Esecuzione e sospensione delle sentenze tributarie
Il contenzioso fiscale, anche per la continua evoluzione degli istituti di diritto tributario, è caratterizzato da un numero elevatissimo di controversie e da una forte domanda di sospensione della riscossione da parte dei contribuenti. Ciò ha motivato l’introduzione di norme finalizzate al rafforzamento della tutela giurisdizionale e tra le novità di maggiore rilevanza possono essere annoverate quelle relative all’immediata esecutorietà della sentenza, estesa a tutte le parti del giudizio, e alla connessa uniformazione e generalizzazione degli strumenti di tutela cautelare, sebbene nel mantenimento del criterio di riscossione frazionata del tributo in pendenza del giudizio. Saranno dunque messi a fuoco gli istituti richiamati, al fine di individuare gli aspetti di novità e le questioni tuttora aperte.
Col fine di attuare la delega contenuta nell’art. 10 l. 11.3.2014, n. 23, nell’ottica del rafforzamento della tutela giurisdizionale del contribuente, il d.lgs. 24.9.2015, n. 156, ha apportato rilevanti modifiche alle disposizioni processuali di cui al d.lgs. 31.12.1992, n. 546, in dichiarata considerazione di un mutato contesto macroeconomico e di un sistema caratterizzato da modelli di riforma relativi alla maggior parte dei tributi.
Per importanza spiccano le novità relative all’esecutorietà immediata delle sentenze delle commissioni tributarie: da un lato, nei giudizi promossi avverso gli atti relativi alle operazioni catastali; dall’altro, nelle fattispecie di condanna dell’amministrazione al pagamento di somme, eventualmente dietro prestazione di idonea garanzia in caso di importi superiori a diecimila euro.
Il legislatore ha invece deciso di tenere fermo il criterio della riscossione frazionata del tributo in pendenza di giudizio, col fine di non aggravare gli obblighi di versamento dei contribuenti dinanzi a pretese tributarie non ancora definitivamente accertate in ambito giurisdizionale.
All’opzione per l’esecutorietà immediata delle sentenze tributarie ha fatto poi da contrappeso la rivisitazione della disciplina della tutela cautelare, estesa ormai a tutte le fasi del processo, mediante la codificazione dei principi già enucleati dalla giurisprudenza di legittimità e dalla Corte costituzionale.
Il quadro delle innovazioni è stato infine completato mediante la previsione del giudizio di ottemperanza come unico meccanismo processuale di esecuzione delle sentenze, passate in giudicato o meno, con esclusione di ogni residua possibilità di ricorso all’ordinaria procedura esecutiva, prima invece contemplata dal d.lgs. n. 546/1992. Le disposizioni del decreto di riforma sono entrate in vigore con termini differenziati, tra il 1° gennaio e il 1° giugno 2016 a seconda dell’ambito di incidenza.
Ben vero, in prospettiva di rafforzamento immediato della tutela giurisdizionale, sono state concepite come operanti in relazione a tutti i giudizi al momento pendenti.
Nella Relazione illustrativa del d.lgs. n. 156/2015 è stata evidenziata l’inopportunità di un’applicazione limitata ai soli nuovi giudizi, posto che un tale diverso sistema avrebbe determinato l’introduzione di un “nuovo rito” coesistente col vecchio per le cause anteriori, e generato quindi confusione e incertezze tra gli operatori.
Le nuove disposizioni impongono di esaminare in modo più approfondito i principali temi ivi trattatati.
La «immediata esecutorietà, estesa a tutte le parti in causa, delle sentenze delle commissioni tributarie» costituisce espressione del principio di delega dettato dall’art. 10, co. 1, lett. b), n. 10, l. n. 23/2014.
L’anteriore disciplina dell’esecuzione delle sentenze tributarie era invece basata su un trattamento differenziato in ragione del tipo di controversia.
Sinteticamente, il sistema era concentrato su tre norme:
a) l’art. 68, co. 2, d.lgs. n. 546/1992, per i giudizi aventi a oggetto gli atti impositivi, obbligava l’ufficio, in caso di sentenza favorevole al contribuente, a effettuare entro novanta giorni il rimborso di ciò che era stato pagato in eccedenza rispetto a quanto statuito dalla sentenza emessa dalla commissione tributaria;
b) l’art. 69, per i giudizi aventi a oggetto il diniego espresso o tacito alla restituzione di quanto spontaneamente versato, prevedeva che il contribuente dovesse attendere il passaggio in giudicato della sentenza per ottenere l’esecuzione;
c) egualmente, l’art. 69 bis imponeva di aver riguardo al giudicato della sentenza favorevole al contribuente per i ricorsi proposti avverso gli atti relativi a operazioni catastali, ai fini del successivo aggiornamento degli atti del catasto.
Col d.lgs. n. 156/2015 il legislatore delegato ha riformato in modo sistematico i mentovati istituti:
i) per un verso, introducendo nel contesto del d.lgs. n. 546/1992 l’art. 67 bis, onde equiparare l’efficacia delle sentenze emesse dalle commissioni tributarie a quelle adottate nei giudizi civili e amministrativi;
ii) per altro verso abrogando l’art. 69 bis;
iii) per altro verso ancora modificando gli artt. 68, 69 e 70.
L’esito finale è che le sentenze emesse dalle commissioni tributarie nell’ambito di giudizi aventi a oggetto i dinieghi di rimborso e gli atti relativi alle operazioni catastali sono, oggi, tutte provvisoriamente esecutive, così come lo sono quelle disciplinate dall’art. 68, co. 2, emesse nei giudizi aventi a oggetto gli atti propriamente impositivi.
È bene peraltro distinguere la disamina alla luce dell’oggetto.
Quanto alle sentenze totalmente o parzialmente favorevoli all’ufficio, è stato confermato il meccanismo di riscossione frazionata del tributo e dei relativi interessi, in ragione degli esiti dei vari gradi di giudizio, ovvero sia:
a) per i due terzi dopo la sentenza della commissione tributaria provinciale che abbia rigettato il ricorso;
b) per l’ammontare risultante dalla sentenza che lo abbia accolto in parte (e comunque non oltre i due terzi);
c) per il residuo ammontare determinato dalla sentenza della commissione tributaria regionale.
A siffatto consolidato meccanismo di riscossione è stata aggiunta una disciplina specifica delle modalità di riscossione del tributo nei casi di giudizio di rinvio a seguito di una sentenza della Corte di cassazione e di mancata riassunzione. Dove è prevista la riscossione frazionata del tributo, dopo la sentenza della Corte di cassazione di annullamento con rinvio, l’imposta, coi relativi interessi, deve essere pagata per l’ammontare dovuto nella pendenza del giudizio di primo grado e, in caso di mancata riassunzione, per l’intero importo indicato nell’atto (art. 68, co.1, lett. c-bis, d.lgs. n. 546/1992).
Invero in tale ultima ipotesi, stando al regime ordinario previsto dall’art. 63, co. 2, d.lgs. n. 546/1992, peraltro replicante la disciplina generale di cui all’art. 393 c.p.c., se la riassunzione non avviene entro il termine di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza di Cassazione con rinvio, o se si configura una causa di estinzione del giudizio di rinvio, l’intero processo si estingue. E l’estinzione dell’intero processo comporta la caducazione di tutte le sentenze medio tempore pronunciate e la cristallizzazione dell’obbligazione tributaria come definita dall’atto oggetto di impugnazione; con conseguente esigibilità delle somme richieste con quel medesimo atto1.
Si può agevolmente dedurre che, in tal modo, il legislatore ha adeguato il testo della norma all’insegnamento giurisprudenziale, all’esplicito scopo di rendere chiare, soprattutto ai contribuenti, le conseguenze pregiudizievoli che derivano dall’eventuale mancata riassunzione, indipendentemente da quale sia la parte risultata vittoriosa in Cassazione.
Nel diverso caso in cui il giudizio di rinvio sia stato, invece, tempestivamente riassunto, la nuova previsione dell’art. 68, co.1, lett. c-bis) stabilisce che l’amministrazione riscuota il tributo per l’ammontare dovuto nella pendenza del giudizio di primo grado, in analogia a quanto previsto per la riscossione provvisoria nei casi di impugnazione dell’atto impositivo. E a tal riguardo può osservarsi che, ove una sentenza d’appello sia stata cassata con rinvio, è principio fermo nella giurisprudenza di legittimità che il giudizio di rinvio, di natura “chiusa”, per quanto dotato di una sua autonomia, non dà vita a un nuovo e ulteriore procedimento, ma rappresenta una fase ulteriore di quello originario, da ritenersi unico e unitario.
In sostanza l’autonomia del giudizio di rinvio non è altro che autonomia di una “fase” processuale, di natura rescissoria, dell’intero giudizio, sicché il procedimento nell’ambito del quale esso si svolge resta unico anche se articolato in fasi diverse, ognuna soggetta a propria disciplina2.
In ipotesi di riassunzione della causa, la circostanza che la sentenza cassata sia stata favorevole o sfavorevole all’amministrazione o al contribuente non è dunque più rilevante dal punto di vista giuridico, appunto perché, come chiarito, tale sentenza risulta definitivamente caducata. Lo può essere tuttavia dal punto di vista delle conseguenze restitutorie, in quanto se la sentenza cassata sia stata favorevole all’amministrazione, quest’ultima, in conseguenza della cassazione, è tenuta a operare uno sgravio; mentre, se la sentenza cassata sia stata favorevole al contribuente, l’amministrazione medesima è tenuta a nuovamente procedere a iscrizione a ruolo di un terzo del tributo oggetto del giudizio, e dei relativi interessi.
Il decreto di riforma ha inciso sull’art. 68, co. 2, d.lgs. n. 546/1992 in ordine alle decisioni favorevoli al contribuente.
È utile ripetere che la norma stabilisce, per l’ipotesi di accoglimento del ricorso, che il tributo corrisposto in eccedenza, con i relativi interessi, debba essere rimborsato d’ufficio nel termine di novanta giorni dalla notificazione della sentenza. E va rammentato che la posizione dell’amministrazione finanziaria è stata fin qui nel senso che, per dare esecuzione ai provvedimenti giudiziari e, in particolare, per procedere ai rimborsi ai sensi della norma citata, non occorre attendere la notifica della sentenza favorevole al contribuente, né alcuna specifica richiesta o sollecito3.
La riforma ha inciso sulla disposizione generale stabilendo che, in caso di mancata esecuzione del rimborso, il contribuente può richiedere l’ottemperanza a norma dell’art. 70 d.lgs. n. 546/1992, alla commissione tributaria provinciale, ovvero, se il giudizio è pendente nelle fasi successive, alla commissione tributaria regionale.
In tal modo è stata colmata una lacuna del sistema previgente, che vedeva il contribuente privo di rimedi giuridici di fronte all’inerzia dell’ente impositore che, all’esito di una sentenza favorevole al contribuente (per quanto non definitiva), avesse omesso di eseguire il rimborso delle somme medio tempore riscosse. Anche in questo caso può osservarsi che il rimedio prescelto è stato quello del giudizio di ottemperanza, da promuovere decorso il termine indicato nell’art. 68, co. 2, di novanta giorni dalla notificazione della sentenza senza che l’ufficio abbia provveduto al rimborso.
Se ne deduce che la notificazione della sentenza e il decorso dei novanta giorni concorrono a integrare, nell’ottica del legislatore delegato, il presupposto per la proposizione del ricorso in ottemperanza; sicché la notifica della sentenza resta a tal fine comunque necessaria anche laddove risulti che l’ufficio abbia fatto appello.
Il giudice competente per il giudizio di ottemperanza è individuato nella commissione tributaria provinciale o, in caso di pendenza del giudizio in secondo grado o in cassazione, nella commissione tributaria regionale.
Poiché le disposizioni sulla riscossione in pendenza di giudizio restano applicabili, esattamente come nella disciplina previgente, pure alla riscossione delle sanzioni, cui sono da correlare le modifiche che l’art. 10 del decreto di riforma ha apportato all’art. 19 d.lgs. 18.12.1997, n. 472, in tema di garanzie, consegue che, anche per la restituzione delle sanzioni corrisposte in eccedenza rispetto a quanto statuito dalla sentenza, il contribuente può ricorrere al rimedio dell’ottemperanza in caso di inerzia dell’ufficio, decorsi novanta giorni dalla notifica della sentenza medesima.
Nel riformulare l’art. 69 d.lgs. n. 546/1992, il legislatore delegato ha infine puntualizzato che sono immediatamente esecutive le sentenze emesse su ricorso avverso gli atti relativi alle operazioni catastali.
Ha poi contestualmente abrogato l’art. 69 bis, ai sensi del quale, nell’anteriore contesto, l’aggiornamento degli atti catastali veniva effettuato solo a seguito del passaggio in giudicato della sentenza.
In altre parole, per le sentenze concernenti gli atti relativi alle operazioni catastali, depositate a decorrere dall’entrata in vigore del decreto di riforma, l’aggiornamento degli atti catastali può (e deve) essere effettuato anche prima del (e prescindendo dal) passaggio in giudicato.
È il caso di puntualizzare che ciò comporta una vistosa eccezione al principio secondo il quale le sentenze di accertamento costitutivo – al cui novero appartengono quelle che qui rilevano – non sono ordinariamente suscettibili di esecuzione provvisoria.
Da tempo si insegna che, al di fuori delle statuizioni di condanna consequenziali, le sentenze di accertamento (così come quelle costitutive) non possiedono efficacia anticipata rispetto al momento del passaggio in giudicato, perché fino a quando la sentenza non è passata in giudicato non si può dire che le regole di condotta, in essa contenute, siano davvero vincolanti per le parti, e atteso che le norme che prevedono la provvisoria esecuzione di sentenze (art. 282 c.p.c.) sono riferite soltanto alle pronunce di condanna4.
I temi innanzi passati in rassegna aprono questioni emerse immediatamente in tutta la loro problematicità anche sotto il profilo applicativo.
Nel sistema riformato, all’immediata esecutorietà delle sentenze delle commissioni tributarie ha fatto da contraltare la modifica dell’art. 49 del d.lgs. n. 546/1992, essendo stato eliminato l’inciso originario di codesta norma che escludeva l’applicazione dell’art. 337 c.p.c. e la connessa possibilità di sospendere l’esecuzione della sentenza secondo le disposizioni, ivi richiamate, degli artt. 283, 373, 401 e 407 c.p.c.
Fatta salva la disciplina specifica del processo tributario, la disposizione ora contiene un generale rinvio alle norme sulla sospensione delle sentenze contenute nel titolo III, capo I, del libro II del c.p.c.
L’innovazione possiede indubbio valore sistematico, ma va tenuto conto di quanto era già possibile enucleare a livello interpretativo in base alle posizioni assunte dalla giurisprudenza.
La scelta di includere, tra le norme richiamate, l’art. 337 c.p.c. – con quanto ivi corredato – possiede una ratio conformativa, posto che sia la Corte costituzionale, sia la Corte di cassazione avevano già affermato la compatibilità della citata norma di rito civile con le specificità del processo tributario.
In particolare la Corte costituzionale era stata investita della questione di costituzionalità dell’art. 49, co. 1, d.lgs. 546/1992 in riferimento agli art. 3, co. 1, 24, 53, co. 1, 111, co. 1 e 2, Cost. e in relazione all’art. 6, co. 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e all’art. 113 Cost., per la mancanza di una previsione in ordine alla possibilità di sospendere l’esecutività della sentenza tributaria di appello impugnata con ricorso per cassazione, quando dalla sua esecuzione potesse derivare un «grave ed irreparabile danno».
E giova sottolineare che la questione era stata sollevata proprio in quanto il denunciato art. 49, co. 1, d.lgs. n. 546/1992 escludeva l’applicabilità dell’art. 373 c.p.c. alla sentenza suddetta.
Disattendendo la questione, la Corte costituzionale aveva ritenuto non condivisibile codesto presupposto, in mancanza di un diritto vivente suscettibile di legittimare l’interpretazione di eguale segno5. Sicché in definitiva aveva ritenuto plausibile un’interpretazione adeguatrice della disposizione censurata in senso non impeditivo della possibilità, per il giudice, di sospendere l’esecuzione delle sentenze tributarie d’appello ai sensi del citato art. 373 c.p.c.
Nella medesima direzione si era posta la Corte di cassazione, affermando il principio secondo cui al ricorso per cassazione avverso una sentenza delle commissioni tributarie regionali era da considerare applicabile la disposizione di cui all’art. 373, co. l, c.p.c.
Donde nel processo tributario non sarebbe stato legittimo negare la possibilità di far riferimento alla regola ordinaria, giusta la quale il giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata può, su istanza di parte e qualora dall’esecuzione possa derivare grave e irreparabile danno, disporre con ordinanza non impugnabile che l’esecuzione sia sospesa o che sia prestata congrua cauzione, ma semplicemente si poteva pretendere, in vista della specialità della materia tributaria e dell’esigenza che fosse garantito il regolare pagamento delle imposte, una rigorosa valutazione dei requisiti della sospensione6.
La novella, col fine di dirimere ogni ulteriore dubbio in proposito, ha avuto una funzione sostanzialmente chiarificatrice, eliminando l’ostacolo che testualmente si frapponeva, in astratto, all’ingresso nel contenzioso tributario delle norme processual-civilistiche sopra menzionate, e recependo in modo esplicito l’orientamento consolidatosi in capo alla giurisprudenza costituzionale e di legittimità.
Peraltro essa ha innovato la disciplina della fase cautelare, introdotta sul presupposto della richiamata modifica dell’art. 49, giacché codesta in buona parte oggi ricalca la procedura prevista dall’art. 47 d.lgs. n. 546/1992 per la sospensione dell’atto impugnato.
Difatti l’art. 52 del citato d.lgs. consente all’appellante di chiedere alla commissione tributaria regionale di sospendere in tutto o in parte (e quindi limitatamente ai capi sfavorevoli) l’esecutività della sentenza impugnata se sussistono “gravi e fondati motivi”, analogamente a quanto disposto dall’art. 283 c.p.c.
Dacché l’implicito riferimento ai consueti presupposti del fumus e del periculum in mora.
Nell’ottica del rafforzamento della tutela del contribuente, è a lui accordata la possibilità di richiedere in ogni caso la sospensione dell’esecuzione dell’atto se da questa possa derivargli un danno grave e irreparabile: sulla base, quindi, degli stessi presupposti previsti dall’art. 47 per la sospensione in primo grado.
La previsione, ben vero, appare di non agevole lettura, posto che la decisione contenuta nella sentenza tributaria assorbe e sostituisce, secondo un consolidato orientamento, sia la dichiarazione resa dal contribuente sia l’accertamento dell’amministrazione finanziaria7.
Mentre dalla norma sembrerebbe consentito al contribuente di ottenere la sospensione degli effetti dell’atto impugnato anche quando questo sia stato confermato – e sostituito – da una sentenza di merito.
Sul piano procedimentale, è da ritenere che, come per l’omologa ipotesi di cui all’art. 47, l’appellante possa presentare l’istanza di sospensione della sentenza, o dell’atto, unitamente al ricorso in appello (art. 53 d.lgs. n. 546/1992) o al ricorso incidentale (art. 54), o anche con atto separato.
Naturalmente l’accoglimento dell’istanza di sospensione di una sentenza sfavorevole al contribuente preclude l’applicazione degli artt. 68 d.lgs. n. 546/1992 e 19 d.lgs. n. 472/1997 in ordine alla riscossione in pendenza di giudizio, rispettivamente, dell’imposta e delle sanzioni; e ciò fino alla conclusione del giudizio di impugnazione, rendendo con ciò necessaria la conseguente sospensione anche delle attività esecutive relative all’atto impugnato.
Di contro, ove sia concessa a richiesta dell’ufficio la sospensione di una sentenza favorevole al contribuente, resta inibita l’operatività delle già viste nuove norme che suppongono l’immediata esecutività della decisione. Donde l’ufficio non deve effettuare lo sgravio o il rimborso delle somme, sebbene riconosciute come non dovute in forza della stessa sentenza.
In caso di sentenza impugnata per cassazione, è consentito al ricorrente chiedere la sospensione direttamente alla commissione che ha pronunciato la sentenza, allo scopo di evitare un danno «grave e irreparabile».
Tale locuzione replica il concetto di irreparabilità del danno di cui all’art. 373 c.p.c., e va intesa nel senso di un intollerabile scarto tra il pregiudizio derivante dall’esecuzione della sentenza nelle more del giudizio di cassazione e le concrete possibilità riparatorie in caso di accoglimento del ricorso medesimo.
Va quindi associata alla sola valutazione del periculum in mora, senza cioè possibilità di valutare anche il fumus, essendo stato un tale presupposto già valutato dallo stesso giudice che ha emesso la sentenza di cui si chiede la sospensione.
È logico peraltro che, in questo caso, l’istanza deve essere proposta con un atto specifico, essendo indirizzata a un giudice diverso dalla Corte di cassazione chiamata a decidere sull’impugnazione.
Un’istanza di sospensione della sentenza presentata direttamente alla Suprema Corte sarebbe inammissibile8.
Si è già detto che l’attuazione del principio di delega circa «l’immediata esecutorietà, estesa a tutte le parti in causa, delle sentenze delle commissioni tributarie» ha comportato la completa riscrittura dell’art. 69 d.lgs. n. 546/1992.
In ordine ai giudizi aventi per oggetto un diniego espresso o tacito alla restituzione di quanto spontaneamente versato, il contribuente non deve più attendere il passaggio in giudicato della sentenza per ottenere il rimborso. L’immediata esecutività si deve ritenere operante anche per il capo di condanna dell’ufficio al pagamento delle spese di lite. Peraltro, il pagamento di somme di importo superiore a diecimila euro, diverse dalle spese di lite, può essere subordinato dal giudice, anche tenuto conto delle condizioni di solvibilità dell’istante, alla prestazione di una idonea garanzia.
Dalla Relazione illustrativa al decreto di riforma risulta chiarito che ciò può avvenire qualora sia accertato e argomentato in sentenza il profilo della solvibilità del contribuente, valutata sulla base della consistenza del suo patrimonio e dell’ammontare delle somme oggetto di rimborso.
Il riferimento al pagamento di somme di importo superiore a diecimila euro esclude che tale limite possa operare come una franchigia, per le evidenti complicazioni che un simile sistema potrebbe provocare.
In sostanza, la previsione di una eventuale garanzia per rimborsi di importi superiori a diecimila euro discende dalla semplice considerazione che nei confronti della parte privata si annida il rischio che, una volta effettuato, in virtù di sentenza esecutiva ma impugnata dall’amministrazione, il pagamento della somma a titolo di rimborso, divenga impossibile, in caso di successiva riforma della sentenza, recuperare gli importi erogati.
Questo comporta un onere aggiuntivo per l’ufficio finanziario, quanto ai giudizi aventi a oggetto il rifiuto espresso o tacito di istanze di rimborso di somme superiori a diecimila euro.
L’ufficio deve in tal caso allegare in giudizio gli elementi idonei a incidere negativamente sul giudizio di solvibilità del contribuente, per modo da ottenere, in caso di soccombenza, la previsione della garanzia.
La disciplina di codesta peraltro, ai sensi dell’art. 69, co. 2, d.lgs. n. 546/1992, è stata infine demandata a un apposito decreto ministeriale, quanto ai profili di contenuto e di durata e quanto al termine per l’escussione a seguito dell’inerzia del contribuente in ordine alla restituzione delle somme garantite.
È utile rammentare che i costi della garanzia, anticipati dal contribuente, restano a carico della parte soccombente all’esito definitivo del giudizio.
Può osservarsi che la previsione di tale garanzia, il cui onere è quindi solo anticipato dal contribuente, al quale verrà rimborsata la spesa in caso di esito favorevole del giudizio, risponde a una duplice funzione: evita sicuramente i maggiori rischi per l’erario, ma serve anche a deflazionare l’altrimenti ovvio incremento delle domande di sospensiva. Serve quindi anche da argine al maggiore impegno delle commissioni tributarie dettato dalla fin qui constatata duplicazione degli interventi decisionali, prima in sede cautelare e poi in sede di merito, con gli inevitabili connessi aggravi per le parti.
È chiaro tuttavia che il contribuente resta libero di non chiedere l’immediata esecuzione della sentenza qualora non intenda anticipare gli oneri della garanzia, e di attendere il giudicato anche solo per non dover rischiare di restituire le somme ottenute, con gli interessi.
Da notare che l’art. 69, co. 4 e 5, d.lgs. n. 546/1992, nel disciplinare il termine per l’adempimento dell’obbligo contenuto nella sentenza e il rimedio in caso di inerzia, ha previsto decorrenze diverse, a seconda che la condanna al rimborso sia stata subordinata, o meno, alla prestazione della garanzia.
Il pagamento delle somme dovute a seguito della sentenza deve essere eseguito: a)entro novanta giorni dalla notificazione della sentenza, se non è dovuta la garanzia; b)entro novanta giorni dalla presentazione della garanzia, se dovuta.
L’ufficio può comunque procedere all’erogazione tempestiva del rimborso anche prima della prestazione della garanzia ove abbia già deciso di prestare acquiescenza alla sentenza, così evitando di sostenere i relativi costi. In caso di mancata esecuzione della sentenza entro i predetti termini, il contribuente ha facoltà di esperire il giudizio di ottemperanza.
La nuova formulazione dell’art. 69 d.lgs. n. 564/1992 non richiama più l’art. 475 c.p.c. in ordine alla spedizione in forma esecutiva della sentenza rilasciata dalla segreteria della commissione tributaria, in coerenza con la scelta di fare del giudizio di ottemperanza giustappunto l’unico strumento di esecuzione delle sentenze.
A codesta scelta è opportuno dedicare qualche ulteriore riflessione.
Il ricorso in ottemperanza si impone, oltre che per le sentenze passate in giudicato, anche per l’esecuzione:
a) delle sentenze, non ancora definitive, di condanna
al pagamento di somme, comprese le spese di giudizio (a decorrere, ovviamente, dal 1.6.2016);
b) delle sentenze, non ancora definitive, relative alle operazioni catastali parzialmente o totalmente favorevoli al contribuente (con la medesima decorrenza);
c) delle sentenze relative ad atti impositivi che comportino, ai sensi dell’art. 68, co. 2, d.lgs. n. 546/1992, la restituzione del tributo, dei relativi interessi e delle sanzioni, corrisposti in eccedenza rispetto a quanto statuito dalla sentenza favorevole al contribuente (a decorrere, in questo caso, dal 1.1.2016);
d) dell’ordinanza con cui sono liquidate le spese di giudizio in caso di estinzione per rinuncia (art. 44, co. 2, d.lgs. n. 546/1992).
Il decreto di riforma ha così previsto un sistema unitario di esecuzione delle sentenze, definitive e non, con carattere di esclusività, e il giudizio di ottemperanza si atteggia come il rimedio (unico) attraverso cui il contribuente può ottenere l’adempimento degli obblighi sanciti dalla sentenza per il caso di inerzia dell’ufficio.
Una conferma si ricava dalla soppressione dell’inciso di apertura dell’art. 70, co. 1, d.lgs. n. 546/1992, che faceva salvo quanto previsto dalle norme del codice di procedura civile per l’esecuzione forzata della sentenza di condanna costituente titolo esecutivo. Dacché il venir meno della facoltà, prima riconosciuta al contribuente, di procedere con l’esecuzione forzata secondo le norme processuali ordinarie9.
Come chiarito nella Relazione illustrativa al decreto di riforma, una simile scelta di esclusività del giudizio di ottemperanza si giustifica per la peculiarità delle sentenze emesse nel processo tributario, dove spesso il calcolo delle somme dovute a titolo di rimborso di imposta non è agevole, essendo necessaria un’attività specifica volta a determinare anche l’importo degli interessi per i vari periodi.
E va aggiunto che la previsione della garanzia per le condanne in favore del contribuente al rimborso di somme superiori a diecimila euro avrebbe creato ulteriori problemi alle segreterie delle commissioni tributarie in sede di rilascio delle formule esecutive, essendo difficile ipotizzare una capillare attività di controllo, da parte di tali segreterie, sulla idoneità della garanzia.
La particolare efficacia della procedura di ottemperanza – con la nomina del commissario ad acta – è del resto funzionale a far ottenere alla parte interessata, e in tempi relativamente brevi, l’altrui adempimento dell’obbligazione restitutoria col rimborso delle relative spese; mentre non sempre lo è l’ordinaria procedura esecutiva, la cui potenzialità, in vista del soddisfacimento dell’interesse del contribuente, è spesso minata dalle note difficoltà di agire in via esecutiva sui beni dei soggetti pubblici e dalle gravose pendenze che caratterizzano l’attuale stato dei tribunali civili.
Esiste tuttavia una certa differenza concettuale tra l’ottemperanza e l’esecuzione ordinaria.
Scopo dell’ottemperanza non è propriamente quello di realizzare l’esecuzione forzata sui beni del debitore, ma la sostituzione coattiva dell’attività che l’amministrazione avrebbe dovuto svolgere e che, invece, non ha svolto o ha svolto in maniera difforme dal titolo10. Da questo punto di vista il sistema registra una netta preferenza verso la funzione specifica – cognitiva ed esecutiva – del procedimento11, col fine precipuo di rendere effettivo il comando giudiziale mediante tutti gli accertamenti indispensabili a delimitare l’effettiva portata precettiva della sentenza di cui si chiede l’esecuzione.
Sul piano soggettivo, il giudizio di ottemperanza risulta proponibile anche nei confronti dell’agente della riscossione o del soggetto iscritto nell’albo di cui all’art. 53 d.lgs. 15.12.1997, n. 446, attesa la natura pubblica dell’agente medesimo e l’attività oggettivamente pubblica posta in essere dai concessionari privati. Rimangono invece ferme le collaudate modalità di presentazione del ricorso in ottemperanza.
A questo proposito può osservarsi che l’espresso riferimento alla sentenza passata in giudicato, ancora contenuto nell’art. 70, co. 3, d.lgs. n. 546/1992, non è di ostacolo all’applicazione del rimedio per le ipotesi previste dagli artt. 68, co. 2, e 69, co. 5, ma va correlato alle (sole) ipotesi in cui il ricorso sia stato proposto, appunto, in relazione a sentenze non più impugnabili.
La parte che vi ha interesse deve pertanto richiedere l’ottemperanza agli obblighi derivanti dalla sentenza della commissione tributaria mediante ricorso da depositare in doppio originale, sia in relazione alla sentenza irrevocabile, sia in relazione alla sentenza solo provvisoriamente esecutiva.
Il giudizio di ottemperanza rimane un processo “chiuso”, nel senso che il potere del giudice sulla statuizione inattuata deve essere esercitato nei soli limiti posti dall’oggetto.
Come già accennato, il ricorso è da considerare proponibile dopo la scadenza del termine entro il quale è prescritto dalla legge l’adempimento degli obblighi derivanti dalla sentenza da parte dell’ente impositore, dell’agente della riscossione o del soggetto iscritto nell’albo di cui all’art. 53 d.lgs. n. 446/1997.
In mancanza di tale termine, il ricorso è proponibile dopo trenta giorni dalla costituzione in mora a mezzo di ufficiale giudiziario, e fino a quando l’obbligo non sia estinto.
Da notare che gli artt. 68, co. 2, e 69, co. 4, d.lgs. n. 546/1992 prevedono adesso uno specifico termine entro il quale l’ufficio deve adempiere agli obblighi derivanti dalla sentenza. Difatti il tributo corrisposto in eccedenza, con i relativi interessi, va rimborsato d’ufficio entro novanta giorni dalla notificazione della sentenza, e il pagamento delle somme dovute a seguito della sentenza deve essere a sua volta eseguito entro novanta giorni dalla notificazione ovvero dalla presentazione della garanzia a cui il giudice abbia subordinato il pagamento del dovuto. Se ne deduce che nei suddetti casi è dal legislatore contemplata una fattispecie di mora ex re, per cui non si richiede un preventivo atto di costituzione in mora e il ricorso in ottemperanza può essere proposto decorso il termine stabilito: novanta giorni dalla notificazione della sentenza o, se prevista, dalla presentazione della garanzia.
Naturalmente la notifica della sentenza da parte del contribuente produce, oltre all’effetto di far decorrere il termine di novanta giorni per l’esecuzione, anche quello di far decorrere il termine breve per l’impugnazione, con l’eventuale possibilità per l’impugnante di richiedere la sospensione dell’efficacia esecutiva.
Il ricorso in ottemperanza, indirizzato al presidente della commissione, deve contenere la sommaria esposizione dei fatti che ne giustificano la proposizione con la precisa indicazione, a pena di inammissibilità, della sentenza – anche non definitiva – di cui si chiede l’ottemperanza. Tale sentenza va prodotta in copia unitamente all’originale o a copia autentica dell’atto di messa in mora, se necessario ai sensi dell’art. 70, co. 2.
Uno dei due originali del ricorso è comunicato a cura della segreteria della commissione tributaria ai soggetti obbligati a provvedere.
Restano ferme le previsioni di cui ai commi da 5 a 10 dell’art. 70, che non hanno subito modifiche sostanziali, fatta salva la novità afferente la modalità di determinazione del compenso al commissario ad acta, oggi disciplinata dal d.P.R. 30.5.2002, n. 115.
Ai sensi dell’art. 70, co. 10-bis, per l’esecuzione delle sentenze che comportano il pagamento di somme fino a ventimila euro, e comunque per il pagamento delle spese di giudizio, il ricorso in ottemperanza è deciso dalla commissione tributaria in composizione monocratica.
Si registra infine una novità sul tema della esecuzione delle spese di giudizio.
Il legislatore delegato ha modificato l’art. 44 d.lgs. n. 546/1992, concernente l’estinzione del processo per rinuncia al ricorso. Nella formulazione previgente, la norma stabiliva che l’ordinanza con cui fossero state liquidate le spese a carico del rinunciante al ricorso era da considerare titolo esecutivo. La novella ha eliminato l’inciso facente riferimento all’efficacia di titolo esecutivo di tale ordinanza, e l’eliminazione è ancora una volta da associare al fatto che, nel nuovo impianto, l’unico strumento utilizzabile a fini esecutivi è il giudizio di ottemperanza, anche per le spese legali in favore del contribuente. Di contro, per le spese liquidate in favore dell’ente impositore e degli altri soggetti equiparati è sempre prevista l’iscrizione a ruolo dopo il giudicato, secondo il disposto del (pure novellato) art. 15, co. 2-sexies, d.lgs. n. 546/1992.
A latere della possibilità di sospendere l’atto impugnato su istanza del contribuente, è utile esaminare sommariamente, infine, le più importanti innovazioni sul concorrente tema della tutela cautelare.
La disciplina dell’art. 22 d.lgs. n. 472/1997 è stata allineata a quanto previsto, per il procedimento cautelare uniforme, dall’art. 669 sexies c.p.c. Il riferimento è all’iscrizione ipotecaria e al sequestro conservativo, che, in materia tributaria, sono misure tipiche di conservazione della garanzia patrimoniale.
L’art. 22 prevede distinte procedure tese a tutelare il credito fiscale: la prima, cd. «ordinaria», suppone la previa attivazione del contraddittorio tra le parti; la seconda, cd. «speciale», è invece caratterizzata dalla pronuncia con decreto inaudita altera parte.
La disciplina “ordinaria” è rimasta invariata, fatta salva la previsione di un maggior termine per la notifica all’estero del decreto presidenziale di fissazione dell’udienza di trattazione. Quella “speciale” è stata invece modificata allo scopo suddetto, di rendere il procedimento coerente con quanto in generale previsto dalle norme processual-civilistiche del rito cautelare uniforme. Sono stati così individuati, per il procedimento speciale, presupposti corrispondenti a quelli recati dall’art. 669 sexies c.p.c., mercé la previsione che, quando la convocazione della controparte può pregiudicare l’attuazione del provvedimento, il presidente provvede con decreto motivato assunte ove occorra sommarie informazioni; e in tal caso fissa, con lo stesso decreto, la camera di consiglio entro un termine non superiore a trenta giorni assegnando all’istante un termine perentorio non superiore a quindici giorni per la notificazione del ricorso e del decreto.
I presupposti del provvedimento inaudita altera parte ricorrono quando sussistono motivi d’urgenza tali da far sì che il lasso temporale necessario allo svolgimento della procedura ordinaria possa pregiudicare irrimediabilmente il credito erariale, ovvero quando l’attuazione del provvedimento cautelare possa essere pregiudicata dalla previa instaurazione del contraddittorio. All’udienza appositamente fissata la commissione deve a sua volta pronunciarsi con ordinanza sulla domanda cautelare.
Sicché, nell’ambito di un tal procedimento speciale, il contraddittorio viene differito a quella specifica sede, all’esito della quale la commissione, con ordinanza, deve confermare, modificare o revocare le statuizioni assunte col decreto presidenziale.
È sempre consentito alle parti interessate di prestare, nel corso del procedimento, la garanzia prevista dal nuovo art. 69, co. 2, d.lgs. n. 546/1992, e in tal caso l’organo giurisdizionale può non adottare la misura richiesta o anche solo limitarne l’oggetto.
Rispetto alla precedente formulazione, la norma prevede che i provvedimenti cautelari perdano efficacia qualora non eseguiti nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione, in aggiunta a quanto accade ove nei centoventi giorni dall’adozione non sia notificato l’atto tributario (impositivo, di contestazione o di irrogazione di sanzioni).
In tal caso il presidente della commissione dispone la cancellazione dell’ipoteca su istanza di parte, sentito l’ente impositore che ha formulato l’istanza. Eguale titolo per la cancellazione di ipoteca è ovviamente rappresentato dalla sentenza, anche se non passata in giudicato, che accoglie il ricorso proposto avverso l’atto impositivo, considerata la già vista sua immediata esecutorietà.
Note
1 Ex aliis Cass., 11.11.2015, n. 23049; Cass., 3.7.2013, n. 16689; Cass., 28.3.2012, n. 5044.
2 Per tutte, cfr. Cass., S.U., 17.9.2010, n. 19701.
3 Cons. la circ., 1.1.2010, n. 49/E, dell’Agenzia delle entrate.
4 Cfr. Cass., 10.11.2004, n. 21367; Cass., 26.3.2009, n. 7369; Cass., 15.11.2013, n. 25743.
5 C. cost., 26.4.2012, n. 109.
6 Per tutte, v. Cass., 24.2.2012, n. 2845.
7 Sulla funzione sostitutiva della sentenza, v. Cass., 16.5.2007, n. 11212, Cass., 18.10.2008, n. 25376; Cass., 20.10.2011, n. 21759. Per un inquadramento sistematico, cfr., volendo, Terrusi, F., Assetto del processo tributario, funzione della sentenza e actio iudicati, in Dir. proc. trib., 2015, 59 e ss.
8 E v. infatti Cass., S.U., 22.2.2007, n. 4112, cui adde, tra le tante, Cass., S.U., 10.6.2013, n. 14503.
9 Ottemperanza ed esecuzione ordinaria erano considerati strumenti di tutela concorrenti: v. per tutte Cass., 14.1.2004, n. 358.
10 Cfr. Cass., 24.9.2010, n. 20202; Cass., 18.1.2012, n. 646.
11 Ex multis, v. Cass., 1.3.2004, n. 4126; Cass., 22.2.2005, n. 3555.