Abstract
Viene analizzata la disciplina del procedimento di esecuzione forzata dei provvedimenti che portano condanna ad un fare o ad un non fare, dando conto di un recente intervento normativo in virtù del quale per l’attuazione di obblighi non suscettibili di esecuzione diretta, a causa della infungibilità della prestazione, è ora possibile chiedere al giudice l’applicazione di una misura coercitiva patrimoniale, che induca l’obbligato all’adempimento spontaneo.
Il procedimento finalizzato all’attuazione coattiva degli obblighi di fare e di non fare si colloca nell’àmbito dell’esecuzione forzata in forma specifica: rappresenta, cioè, uno degli strumenti processuali che l’ordinamento mette a disposizione affinché un diritto rimasto insoddisfatto venga attuato – coattivamente, per l’appunto – nella sua «identità specifica» (Mandrioli, C., Diritto processuale civile, XXI ed. aggiornata a cura di A. Carratta, IV, Torino, 2011, 11), in modo da assicurare al titolare del diritto stesso, se non proprio l’esatta prestazione che garantirebbe il suo completo soddisfacimento, quanto meno un risultato del tutto equivalente.
Le norme che il codice di procedura civile dedica a questa forma di esecuzione forzata (gli artt. 612-614 bis c.p.c.), poche se messe a confronto, ad esempio, con l’articolata disciplina dettata per le diverse ipotesi di espropriazione, potrebbero indurre erroneamente a ritenere che si tratti di un procedimento di rilevanza marginale. All’opposto, l’esperienza recente ha dimostrato che esiste un ampio ventaglio di fattispecie in cui l’effettività di diritti anche di primaria importanza presuppone necessariamente l’attuazione, spontanea o più spesso coattiva, di obblighi di fare o di non fare: di qui, l’esigenza di verificare in che misura il modello codicistico di esecuzione sia utilizzabile per garantire al creditore «per quanto è possibile praticamente … tutto quello e proprio quello ch’egli ha diritto di conseguire» (Chiovenda, G., Dell’azione nascente dal contratto preliminare, in Saggi di diritto processuale civile (1900-1930), I, Roma, 1930, 110).
Come si è già accennato, il quadro normativo di riferimento è rappresentato dagli artt. 612-614 bis c.p.c., disposizioni alle quali rinviano gli artt. 2931 e 2933 c.c.
Sia le norme sostanziali, sia quelle processuali parlano di «obblighi» di fare o di non fare, espressione che deve intendersi nel senso che l’obbligo per l’attuazione del quale è richiesto l’intervento del giudice non solo può corrispondere a quella che, in origine, era un’obbligazione in senso proprio, ma può anche discendere, ad esempio, dalla violazione di un diritto assoluto, reale o della personalità. In ogni caso, prescindendo dalla tipologia delle situazioni tutelabili e, quindi, dalla natura del diritto da cui, specularmente, scaturisce l’obbligo di fare o di non fare rimasto ineseguito, ciò che rileva ai fini dell’esecuzione forzata in discorso e dell’applicabilità delle norme che la governano è la prestazione dovuta. È pacifico, infatti, che sono suscettibili di essere realizzate in via coattiva, nelle forme previste dagli artt. 612 ss. c.p.c., soltanto le prestazioni di fare cd. fungibile, ossia quelle che possono essere realizzate indifferentemente dal soggetto obbligato o da un terzo, che si sostituisca al primo, nel caso in cui questi ometta di provvedere. Per converso, il modello codicistico di esecuzione forzata risulta del tutto inutilizzabile quando la prestazione è infungibile: è tale la prestazione che risulta obiettivamente non eseguibile da un terzo, ma anche quella corrispondente ad un obbligo caratterizzato dall’intuitus personae, come pure la prestazione che implica una specifica determinazione di volontà dell’obbligato, che si traduca, ad esempio, nel compimento di un’attività negoziale. Definito in questi termini il binomio fungibilità/infungibilità, appare evidente che sono fungibili le sole prestazioni che consistono nella creazione o eliminazione di opere materiali e certamente è proprio a prestazioni di questo genere che il legislatore ha pensato nel dettare l’art. 612 c.p.c., prevedendo (al co. 2) che il giudice dell’esecuzione designi «le persone che debbono provvedere al compimento dell’opera non eseguita o alla distruzione di quella compiuta». Il collegamento tra fungibilità della prestazione e il suo consistere in un’attività materiale, capace di incidere sulla realtà fattuale, è evidente soprattutto con riferimento agli obblighi di non fare, che risultano suscettibili di esecuzione in forma specifica solo a condizione che la loro violazione si sia tradotta nella creazione di un quid novi, che possa essere eliminato anche senza la collaborazione dell’obbligato.
Convenzionalmente, la descrizione di ciò che rende un obbligo infungibile (e quindi, insuscettibile di attuazione coattiva) si completa con almeno un esempio di scuola, ossia il riferimento al famoso pittore che si è impegnato a realizzare un certo quadro, ma si sottrae all’adempimento dell’obbligo assunto. In questo caso – si osserva – il creditore non ha alcun interesse a che un quadro qualunque sia dipinto da un altro pittore, né, d’altro canto, è possibile imporre all’obbligato (magari ricorrendo alla forza) di realizzare la prestazione dovuta: un’ipotesi di questo genere, quindi, dimostrerebbe la perdurante validità del broccardo latino nemo ad factum praecise cogi potest (o della meno altisonante versione del medesimo principio in uso nel diritto inglese e tradotta nel detto secondo cui si può portare un cavallo al fiume, ma non lo si può costringere a bere). Il diritto positivo, quindi, potrebbe soltanto prendere atto dell’impossibilità di fare ottenere al creditore la prestazione che gli spetta, costringendolo a “ripiegare” su di una tutela meramente risarcitoria del proprio diritto.
Quella appena citata è, appunto, un’ipotesi di scuola; accade però che il diritto vigente presenti un’ampia gamma di situazioni in cui l’impossibilità di far eseguire coattivamente un obbligo di fare o di non fare infungibile determina un sostanziale “vuoto” nella tutela di diritti di rilevanza socialmente ben superiore a quella che può riconoscersi al soggetto che dovrà rinunciare al quadro del famoso pittore. Questa constatazione, in un’epoca in cui era particolarmente alta la sensibilità collettiva nei confronti dei problemi relativi alla effettività della tutela giurisdizionale dei diritti e, in particolare, di quelli che si era soliti chiamare i “nuovi diritti”, il cui tratto saliente veniva identificato nella non “monetizzabilità” (espressione coniata per indicare come diritti di questo genere non potevano essere soddisfatti mediante una tutela di tipo strettamente risarcitorio), aveva suscitato un ampio dibattito dottrinale, volto ad evidenziare come in situazioni di questo genere sarebbe stato opportuno “attrezzare” il diritto vigente con strumenti di esecuzione indiretta: mancava, infatti, nell’ordinamento la previsione di un modello generale di misura coercitiva patrimoniale, congegnata in maniera tale da indurre il debitore ad adempiere spontaneamente all’obbligo, così da far ottenere al creditore proprio quella prestazione infungibile che il procedimento di esecuzione forzata disciplinato dal’art. 612 c.p.c. non avrebbe potuto in ogni caso fargli conseguire. Archetipo dei diritti la cui tutela esecutiva scontava l’assenza di misure coercitive, che, se previste, avrebbero invece consentito di superare la «naturale» infungibilità della prestazione oggetto dell’obbligo, era il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi dell’art. 18 st. lav.: tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, l’obbligo di reintegrazione divenne uno dei temi più “frequentati” dalla dottrina, impegnata ad interrogarsi sui limiti della tutela esecutiva offerta dalle norme codicistiche, limiti particolarmente evidenti nel confronto tra l’ordinamento italiano e altri ordinamenti, nei quali le misure coercitive avevano già da tempo un forte radicamento. La vivacità del dibattito dottrinale, tuttavia, rimase a lungo lettera morta per il legislatore: nonostante quasi tutti i progetti di riforma del processo civile non solo dell’epoca, ma anche degli anni successivi, prevedessero l’introduzione nel codice di misure coercitive, si è dovuto attendere il 2009 per vedere realizzato l’auspicio che all’esecuzione in forma specifica degli obblighi di fare o di non fare fungibile fosse affiancato uno strumento generale di esecuzione indiretta, quale è quello ora previsto dall’art. 614 bis c.p.c. (introdotto, appunto, dalla l. 18.6.2009, n. 69: v., infra, § 5).
Un altro obbligo in relazione al quale l’utilizzabilità del procedimento delineato dall’art. 612 c.p.c. ha mostrato tutti i suoi limiti è quello relativo alla “consegna” di minori in esecuzione di provvedimenti giudiziali resi, ad esempio, in materia di affidamento della prole o di esercizio del cd. diritto di visita da parte del genitore non affidatario nell’àmbito di procedimenti di separazione o di divorzio. Tuttavia, a differenza di quanto accaduto per l’obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro, che l’opinione dominate ha sempre ritenuto infungibile (sulla scorta della costante giurisprudenza della Corte di cassazione: v., ad es., Cass., 14.7.1997, n. 6381; Cass., 19.11.1996, n. 10109; Cass., 4.9.1990, n. 9125), per l’obbligo di “consegna” di minori sembra prevalere l’orientamento che ammette il ricorso all’esecuzione forzata in forma specifica, pur nella consapevolezza che si tratta di una soluzione forse necessitata, ma certamente non ottimale. Va detto, comunque, che, nel momento attuale, il problema deve essere considerato nella prospettiva del nuovo art. 709 ter c.p.c. Tale norma prevede un articolato sistema di sanzioni che possono essere inflitte al genitore che si renda colpevole di «gravi inadempienze» o del compimento di atti pregiudizievoli per il minore o tali da ostacolare il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento: in effetti, sembra ragionevole ritenere che tra le condotte sanzionabili possa essere fatta rientrare anche la mancata attuazione del provvedimento che dispone la “consegna” del minore, così da rendere applicabili le sanzioni previste dal co. 2 della disposizione e, in particolare, quella consistente nella condanna al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, sanzione che, se adeguatamente quantificata (pur nel rispetto del limite massimo fissato dalla legge) potrebbe operare quale misura coercitiva, inducendo l’obbligato all’adempimento spontaneo.
Un’ultima notazione sul tema dell’àmbito di applicazione del procedimento esecutivo di cui agli artt. 612 ss. c.p.c. riguarda i provvedimenti cautelari. Com’è noto, l’art. 669 duodecies c.p.c. dispone che l’attuazione dei provvedimenti aventi ad oggetto obblighi di fare o di non fare avviene sotto il controllo del giudice che ha emesso il provvedimento, il quale ne determina le concrete modalità di esecuzione, adottando le misure opportune, in caso di difficoltà o di contestazioni. Tralasciando il problema della qualificazione formale della fase attuativa del provvedimento, che non potrebbe essere propriamente considerata come esecuzione forzata in forma specifica, è evidente che nella concreta determinazione delle modalità con cui il provvedimento dovrà essere attuato il modello di riferimento non potrà che essere rappresentato da quanto previsto dall’art. 612 c.p.c. Anche nel caso dei provvedimenti cautelari, quindi, potrà acquistare rilevanza la qualificazione della prestazione da eseguire come fungibile o infungibile e, in questo secondo caso, per l’attuazione del provvedimento dovrà necessariamente farsi affidamento sull’efficacia compulsiva della misura coercitiva prevista dall’art. 614 bis c.p.c.
Il tenore letterale dell’art. 612 c.p.c. lascia intendere che l’esecuzione forzata in forma specifica in discorso possa avere luogo solo sulla base di una «sentenza di condanna»: per lungo tempo l’espressione è stata intesa in senso ampio, ossia come comprensiva di qualunque provvedimento giudiziale contenente una pronuncia di condanna. Di conseguenza, i titoli esecutivi di formazione non giudiziale (previsti dall’art. 474, nn. 2 e 3, c.p.c. nella formulazione originaria della norma) e, in particolare, il verbale di conciliazione, erano considerati inidonei a fondare l’esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare. La riscrittura dell’art. 474, n. 1, c.p.c., nella parte in cui prevede che tra i titoli esecutivi di formazione giudiziale debbano essere annoverati anche gli «atti» ai quali la legge conferisce espressamente efficacia esecutiva, ha modificato i termini del problema, consentendo di ritenere che, attualmente, tra i titoli esecutivi sulla base dei quali l’esecuzione forzata in parola può essere iniziata possano essere annoverati anche i processi verbali di conciliazione conclusi con l’intervento o con l’omologazione del giudice. Quindi, all’attuazione coattiva di obblighi di fare o di non fare si potrà procedere in virtù di un titolo esecutivo rappresentato tanto da un verbale di conciliazione giudiziale, quanto da un verbale di conciliazione stragiudiziale omologato dal giudice: una soluzione che, almeno con riferimento alla conciliazione stragiudiziale, pare confermata dalla disciplina generale in tema di mediazione e conciliazione, laddove dispone che il verbale di raggiunta conciliazione, se omologato dal presidente del tribunale, costituisce titolo esecutivo sia per l’espropriazione, sia per l’esecuzione forzata in forma specifica (art. 12, co. 2, d.lgs. 4.3.2010, n. 28).
Il momento iniziale del procedimento coincide con la presentazione del ricorso al giudice dell’esecuzione; competente inderogabilmente è il tribunale del luogo in cui l’obbligo deve essere eseguito ex art. 26, ult. co., c.p.c. Il giudice dell’esecuzione fissa l’udienza di comparizione delle parti (con decreto in calce al ricorso), assegnando il termine per la notifica alla controparte. All’udienza, sentita la parte obbligata, il giudice provvede con ordinanza a designare l’ufficiale giudiziario ed i terzi incaricati del compimento delle operazioni necessarie per l’attuazione del provvedimento, stabilendo come tale attuazione debba avvenire. A questo riguardo, si è posto il problema di determinare entro che limiti possa esplicarsi il potere del giudice dell’esecuzione di fissare «le modalità dell’esecuzione», come prevede il co. 1 dell’art. 612 c.p.c.: l’opinione prevalente è quella secondo cui l’ordinanza del giudice dell’esecuzione ha una funzione integrativa del titolo esecutivo, tale da consentire che siano superati eventuali profili di incertezza o di genericità del titolo stesso. In altre parole, mentre il titolo esecutivo indica il risultato concreto che deve essere ottenuto, l’ordinanza del giudice dell’esecuzione precisa le modalità con cui quel risultato deve essere raggiunto (così, ad es., Cass., 6.5.2010, n. 10959; Cass., 5.6.2007, n. 13071).
L’ordinanza è revocabile e modificabile dal giudice che l’ha pronunciata; è suscettibile di opposizione agli atti esecutivi (v. Cass., 17.5.2007, n. 11586; Cass., 1.2.2000, n. 1071), ma acquista natura sostanziale di sentenza e diviene, quindi, appellabile, quando disponga che le opere siano eseguite con modalità contrastanti, modificanti, eccedenti il titolo o, comunque, idonee ad incidere su posizioni di diritto soggettivo, oppure quando pronunci sulla conformità al titolo di opere che l’obbligato affermi di aver già eseguito spontaneamente o, ancora, quando decida questioni sull’esistenza del diritto di procedere all’esecuzione o sulla portata sostanziale del titolo (v. Cass., 15.7.2009, n. 16471; Cass., 8.10.2008, n. 24808).
L’art. 613 c.p.c. dispone che qualora sorgano «difficoltà» nel corso dell’esecuzione, l’ufficiale giudiziario si rivolga al giudice dell’esecuzione, che impartirà le disposizioni necessarie con decreto. Si ritiene che le difficoltà cui fa riferimento la norma siano solo quelle di tipo tecnico o, comunque, di carattere materiale e pratico, ossia non relative a questioni che dovrebbero essere fatte valere con una opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi. Per questa ragione, il decreto del giudice dell’esecuzione non è suscettibile né di appello (Cass., 18.3.2003, n. 3979), né di ricorso straordinario per cassazione ex art. 111, co. 7, Cost. (Cass., 10.10.2003, n. 15176).
Quanto alle spese del procedimento, secondo l’art. 614 c.p.c. alla loro liquidazione provvede il giudice dell’esecuzione mediante decreto ingiuntivo, su richiesta del creditore procedente, che presenta al giudice la nota delle spese anticipate (comprese i diritti e gli onorari di difesa), vistata dall’ufficiale giudiziario. Il decreto di liquidazione è dichiarato provvisoriamente esecutivo ex art. 642 c.p.c. (richiamato dal co. 2 dell’art. 614 c.p.c.) quando le spese indicate dal creditore procedente siano ritenute «giustificate»: al riguardo, si ritiene che il giudice debba limitarsi ad una semplice verifica della regolarità formale della nota presentata dall’istante o, al più, ad un riscontro della conformità delle spese indicate nella nota alle risultanze oggettive del procedimento.
Il giudice dell’esecuzione ha competenza funzionale, senza limiti di valore, anche per l’eventuale opposizione proposta avverso il decreto di liquidazione delle spese (v. Cass., 3011.2010, n. 24260; Cass., 11.11.2003, n. 16936); con tale opposizione, peraltro, potrà contestarsi unicamente la congruità delle spese o la loro effettiva anticipazione, mentre eventuali vizi dell’esecuzione dovranno essere essere fatti valere soltanto con l’opposizione di merito o formale, a seconda dei casi (v. Cass., 3.12.2009, n. 25394).
Il problema già evidenziato (v. supra, § 2.2) di come ovviare all’impossibilità di assicurare tutela esecutiva nelle forme previste dagli artt. 612 ss. c.p.c. ai diritti cui corrispondono obblighi aventi ad oggetto prestazioni di fare (o di non fare) infungibile sembra aver trovato una soluzione nel nuovo strumento previsto dall’art. 614 bis c.p.c., introdotto dall’art. 49, co. 1, l. 18.6.2009, n. 140. La norma stabilisce che, su richiesta dell’avente diritto, il giudice, nel disporre la condanna dell’obbligato ad un fare infungibile o ad un non fare, pronunci a suo carico un’ulteriore condanna accessoria, fissando la somma da lui dovuta «per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento». La norma, quindi, introduce una misura coercitiva patrimoniale di carattere generale, che si affianca (o forse, come è stato osservato da qualcuno, si sovrappone) alle molteplici figure di misure coercitive patrimoniali tipiche già previste dall’ordinamento (v., ad es., art. 124, co. 2, c.p.i.; art. 140, co. 7, c. cons.).
Per quanto riguarda i presupposti di applicazione della norma, viene in considerazione, in primo luogo, il «provvedimento di condanna» al quale può accedere la misura coercitiva: è pacifico che possa trattarsi di qualunque provvedimento giudiziale avente il contenuto proprio di una condanna, reso in primo grado o in sede di giudizio di impugnazione. Peraltro, in relazione a particolari tipi di provvedimento esistono opinioni discordanti: così, mentre sembra pacifico che la condanna alla misura coercitiva possa essere pronunciata insieme con le ordinanze e le sentenze rese nell’àmbito del nuovo procedimento sommario di cognizione ex art. 702 bis ss. c.p.c., non altrettanto può dirsi, ad esempio, con riguardo ai provvedimenti cautelari. Un altro problema dibattuto interessa il secondo presupposto di applicazione dell’art. 614 bis c.p.c., ossia la «richiesta di parte» cui è subordinata la concessione della misura coercitiva; più precisamente, si solleva la questione se tale richiesta debba essere considerata come una domanda giudiziale in senso proprio o non rientri piuttosto tra le mere istanze, con conseguenze assai diverse sul piano processuale, a seconda dell’opzione prescelta.
Due sono le ipotesi in cui è esclusa l’applicazione della misura coercitiva. La prima, indicata espressamente dalla norma, riguarda le controversie individuali di lavoro subordinato (pubblico e privato) e quelle relative a rapporti di collaborazione continuata e continuativa ex art. 409 c.p.c.; si tratta di una esclusione che appare non solo oggettivamente ingiustificata, ma anche in evidente contrasto con il principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 Cost. La seconda ipotesi è quella alla quale il legislatore fa riferimento attribuendo al giudice la facoltà di rifiutare la concessione della misura coercitiva quando il concederla sarebbe «manifestamente iniquo», un’espressione di difficile interpretazione e presumibilmente tale da lasciare al giudice un margine di discrezionalità eccessivo nella scelta se accogliere o meno l’istanza tendente alla condanna dell’obbligato alla misura coercitiva.
Molto ampia è pure la discrezionalità riconosciuta al giudice nel determinare l’ammontare della misura coercitiva, posto che il co. 2 dell’art. 614 bis c.p.c. contiene un elenco non esaustivo di criteri idonei a orientare la fissazione del quantum, quali il valore della controversia, la natura della prestazione, il danno quantificato o anche solo prevedibile e «ogni altra circostanza» ritenuta utile. Il problema della fissazione del quantum della misura coercitiva, tuttavia, sembra quasi secondario a fronte di quella che è una grave lacuna nella costruzione della norma: si allude, infatti, alla carenza di qualunque indicazione dell’unità di tempo in relazione alla quale la misura coercitiva è comminata e che, al contrario, rappresenta l’elemento cruciale per assicurare che si produca l’effetto di coazione all’adempimento spontaneo dell’obbligo che è proprio delle misure coercitive. Mentre con riguardo agli obblighi di non fare il problema è superabile, considerando che la norma consente di collegare la misura coercitiva ad «ogni violazione o inosservanza successiva», altrettanto non può dirsi per gli obblighi di fare infungibile, per i quali la menzione di «ogni ritardo nell’esecuzione» non è sufficiente a garantire che l’efficacia compulsoria della misura si produca in funzione della sua idoneità a crescere esponenzialmente nella misura in cui tarda l’adempimento (a questo riguardo, si segnala una delle prime applicazioni dell’art. 614 bis c.p.c., ossia Trib. Cagliari, ord. 19.10.2009, in Contratti, 2010, 682, con nota di G. Petti, in cui la misura coercitiva viene fissata in un importo modesto per i primi trenta giorni di ritardo nell’adempimento, termine alla scadenza del quale l’importo della misura è più che triplicato).
La condanna alla misura coercitiva vale come titolo esecutivo per il pagamento delle somme relative. L’efficacia esecutiva del provvedimento, tuttavia, dipende dal fatto che non si verifichi l’adempimento spontaneo della prestazione oggetto dell’obbligo principale (di fare infungibile o di non fare): la condanna alla misura coercitiva, quindi, si configura come condanna condizionale o, secondo una diversa opinione, come condanna in futuro. Non essendo prevista una fase in cui si verifichi l’avvenuto inadempimento e si proceda alla liquidazione della misura coercitiva, si ritiene che debba essere lo stesso creditore ad assumersi la responsabilità di addurre l’avvenuto verificarsi della condizione rappresentata dall’inadempimento e a procedere ad una sorta di auto-liquidazione delle somme dovute dal debitore a titolo di misura coercitiva, somme calcolate sulla base dei criteri di quantificazione indicati dal giudice nel provvedimento.
L’obbligato potrà tutelarsi instaurando un giudizio di opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. e proponendo le relative istanze di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo o del procedimento di esecuzione (a norma, rispettivamente, degli artt. 615, co. 2, e 624 c.p.c.). Nell’àmbito del giudizio di opposizione, peraltro, sorgono complessi problemi relativamente alla distribuzione dell’onere della prova tra creditore procedente e obbligato-esecutato; problemi di complessità non minore si pongono con riferimento ai rapporti tra il giudizio di opposizione ed i rimedi esperibili sia contro la condanna principale, sia contro la condanna accessoria alla misura coercitiva, come pure in relazione alle sorti di quest’ultima condanna in dipendenza dall’esito dell’impugnazione proposta contro la condanna principale, soprattutto nella prospettiva dell’applicabilità o meno dell’art. 336 c.p.c.
In conclusione, si può affermare che l’introduzione nel codice di una misura coercitiva patrimoniale a carattere generale rappresenta senza dubbio un passo avanti nella tutela esecutiva dei diritti correlati a prestazioni infungibili. Tuttavia, la discutibile fattura dell’art. 614 bis c.p.c. ed una certa trascuratezza del legislatore, che non ha dato alcuna indicazione utile per sciogliere alcuni importanti nodi problematici rilevanti per la concreta applicazione della norma, rischiano di vanificare i vantaggi che potrebbero derivare da una riforma a lungo attesa, come sembra dimostrato (almeno, ad oggi) dalla sua limitata applicazione ad opera della giurisprudenza.
Artt. 612-614 bis c.p.c.
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