012, Riconoscimento ed esecuzione delle sentenze penali straniere. D.lgs. 161/2010 recante disposizioni per conformare il diritto interno alla Decisione Quadro 2008/909/GAI. Prime questioni applicative, su www.giustizia.it, e la Relazione delle Commissione europea COM(2014)57).
In tema di cooperazione giudiziaria internazionale, il panorama normativo può dirsi ulteriormente integrato, da ultimo, dalla l. 20.12.2012, n. 237, recante Adeguamento allo Statuto della Corte penale internazionale, che, appunto, consente all’Italia di cooperare altresì con la Corte penale internazionale, conformando l’ordinamento interno alle previsioni dello Statuto della Corte penale stessa. In premessa, l’art. 1 di tale disposizione prevede che la cooperazione avviene sulla base delle disposizioni contenute nello Statuto nel limite del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano.
L’istituto del riconoscimento delle sentenze penali straniere previsto dal codice di rito spiega una sorta di griglia di riferimento, sia per consentire la produzione di effetti previsti dal codice penale, sia per dare esecuzione a norme pattizie (Dalia, A.A.-Ferraioli, M., Manuale di diritto processuale penale, VIII ed., Padova, 2014, 803 ss.; Diotallevi, G., Rapporti giurisdizionali con autorità straniere, in Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, diretto da G. Lattanzi. e E. Lupo, X, Milano, 2012, 379 ss.).
Anche se si è voluta attribuire un’unità dommatica all’istituto, si hanno sostanzialmente due tipi di riconoscimento: per gli effetti penali e per quelli non penali, con limiti e condizioni – e procedimento – in comune.
Il primo tipo (artt. 730, co. 2, 732 e 741, co. 1 c.p.p.) ricalca la finalità del previgente istituto, mentre il secondo (art. 731 c.p.p.) prevede che la sentenza debba essere riconosciuta perché eseguibile come un qualsiasi altro provvedimento italiano ovvero per effetti diversi da quelli previsti dall’art. 12 c.p.
Proprio perché è sempre crescente la necessità di realizzare una piena collaborazione per un più efficace funzionamento della giustizia e una maggiore tutela penale nell’ambito dell’ordinamento, il riconoscimento delle sentenze straniere è stato previsto non solo al fine di consentire la produzione di alcuni, limitati effetti (quelli, cioè, previsti dai nn. 1, 2 e 3 del co. 1 dell’art. 12 c.p.), «ma anche allo scopo di dare attuazione alle disposizioni dei vari accordi internazionali intervenuti finora tra gli Stati» (Fulci, L., Sentenza penale straniera, in Enc. dir., XLI, Milano, 1989, 1334).
In realtà, quattro possono essere le finalità sottese alla richiesta di riconoscimento: a) per gli effetti previsti dal codice penale (art. 730 c.p.p.); b) per gli effetti civili (art. 732 c.p.p.); c) per le disposizioni civili di sentenze penali straniere (art. 741 c.p.p.); d) per l’esecuzione dei capi penali a norma di accordi internazionali (art. 731 c.p.p.). E se, come visto, nell’ambito dell’Unione europea, opera attualmente la disciplina di cui al d.lgs. n. 161/2010 (sempre che gli altri Paesi abbiano recepito anche loro la decisione quadro), in ambito extraeuropeo esistono diversi accordi sottoscritti dallo Stato italiano con altri Paesi (per un elenco completo di tali accordi bilaterali, v. www.giustizia.it).
Non vi può essere alcun effetto riconducibile alla sentenza non ancora riconosciuta, anche perché, per il legislatore sostanziale, il presupposto essenziale per il riconoscimento della sentenza penale straniera è l’esistenza di un trattato di estradizione con lo Stato la cui autorità giudiziaria ha emesso il provvedimento (art. 12, co. 5, c.p.).
Nonostante l’esistenza della disposizione di carattere sostanziale, tuttavia il codice di rito ha conservato un discreto margine di autonomia, in quanto disciplina sì le modalità di esecuzione della pena del provvedimento emesso dall’autorità straniera, purché compatibile con l’ordinamento giudiziario italiano, ma, estendendo la gamma degli effetti delle sentenze straniere anche a quelli diversi da quanto previsto dall’art. 12 c.p., ha altresì ampliato le ipotesi per le quali è possibile il ricorso a tale procedura (nel caso, cioè, di specifiche previsioni e di diverse condizioni contemplate da accordi internazionali).
La mancanza di un trattato internazionale non è comunque più rilevante, dal momento che l’attuale disciplina prevede che il Ministro possa chiedere il riconoscimento della sentenza pur in mancanza di un accordo internazionale, purché però lo Stato richiedente fornisca le necessarie rassicurazioni in ordine alla compatibilità dell’ordinamento straniero con quello interno.
In pratica, l’assenza di accordi o trattati internazionali per il riconoscimento della sentenza straniera viene recuperata con la previsione dell’espressa richiesta del Ministro, subordinando tale impulso a valutazioni di carattere opportunistico che il Guardasigilli può effettuare alla luce di determinazioni politiche. Tuttavia, la verifica della compatibilità tra la sentenza straniera e l’ordinamento interno sembra costituire una sorta di condizione negativa, che ha alla propria base la particolare attribuzione al Ministro della giustizia di un potere discrezionale legato a ragioni di opportunità politica.
Perché il titolo possa essere riconosciuto, deve consistere in una sentenza penale, anche se per provvedimenti di condanna si devono intendere pure le sentenze di applicazione di pena su richiesta delle parti e i decreti penali di condanna, ovvero tutti gli atti assimilati a dette decisioni giudiziarie.
In considerazione dell’eseguibilità delle sentenze straniere “come fossero italiane” è tassativo rispettare sempre i presupposti previsti dall’art. 733 c.p.p., che, schematicamente, consistono: a) nella “irrevocabilità” secondo le leggi dello Stato in cui è stata emessa la sentenza di cui si chiede il riconoscimento; b) nella mancanza di disposizioni contrarie ai princìpi fondamentali dell’ordinamento italiano; c) nell’accertare che il condannato abbia avuto un “giusto processo” e che la pronuncia sia compatibile con i diritti minimi riconosciuti dal nostro Paese all’imputato, ossia che il provvedimento sia stato emanato da un giudice indipendente ed imparziale, che l’imputato sia stato citato regolarmente in giudizio, che gli sia stato riconosciuto il diritto ad essere interrogato in una lingua a lui comprensibile con l’assistenza di un difensore; d) nell’accertamento circa l’assenza di discriminazioni (per motivi di razza, religione, sesso, nazionalità, lingua, opinioni politiche, o condizioni personali o sociali) subite dall’imputato nel corso del processo che abbiano potuto influire sullo svolgimento dello stesso; e) il rispetto del principio della “doppia incriminabilità”, ossia che il provvedimento abbia avuto ad oggetto fatti previsti come reato anche dall’ordinamento italiano; f) nell’accertamento che non sia stata pronunciata sentenza irrevocabile dall’autorità giudiziaria italiana per lo stesso fatto e nei confronti della medesima persona; g) nell’accertamento che nello Stato non sia pendente un procedimento penale, anche se non definito, per lo stesso fatto e nei confronti della medesima persona.
Sotto quest’ultimo profilo, la soluzione adottata dal legislatore del 1988, che ha esteso l’operatività del principio del ne bis in idem anche ai procedimenti in corso, è sicuramente condivisibile ed apprezzabile, anche perché, pur ispirandosi alla ratio di salvaguardare il principio della sovranità territoriale (tendente ad evitare che possa sorgere un contrasto di giudicati e, soprattutto, che debba essere data esecutività ad una sentenza straniera sebbene, per quello stesso fatto, vi sia pronuncia giurisdizionale dello Stato italiano), rafforza il divieto del doppio giudicato, dal momento che si prevede addirittura la preclusione al riconoscimento in presenza di un procedimento già pendente, pur se non ancora definito, contro la medesima persona e per lo stesso fatto.
E un rafforzamento di tale principio nello sforzo del legislatore italiano lo si coglie altresì nell’art. 739 c.p.p., laddove la norma prevede che nei casi di riconoscimento ai fini dell’esecuzione della sentenza straniera, salvo che si tratti dell’esecuzione di una confisca, il condannato non può essere estradato né sottoposto di nuovo a procedimento penale nello Stato per lo stesso fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze.
Tra i presupposti per il riconoscimento della sentenza penale straniera, stante il richiamo ai principi fondamentali del nostro ordinamento, la giurisprudenza ne ha poi individuato un altro, vale a dire l’accertamento circa il rispetto della garanzia del doppio grado di giurisdizione (Cass. pen., 31.10.2006, n. 38727).
In definitiva, perché possa esserci riconoscimento della sentenza straniera, la decisione deve essere scaturita da un “giusto processo”, ossia che abbia avuto le caratteristiche riconosciute dal Patto internazionale sui diritti civili e politici (art. 14) e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (art. 6).
E gli elementi “minimi” del giusto processo sono da individuarsi nel giudizio espresso da un «giudice indipendente e imparziale», nella regolarità della vocatio in iudicium, nella riconosciuta facoltà di “autodifesa”, incluso l’interrogatorio in lingua comprensibile con diritto all’assistenza tecnica; inoltre, deve essere un giudizio equanime e senza discriminazioni di sorta, nel rispetto del principio del ne bis in idem e del doppio grado di giurisdizione e, ovviamente, presupponendo l’esistenza necessaria della clausola della doppia incriminazione, non essendo possibile l’esecuzione di una sentenza straniera per un fatto che non sia previsto come reato dalla legge italiana, indipendentemente dagli effetti per i quali viene richiesto il riconoscimento.
Sebbene il legislatore del 1988 abbia inteso distinguere le finalità del riconoscimento (per gli effetti previsti dal codice penale, sulla scorta di accordi internazionali e per stabilire gli effetti civili), tuttavia la procedura risulta essere unica, con una distinzione solo in merito al ruolo dei soggetti coinvolti (Ministro della giustizia, procuratore generale e Corte d’appello), alle loro specifiche funzioni e alla legittimazione ad attivare tale procedimento.
Inoltre, è evidente che, in ogni caso di riconoscimento, il provvedimento estero riconosciuto sarà eseguito secondo la legge italiana, con la conseguente applicabilità degli istituti dell’ordinamento interno previsti dal libro X del codice di rito, nonché dalle norme di “ordinamento penitenziario”.
Nel caso di riconoscimento per gli effetti penali, a sollecitare la procedura è il Ministro della giustizia che, quando riceve una sentenza di condanna o di proscioglimento (cui può conseguire l’applicazione di una misura di sicurezza, ai sensi del n. 3 dell’art. 12 c.p.), la trasmette, senza ritardo, al procuratore generale presso la Corte d’appello competente, con la traduzione e con tutti gli atti ad essa allegati. Trasmette, altresì, anche la richiesta indicata ai sensi dell’art. 12, co. 2, c.p., ossia la richiesta che il Ministro presenta per il riconoscimento, quando non sussista un trattato di estradizione con il Paese che ha emesso il provvedimento di cui si chiede il riconoscimento, anche se tale richiesta non occorre se viene proposta istanza per il riconoscimento agli effetti delle restituzioni o del risarcimento del danno, ovvero deve, comunque, esser fatta valere in giudizio nel territorio dello Stato, agli effetti delle restituzioni o del risarcimento del danno, o ad altri effetti civili (art. 12 n. 4 c.p.).
Quindi, se il riconoscimento riguarda gli effetti dell’art. 12, co. 1, nn. 1, 2 e 3, c.p. (rispettivamente: recidiva, abitualità, professionalità o tendenza; pena accessoria; misura di sicurezza personale), il procuratore generale presso la Corte d’appello territorialmente competente (ovvero la Corte d’appello nel cui distretto ha sede il casellario giudiziale competente ai fini dell’iscrizione), investito della richiesta del Ministro, promuove la procedura di riconoscimento con richiesta alla Corte d’appello; a tal fine, può chiedere all’autorità straniera che ha emesso il provvedimento, tramite lo stesso Ministero, l’invio della documentazione e delle informazioni che ritiene opportune per l’esercizio del suo potere, così come può chiedere all’autorità straniera, direttamente o per mezzo del dicastero, l’invio del provvedimento per “rogatoria”: la valutazione della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 12 c.p. comporta la necessaria raccolta di tutte le informazioni opportune, anche attraverso lo stesso Guardasigilli.
Il procuratore generale ha però anche un’autonomia di iniziativa quando venga a conoscenza dell’esistenza della sentenza direttamente dall’autorità estera, anche per il tramite del Ministero: se, infatti, in precedenza, l’impulso del procuratore generale presso la Corte d’appello era un atto di natura discrezionale (ai sensi di quanto desumibile dall’art. 672, co. 2, c.p.p. del 1930), nella disciplina vigente l’iniziativa dell’organo inquirente è atto dovuto, poiché l’indagine del procuratore generale cade su un complesso di condizioni concernenti l’osservanza di garanzie giurisdizionali, tant’è che la richiesta deve contenere l’indicazione degli effetti per i quali si domanda il riconoscimento.
Una volta ottenuta la documentazione necessaria per l’inoltro della richiesta di riconoscimento, il procuratore generale investe della decisione la Corte d’appello, specificando nella richiesta le finalità del riconoscimento.
La richiesta vagliata dal Ministro della giustizia e trasmessa al procuratore generale non è tuttavia vincolante. Secondo un consolidato orientamento interpretativo, infatti, il procuratore generale non è obbligato a procedere esclusivamente per i fini individuati dal Ministro, in quanto l’art. 730, co. 2, c.p.p. gli attribuisce autonomia di azione (V., sul punto, Cass. pen., 16.06.2004, n. 31515).
Tra gli “altri effetti” seguenti al riconoscimento della sentenza straniera e previsti dal codice di procedura penale, l’ambito più rilevante è proprio quello per l’esecuzione della pena contenuta nel provvedimento straniero, sempre che tale forma di cooperazione sia disciplinata da accordi internazionali.
Tant’è che quando il riconoscimento della sentenza straniera sia richiesto a norma degli accordi internazionali, l’art. 731 c.p.p. fissa una procedura leggermente diversa: se ai sensi dell’art. 730 c.p.p. il Ministro si limita a trasmettere quanto ricevuto, nel caso previsto dall’art. 731, è il Ministro a richiedere espressamente il riconoscimento per tutti gli altri effetti, diversi da quelli previsti dal codice penale.
Sebbene non vi sia una procedura ad hoc, siffatti effetti sono i più rilevanti, poiché non presuppongono un riconoscimento finalizzato all’utilizzazione del giudicato straniero per effetti penali o civili, bensì per l’esecuzione delle disposizioni contenute nel provvedimento di condanna, anche se si tratti solo di una misura di sicurezza patrimoniale e non necessariamente di una pena detentiva.
La procedura sembra ricalcare pedissequamente quella prevista dall’art. 730 c.p.p., anche se in questo caso (art. 731 c.p.p.) il procedimento di riconoscimento è caratterizzato da una certa discrezionalità, poiché occorre rifarsi all’accordo pattizio sottoscritto.
Ulteriore elemento di differenziazione dalla procedura di cui all’art. 730 c.p.p. è la possibilità di riconoscere un provvedimento diverso da una sentenza, ma che sia comunque ad essa parificabile, per espressa previsione del co. 1 bis dell’art. 731 c.p.p.
A tale scopo, il Ministro trasmette al procuratore generale (presso la Corte d’appello nel distretto della quale ha sede l’ufficio del casellario giudiziale del luogo di nascita della persona cui è riferito il provvedimento giudiziario straniero, o, diversamente, presso la Corte d’appello di Roma) una copia della sentenza tradotta, nonché tutta la documentazione e tutte le informazioni utili e necessarie al riconoscimento (tra l’altro, per come previsto dall’art. 201 disp. att. c.p.p., le domande provenienti da un’autorità straniera, nonché i relativi atti e documenti, devono essere accompagnati da una traduzione in lingua italiana).
Se eventualmente proposta, il Ministro trasmette anche la domanda di esecuzione nello Stato da parte del Paese straniero, ovvero un atto da cui si evinca il nulla osta alla esecuzione in Italia.
Allo stesso modo, la medesima procedura si applica anche quando il provvedimento dell’autorità straniera (pur se diverso da una sentenza) contenga disposizioni circa l’esecuzione di una confisca, così come previsto dall’art. 731, co. 1 bis, c.p.p.
Il d.lgs. n. 161/2010 ha attuato nel nostro ordinamento la Decisione Quadro 2008/909/GAI relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale ai fini della loro esecuzione nell’Unione Europea con la specifica finalità di consentire l’esecuzione di una sentenza di condanna pronunciata dall’autorità giudiziaria di uno Stato membro dell’Unione europea nello Stato membro di cittadinanza della persona condannata o in un altro Stato membro che abbia espresso il consenso a riceverla.
Ai sensi dell’art. 22, il decreto non pregiudica comunque gli obblighi internazionali dello Stato italiano quando la persona condannata deve essere trasferita da o verso uno Stato terzo.
Premesso il carattere profondamente innovativo della normativa in esame, l’ambito applicativo dell’istituto del riconoscimento presenta tuttavia dei punti di contatto con la procedura dettata dalla Convenzione sul trasferimento delle persone condannate, adottata a Strasburgo il 21.3.1983 (e ratificata in Italia con l. 25.7.1988, n. 334) e con quella del “mandato di arresto europeo” (di cui alla decisione quadro 2002/584/GAI, attuata in Italia con l. 22.4.2005, n. 69).
A differenza di quanto avviene con la Convenzione di Strasburgo sul trasferimento dei condannati, però, il riconoscimento della sentenza non presuppone, almeno nella maggior parte dei casi (v. artt. 5, co. 4, e 10, co. 4), la condizione di detenzione del soggetto, né per l’eventuale trasferimento occorre necessariamente il “consenso” della persona condannata: l’unico presupposto richiesto per il riconoscimento è quello della presenza del soggetto nello Stato membro di emissione della sentenza o in quello di esecuzione della stessa (sul punto, si veda, da ultimo, C. cost., 21.6.2010, n. 227, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, co. 1, lett. r), della l. n. 69/2005 nella parte in cui non prevede il rifiuto di consegna anche del cittadino di un altro Paese membro dell’Unione europea, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, ai fini dell’esecuzione della pena detentiva in Italia conformemente al diritto interno).
Nell’ambito della disciplina dettata dalla decisione quadro – così come per l’estradizione e il mandato d’arresto europeo –, ai fini dell’individuazione delle funzioni svolte dagli organi interessati, esistono una procedura di consegna attiva (quando è l’Italia a chiedere il riconoscimento) e una passiva (quando è l’Italia ad essere richiesta del riconoscimento).
Nella procedura attiva, l’autorità italiana competente a chiedere l’esecuzione all’estero della sentenza di condanna è l’ufficio del pubblico ministero presso il giudice indicato all’art. 665 c.p.p. per ciò che riguarda l’esecuzione delle pene detentive, mentre per l’esecuzione di misure di sicurezza personali detentive è quello individuato ai sensi dell’art. 658 c.p.p. (art. 4 d.lgs. cit.).
Al contrario, nella procedura passiva è la Corte d’appello del distretto in cui è avvenuto l’arresto della persona condannata oppure di quello del luogo di residenza, dimora o domicilio della stessa (art. 9 d.lgs. cit.) ad essere competente a decidere sulla richiesta di esecuzione in Italia di una decisione straniera.
La Corte, entro 60 giorni (prorogabili di altri 30 in casi eccezionali), provvede a riconoscere la sentenza straniera di condanna in base alla documentazione trasmessa (richiesta di riconoscimento, certificato contenente l’ordine europeo di trasferimento redatto secondo il modulo allegato alla decisione quadro, sentenza di condanna, eventuale parere o consenso della persona condannata), salvo la ricorrenza di uno o più dei motivi tassativi di rifiuto previsti dall’art. 13 dello stesso d.lgs. n. 161/2010.
La decisione della Corte d’appello è ricorribile per cassazione.
In tale procedura, il ruolo del Ministero della giustizia è ben definito: salvo il ricorso alla corrispondenza diretta tra le autorità giudiziarie competenti, esso trasmette e riceve le sentenze e il certificato contenente l’ordine europeo di trasferimento redatto secondo il modulo allegato alla decisione quadro, nonché tutta la relativa corrispondenza, compresa l’informazione allo Stato estero circa l’esito della procedura, così come l’autorità giudiziaria italiana, nel caso di corrispondenza diretta con l’autorità straniera, è tenuta ad informare costantemente il Ministero della trasmissione o ricezione degli atti, ai sensi di quanto previsto dall’art. 3 del d.lgs. n. 161/2010.
Il Ministero, poi, deve attivarsi per concludere accordi con le autorità estere per l’esecuzione del trasferimento delle persone condannate (artt. 7 e 16, d.lgs. n. 161/2010) e, proprio a garanzia del sempre maggiore automatismo della procedura di riconoscimento, ai sensi dell’art. 10 del medesimo decreto, il Ministro della giustizia deve anche manifestare, contestualmente, il consenso all’esecuzione in Italia di una sentenza emessa nei confronti di soggetti che non siano cittadini italiani.
La finalità di riconoscimento della sentenza penale per gli effetti civili rappresenta un tertium genus, poiché può avvenire anche in assenza di accordi e trattati estradizionali, essendo sufficiente accertare solo che, ai sensi del n. 4 dell’art. 12 c.p., la sentenza sia stata pronunciata per un reato che sia delitto per l’ordinamento interno.
È indispensabile, però, che la sentenza di condanna contenga, seppur genericamente, una disposizione in tal senso, in modo da consentire al giudice italiano, in sede di riconoscimento, di procedere alla quantificazione del danno ai sensi dell’art. 651 c.p.p.
Questa peculiarità è ancor più marcata laddove si pensi che, nel caso in cui le disposizioni civili della sentenza straniera abbiano un contenuto determinato, il riconoscimento deve avvenire ad opera dell’art. 741 c.p.p. e non ai sensi dell’art. 732 c.p.p. Tale procedura consente che nel nostro Paese si producano gli effetti previsti dall’ordinamento straniero, analogamente a quanto avviene per il riconoscimento di sentenze civili, così come disciplinate dal codice di procedura civile.
Nel caso la richiesta di riconoscimento tenda a far eseguire le disposizioni penali di una sentenza straniera per gli effetti civili (art. 732 c.p.p.), è legittimato a proporre la richiesta di riconoscimento della sentenza straniera, oltre al procuratore generale, anche il privato che abbia interesse a farla valere in giudizio nello Stato italiano, quando però dimostri di avere interesse alla restituzione, al risarcimento del danno o agli altri effetti civili legati alla pronuncia dell’autorità giudiziaria straniera, intendendosi, con quest’ultima locuzione, tutti gli effetti non penali e «non quindi soltanto quelli direttamente ricollegabili al diritto privato» (così, Marchetti, M. R., voce Valore ed effetti della sentenza penale straniera, in Dig. pen., XV, Torino, 1999, 180).
Quando si procede alla verifica del rispetto delle condizioni di cui agli artt. 730-733 c.p.p., la Corte d’appello ha una legittimazione analoga a quella riconosciuta alla Corte di cassazione nello “screening” di ammissibilità dei ricorsi ai sensi di quanto disposto dall’art. 610 c.p.p.
Negli altri casi, la Corte d’appello ha una competenza funzionale di giudice dell’esecuzione, in ossequio a quanto previsto dall’art. 735 c.p.p. in combinato disposto con l’art. 738 c.p.p.
La Corte decide con sentenza ricorribile per cassazione all’esito di un’udienza camerale, alla quale ha diritto di partecipare il condannato che, se non assistito da un difensore di fiducia, viene tutelato con la nomina di uno di ufficio. Ha diritto di partecipare anche il privato terzo, unitamente al suo difensore, che eventualmente abbia proposto domanda di riconoscimento agli effetti civili. Se v’è riconoscimento, la sentenza deve indicare espressamente gli effetti del riconoscimento stesso.
La Corte d’appello – oltre a determinare la pena da eseguire, a dare esecuzione ai provvedimenti di confisca ed applicare, eventualmente, misure cautelari – deve, innanzitutto, formare il titolo che andrà eseguito, ordine che non potrà certo essere costituito dalla sentenza straniera, ma sarà quel titolo composto, in virtù di quanto previsto dall’art. 650 c.p.p., dalla summa di ciò che era l’originario titolo straniero – che non sarebbe sufficiente ad acquisire forza esecutiva – con il provvedimento di assimilazione, che consente al provvedimento estero di produrre i suoi effetti, una volta che l’autorità giudiziaria italiana abbia accertato la possibilità di recepirlo.
Una volta che la Corte d’appello abbia riconosciuto la condanna penale straniera, ritenuta pacificamente quale accertamento definitivo della responsabilità del condannato, la pena da scontare non può differire nella specie, né eccedere in quantità la misura stabilita dalla legge territoriale; inoltre, le norme penali straniere che stabiliscono una sanzione concreta devono essere convertite in quelle equivalenti previste dall’ordinamento interno: in sostanza, il giudice italiano deve assicurarsi che il quantum di pena irrogata dallo Stato estero non ecceda il limite massimo previsto per lo stesso fatto dalla legge italiana, né superi quella stabilita dalla sentenza straniera e, nel determinare la pena finale da eseguire, deve basarsi su criteri di proporzionalità ed adeguatezza, tenendo conto sia della natura della pena irrogata all’estero, sia di quella prevista dalla legge italiana per il medesimo fatto.
L’operazione di adattamento della pena deve essere effettuata rispettando la decisione straniera con riferimento al complessivo trattamento che, in virtù di tale titolo e nell’ambito della relativa disciplina, è comminato al soggetto, di modo che tale trattamento non possa essere più grave di quello derivante dall’applicazione della normativa straniera (cfr. Cass. pen., 3.11.1995, n. 3950).
L’estinzione della pena nello Stato di condanna non preclude il riconoscimento della sentenza penale straniera (Cass., 31.1.2007, n. 6865) e, nella procedura di adeguamento, i giudici della Corte d’appello devono tener conto dei “benefici” già acquisiti dal condannato durante l’esecuzione all’estero (Cass. pen., 19.9.2005, n. 45715).
Inoltre, se la sentenza straniera non ha determinato l’entità della pena, spetta alla Corte d’appello stabilire, ovviamente, la quantità di pena da irrogare, tenendo conto, però, degli istituti stranieri che possano in qualche modo essere riconducibili, per analogia, agli istituti della sospensione condizionale della pena e della liberazione condizionale.
Secondo un criterio analogo a quello stabilito dal combinato disposto degli artt. 655 e 665 c.p.p, una volta riconosciuto il titolo, alla sua esecuzione procede il procuratore generale presso la corte di appello che ha deliberato il riconoscimento; quest’organo giurisdizionale è equiparato, ad ogni effetto, al giudice che ha pronunciato sentenza di condanna in un procedimento penale ordinario (art. 738, co. 2, c.p.p.).
Nelle more della procedura di riconoscimento, la Corte d’appello, su richiesta del procuratore generale, può disporre l’applicazione di “misure coercitive” (se il riconoscimento è chiesto ai fini dell’esecuzione di una sentenza straniera che abbia irrogato una pena restrittiva della libertà personale) (art. 736 c.p.p.) e può ordinare il “sequestro” delle cose assoggettabili a confisca, qualora il riconoscimento sia finalizzato all’esecuzione di una “confisca” (art. 737 c.p.p.).
Inoltre, nei casi previsti da accordi internazionali, il procuratore generale presso la Corte d’appello competente, su richiesta trasmessa dal Ministro della giustizia, in pendenza della procedura di riconoscimento, può disporre indagini per l’identificazione e l’individuazione di beni (proventi del reato) che potrebbero essere oggetto di una successiva richiesta di esecuzione di confisca, con la conseguente ulteriore possibilità di disporne anche il sequestro.
Nei casi contemplati da specifici accordi internazionali o nell’ipotesi di richiesta di estradizione proveniente da altro Paese, l’esecuzione della sentenza penale italiana all’estero opera su iniziativa del Ministro della giustizia o, previo suo consenso, su richiesta inoltrata dallo Stato estero (art. 742, co. 1, c.p.p.), a seguito della positiva delibazione della Corte d’appello.
È possibile chiedere l’esecuzione all’estero di sentenze di assoluzione (contenenti, ad esempio, disposizioni in materia di confisca) e di condanna, sia a pene pecuniarie che a pene detentive, a condizione che: siano provvedimenti irrevocabili (ai sensi dell’art. 648 c.p.p.); vi sia compatibilità del sistema carcerario del Paese di esecuzione con le finalità socio-rieducative previste dal nostro ordinamento; vi siano specifici accordi internazionali.
Riguardo a quest’ultimo profilo, gli accordi prevalgono sulle norme di diritto interno: ciò significa che, nell’esaminare il rapporto tra le condizioni previste dal codice di rito e quelle contenute negli accordi internazionali, qualora queste ultime fissino tassativamente i requisiti per chiedere l’esecuzione all’estero della sentenza italiana, non potrà trovare applicazione la procedura stabilita dal codice. Invero, se non v’è un carattere tassativo contenuto nelle convenzioni internazionali, allora vi potrà essere integrazione tra norme pattizie e disposizioni codicistiche.
Inoltre, perché possano eseguirsi pene restrittive della libertà personale, è necessario che il condannato, edotto delle conseguenze, dichiari di acconsentirvi, a condizione che l’esecuzione nello Stato estero sia in grado di permettere il reinserimento sociale del condannato (art. 742, co. 2, c.p.p.), così come previsto dall’art. 27, co. 3, Cost., oppure – anche se non ricorrono tali condizioni – quando il condannato si trovi nel territorio dello Stato richiesto e l’estradizione è stata negata o non è comunque possibile (art. 742, co. 3, c.p.p.).
Pertanto, è necessario che il condannato sia informato chiaramente delle conseguenze del suo assenso e di ciò la Corte d’appello procedente deve accertare, facendo risultare il consenso da verbale sottoscritto dal condannato immediatamente acquisito dal giudice; se, invece, il condannato si trova all’estero, l’autorità consolare italiana territorialmente competente deve raccogliere l’atto di intendimento, anche se non è esclusa l’acquisizione da parte di un giudice dello Stato straniero, la cui competenza è stabilita in base alle proprie leggi.
La necessità del consenso del condannato è da ricercarsi esclusivamente nell’esigenza di tutelare la persona da eventuali, ma possibili, vessazioni o discriminazioni, proprio in considerazione della sua condizione di straniero.
A tal riguardo, l’art. 744 c.p.p. prevede delle espresse cautele per una migliore salvaguardia della integrità psico-fisica e morale del condannato, laddove stabilisce che, qualora sussista un fondato motivo di ritenere che il soggetto possa essere sottoposto a trattamenti persecutori per motivi di razza, di religione, di sesso, di nazionalità, di lingua, di opinioni politiche o di condizioni personali o sociali ovvero a pene o trattamenti crudeli, disumani e degradanti, il Ministro, in nessun caso, può domandare l’esecuzione all’estero, proprio per evitare che la sentenza di condanna rimanga “concretamente ineseguita” dal punto di vista della risocializzazione.
Una volta che intervenga la preliminare e positiva valutazione da parte del Ministro della giustizia (il quale opera una valutazione di opportunità politica e sotto il profilo più strettamente giuridico verifica l’esistenza dei presupposti e delle condizioni fissati dalla legge per l’esecuzione), la pronuncia della Corte d’appello competente per territorio – in ragione del distretto ove è stata pronunciata la condanna – è condizione necessaria per decidere sulla domanda di esecuzione all’estero (art. 743, co. 1, c.p.p.).
Richiesto dal Ministro, il procuratore generale presso la Corte d’appello competente – che può attivarsi anche per un’integrazione degli accertamenti eseguiti sulla sentenza in fase di delibazione “amministrativa” – ha l’obbligo di promuovere la procedura camerale ex art. 127 c.p.p. – in cui va anche raccolto necessariamente il consenso del condannato – che si conclude con sentenza, ricorribile per cassazione.
In attesa della decisione sulla domanda di esecuzione di una condanna a pena detentiva, il Ministro può richiedere una misura cautelare personale nei confronti del condannato, a condizione però che il condannato si trovi all’estero; se, invece, ha domandato l’esecuzione ai fini di una confisca, il Ministro ha altresì la facoltà di richiedere il sequestro del bene che potrebbe essere oggetto di misura di sicurezza patrimoniale e, nei casi previsti da accordi internazionali, lo svolgimento di indagini per l’individuazione di tutti i beni riconducibili al reato accertato nella sentenza di cui si chiede l’esecuzione all’estero (art. 745 c.p.p.).
Quando si parla di esecuzione della pena all’estero non si ha riguardo solamente a quelle privative della libertà personale, ma ad ogni tipo di sanzione afflittiva, sicché l’esecuzione di un provvedimento definitivo all’estero impone la necessità di contemperare le norme dei Paesi coinvolti nella procedura: ad es., l’art. 746 c.p.p. prevede che, dal momento in cui inizia l’esecuzione nello Stato richiesto – e per tutta la sua durata –, l’esecuzione della pena nello Stato italiano è sospesa e non può più essere eseguita in Italia la pena che, secondo le leggi dello Stato richiesto, sia stata interamente espiata, mentre rimane riservata allo Stato estero la possibilità di riconoscere al condannato tutti i benefici che riguardano l’esecuzione della pena (ad es., amnistia, grazia, commutazione della condanna, etc.).
Come già si è avuto modo di accennare, per l’esecuzione all’estero di una sentenza italiana nell’ambito dei Paesi che hanno recepito la Decisione Quadro 2008/909/GAI deve essere azionata la procedura attiva di consegna di trasmissione all’estero (prevista dall’art. 4 d.lgs. n. 161/10), risultando inapplicabili le disposizioni codicistiche.
Artt. 730-746 c.p.p.; art. 12 c.p.; d.lgs. 7.9. 2010, n.161, Disposizioni per conformare il diritto interno alla Decisione quadro 2008/209/GAI relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale ai fini della loro esecuzione nell’Unione europea; l. 20.12. 2012, n. 237, Norme per l’adeguamento alle disposizioni dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale.
Allegra, G., Il riconoscimento della sentenza penale straniera, Milano, 1943, 98; Bonadio, G., Commento all’art. 12, in Codice penale ipertestuale, a cura di M. Ronco, e S. Ardizzone, Torino, 2007, 106 ss.; Capaldo, G., «Sub artt. 742-746 c.p.p.», in Comm. c.p.p. Chiavario, vol. VI, 1991, Torino, 855 ss.; Corbetta, S., La valutazione della “doppia incriminabilità” nella fase cautelare della procedura estradizionale, in Il Quotidiano Giuridico, Milano, 2008; Cordero, F., Procedura penale, IX ed., Milano, 2012, 1267 ss.; Dalia, A.A.- Ferraioli, M., «L’esecuzione all’estero e il riconoscimento di provvedimenti giurisdizionali penali», in Manuale di diritto processuale penale, VIII ed., Padova, 2014, 803 ss.; Dalia, A.A.- Ferraioli, M., «Il riconoscimento di sentenze penali straniere», in Manuale di diritto processuale penale, VII ed., Padova, 2010, 839 ss.; Dean, G., Applicabile nella fase esecutiva la disciplina della continuazione a condanne riportate all’estero?, in Dir. pen. e processo, 1997, 1387; Dean, G., Ideologie e modelli dell’esecuzione penale, Torino, 2004, 70 ss.; Diotallevi, G., «Sub artt. 730- 741 c.p.p.», in Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, a cura di G. Lattanzi e E. Lupo, X, Milano 2012, 389; Diotallevi, G., I limiti del controllo di legalità della corte d’appello nel caso di esecuzione della pena all’estero, in Cass. pen., 1997, 168 ss; Fois, R., I limiti del sindacato della corte d’appello sulla richiesta di esecuzione all’estero delle sentenze penali italiane, Cass. pen., 2000, 1371 ss.; Fulci, L., voce Sentenza penale straniera, in Enc. dir., XLI, Milano, 1989, 1334; Gaito, A., Dei rapporti giurisdizionali con autorità straniere, Padova, 1985, 204; Gaito, A.-Ranaldi, G., L’esecuzione penale, Milano, 2005, 103 ss.; Galantini, N., Evoluzione del principio del ne bis in idem europeo tra norme convenzionali e norme interne di attuazione, in Dir. pen. e processo, 2005, 1567; Giacalone, D., Gli effetti delle sentenze penali straniere e l’esecuzione all’estero di sentenze penali italiane, in Doc. giustizia, 1995, 87; Laszloczky, P., «L’esecuzione extraterritoriale del giudicato secondo il nuovo codice di procedura penale», in Indice pen., 1991, 80; Marchetti, M.R., «Rapporti giurisdizionali con autorità straniere», in Compendio di procedura penale, a cura di G. Conso e V. Grevi, Padova, 2012, 1099 ss; Marchetti, M.R., «Valore ed effetti della sentenza penale straniera», in Dig. pen., XV, Torino 1999, 178; Marchetti, M.R.«L’assistenza giudiziaria internazionale», Milano, 2005; Marchetti, M.R., «Sub art. 16 L. 5.10.2001, n. 367», in Legisl. pen., 2002, 749 ss.; Marchetti, M.R., «Sub art. 12, l. 9 agosto 1993, n. 328», in Legisl. pen., 1994, 446 ss.; Pittaro, P., «Effetti delle sentenze penali straniere. Esecuzione all’estero delle sentenze penali italiane», in Comm. c.p.p. Chiavario, VI, Torino, 1991, 836 ss.; Pisani, M., «Gli “altri effetti civili” (art. 732 c.p.p.) del riconoscimento della sentenza penale straniera», in Riv. dir. proc. pen., 2002, 381; Pisani, M., Rapporti giurisdizionali con autorità straniere, in Pisani, M.-Molari, A.-Perchinunno, V.-Corso, P.-Gaito, A.-Spangher, G., Manuale di procedura penale, VIII ed., Bologna, 2008, 641 ss.; Pisani, M.-Mosconi, F.-Vigoni, D., «Codice delle convenzioni di estradizione e di assistenza giudiziaria in materia penale», Milano, 2004; Salvini, G., voce Sentenza, Riconoscimento delle sentenze penali straniere, in Enc. giur. Treccani, Milano, 1992, 4; Vigoni, D., «Sub artt. 730-746», in Comm. c.p.p. Giarda-Spangher, IV ed., Milano, 2010, 8334 ss.; Zappalà, E., «I rapporti giurisdizionali con autorità straniere», in Diritto processuale penale, (a cura di) AA. VV., vol. II, Milano, 2011, 703 ss.