Abstract
Vengono analizzate le disposizioni che il codice di procedura civile detta per realizzare il diritto alla consegna di una cosa mobile determinata ovvero al rilascio di un bene immobile. Individuati gli elementi comuni attinenti ai presupposti e ai limiti di una tale esecuzione, ai titoli esecutivi che possono fondarla e descritta la posizione del soggetto che ne subisce gli effetti, si descrivono i diversi moduli procedimentali disciplinati dal codice di procedura civile per ottenere, per un verso, la consegna di una cosa determinata e, per altro verso, il rilascio di un immobile.
L’art. 2930 c.c., nell’aprire la parte dedicata alla c.d. esecuzione in forma specifica, dispone che «Se non è adempiuto l’obbligo di consegnare una cosa determinata, mobile o immobile, l’avente diritto può ottenere la consegna o il rilascio forzati a norma delle disposizioni del codice di procedura civile». Prima di analizzare queste disposizioni (artt. 605-611 c.p.c.), è necessario definire il concetto di esecuzione forzata in forma specifica, nonché, in particolare, lo scopo e quindi i limiti dell’esecuzione forzata per consegna o rilascio, che di quella forma è un’espressione.
Con l’espressione “esecuzione in forma specifica” si individua una forma di tutela esecutiva che si contrappone all’esecuzione forzata per espropriazione, senza potersi confondere questa dicotomia con quella, tutta giocata sul piano sostanziale, tra tutela in forma specifica e tutela per equivalente. Questa attiene alle diverse scelte che il legislatore sostanziale può effettuare a fronte della lesione di un diritto altrui, potendosi collegare all’illecito il risarcimento del danno ovvero la nascita di obblighi strumentali al fine di ripristinare l’interesse leso, ossia essenzialmente la situazione antecedente all’illecito. Quella, invece, a valle della scelta effettuata dal diritto sostanziale, delinea due modi di procedere alla realizzazione dell’interesse sotteso al diritto soggettivo leso, modi che sono diversi solo perché diversi sono gli obblighi rimasti inadempiuti, ma che in ogni caso fanno a meno della prestazione dell’obbligato e quindi presuppongono la fungibilità dell’obbligo stesso, modi, insomma, che sempre mirano a realizzare appunto proprio quell’interesse e non un altro equivalente. In altri termini, l’esecuzione per espropriazione non si differenzia da quella in forma specifica per il fatto che essa fornirebbe all’avente diritto qualcosa di diverso da ciò a cui egli ha appunto diritto di ottenere sul piano sostanziale.
La differenza, in realtà, sta nel fatto che, mentre nell’esecuzione per espropriazione il bene dovuto non coincide col bene aggredito, nell’esecuzione in forma specifica, invece, il bene dovuto coincide col bene aggredito. La prima, dovendo realizzare un credito pecuniario, procede attraverso trasformazioni giuridiche, ossia la liquidazione di beni del debitore, che, lungi dall’essere (pre)individuati nel titolo esecutivo, sono individuati nel corso della stessa procedura esecutiva. Insomma, con essa si espropriano dei diritti appartenenti al debitore (oggetto dell’esecuzione) al fine di realizzare il diritto di credito del creditore (motivo per cui si procede). L’esecuzione in forma specifica, invece, interviene a sostituire un obbligo relativo ad un bene al fine di ricondurre la situazione di fatto alla situazione di diritto che è rappresentata nel titolo esecutivo. Qui, il processo esecutivo non produce modificazioni giuridiche, non individua e liquida beni-strumento utili alla realizzazione del credito, ma si limita a rendere oggetto dell’aggressione proprio quel bene dovuto che è già specificamente (pre)individuato nell’atto costituente titolo esecutivo.
Venendo in particolare all’esecuzione per consegna o rilascio, che rappresenta una delle forme di esecuzione forzata in forma specifica, il percorso esecutivo ha il solo scopo di trasferire il potere di fatto su un bene determinato, mobile o immobile, dall’obbligato all’avente diritto, senza che questa operazione possa o debba produrre modificazioni giuridiche in ordine ad esso (Cass., 28.6.2012, n. 10865).
Da questo semplice concetto derivano due importanti precisazioni.
La prima: la detta esecuzione serve ed è possibile ogni volta che sul piano sostanziale si configura un obbligo di consegna o rilascio rimasto inadempiuto, a prescindere dal tipo di diritto a cui quell’obbligo è correlato. In altri termini, l’opinione per cui l’esecuzione in parola sarebbe spendibile solo per le c.d. situazioni finali (diritti reali) e non anche per quelle strumentali (rapporti obbligatori) sarebbe sostenibile solo se si potesse dire che sul piano sostanziale dall’art. 1218 c.c. dovrebbe discendere il principio secondo il quale ogni violazione di rapporti obbligatori comporti sempre e solo la caduta del diritto originario e l’insorgere di un obbligo risarcitorio. Ma così non è o quantomeno così non è sempre e sta al diritto sostanziale risolvere il problema. Di conseguenza, una volta che sul piano sostanziale si configura un obbligo di consegnare una cosa mobile o di rilasciare un bene immobile, se esso rimane inadempiuto è sempre possibile ricorrere allo strumento disciplinato dagli articoli 605-611 c.p.c., a prescindere, si ripete, dal tipo di situazione giuridica originariamente lesa.
La seconda: il modulo esecutivo in questione ha come limite naturale l’impossibilità di provocare modificazioni giuridiche sostanziali in ordine all’attribuzione del bene che ne è oggetto. In altri termini esso è inutilizzabile ove attraverso l’esecuzione si dovessero creare quei mutamenti. Il problema si è posto essenzialmente nel caso di vendita di cose determinate solo nel genere, ipotesi in cui si deve distinguere a seconda che il contratto abbia o meno efficacia reale ai sensi dell’art. 1376 c.c. Invero, se il trasferimento della proprietà dei beni si ha col solo perfezionamento del consenso tra le parti, come avviene nella fattispecie descritta dall’art. 1377 c.c. (che si riferisce ad una «determinata massa di cose»), allora l’obbligo inadempiuto di consegna può essere attuato esecutivamente per mezzo dell’esecuzione per consegna (si faccia l’esempio della vendita di tutto il petrolio caricato su una petroliera o di tutto il vino contenuto in una cantina). Se, al contrario, la proprietà dei beni venduti si trasferisce solo «con l’individuazione fatta d’accordo tra le parti o nei modi da esse stabiliti» (art. 1378 c.c.), allora all’eventuale inadempimento non può seguire l’utilizzo dell’esecuzione per consegna (né, in ipotesi, quella per obblighi di fare in sostituzione dell’attività di specificazione), perché in tal caso un simile processo esecutivo produrrebbe appunto quel trasferimento di proprietà che non è stato già prodotto sul piano sostanziale, trasferimento che lederebbe il principio per cui tutti i creditori hanno eguale diritto di soddisfarsi sui beni del proprio comune debitore (par condicio creditorum: art. 2741 c.c.). Insomma, se le cose fungibili, ossia quelle che si pesano, si contano o si misurano, potessero formare oggetto di un’esecuzione in forma specifica, l’avente diritto ad esse lederebbe gli altri creditori, fino all’assurdo di ammettere un’esecuzione per consegna anche in relazione ad una somma di denaro.
Non tutti gli atti a cui la legge attribuisce la qualità di titolo esecutivo possono fondare un’esecuzione forzata per consegna o rilascio. L’art. 474 c.p.c., dopo aver elencato, nel suo co. 2, i titoli esecutivi raggruppandoli in tre diversi numeri, specifica che la detta esecuzione possa aver luogo solo in virtù dei titoli esecutivi di cui ai nn. 1 e 3 del citato co. 2.
Tra i titoli stragiudiziali, emerge così che una simile esecuzione forzata possa fondarsi su «atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli», ma non anche su una scrittura privata autenticata, avendo la l. 28.12.2005, n. 263 limitato l’efficacia esecutiva di quest’ultima alle sole obbligazioni di somme di denaro. La scelta, che smentisce la precedente opzione in senso più ampio che con l. 14.5.2005, n. 80 era stata fatta sulle orme dei progetti Tarzia e Vaccarella, va certamente rispettata dall’interprete e dal pratico, ma non se ne può tacere l’irrazionalità, perché con essa si arriva all’incongruenza per cui un contratto di compravendita documentato in una scrittura privata autenticata possa essere titolo esecutivo a favore del venditore per il pagamento del prezzo e non anche a favore del compratore per la consegna del bene.
Tra i titoli giudiziali di cui all’art. 474, co. 2, c.p.c. si annoverano, non solo le sentenze e gli altri provvedimenti (decreti e ordinanze) giudiziari a cui la legge espressamente attribuisce l’efficacia esecutiva, ma anche c.d. «altri atti», categoria che si riferisce ad una serie di fattispecie in cui emerge una cooperazione tra i privati ed il giudice. Qui il legislatore ha pensato soprattutto al verbale di conciliazione giudiziale di cui all’art. 185, co. 3, c.p.c., ma anche evidentemente a tutte le ipotesi in cui la legge disciplina meccanismi per attribuire l’exequatur a conciliazioni raggiunte stragiudizialmente, tra le quali spicca il verbale di conciliazione di cui all’art. 12 del d.lgs. 4.3.2010, n. 28, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, sempre che le dette procedure siano gestite da organismi accreditati secondo lo stesso impianto del decreto.
Se l’esecuzione per consegna o rilascio ha lo scopo di trasferire il potere di fatto su un bene specificamente già individuato nell’atto costituente il titolo esecutivo, soggetto passivo dell’esecuzione non può che essere colui che ha quel potere, a prescindere dalla sua posizione di obbligato o meno e a prescindere dall’essere o meno indicato come il soggetto passivo nell’atto costituente titolo esecutivo. Con ciò si vuol dire che detto soggetto è inevitabilmente colui che subirà gli effetti dell’aggressione esecutiva. Altro, però, è affermare che quel soggetto debba assumere la qualità formale di esecutato, ossia che a lui debbano essere notificati titolo esecutivo e precetto. Invero, posto che a colui che appare terzo rispetto all’atto costituente titolo esecutivo deve essere data la possibilità di contestare l’efficacia nei suoi confronti di quell’atto, magari sostenendo di non essere erede dell’obbligato (arg. dall’art. 477 c.p.c.) o di non essere successore nel diritto controverso ai sensi dell’art. 111 c.p.c., quella affermazione è necessaria solo se si ritiene che una simile contestazione sia possibile seguendo la via tracciata dall’art. 615 c.p.c. e si aggiunge che questa via è percorribile unicamente da parte del soggetto che abbia acquistato la veste formale di esecutato. Ma, se al contrario si ritiene che la contestazione intorno all’esistenza ed all’efficacia del titolo esecutivo abbia spazio nell’ambito dell’opposizione agli atti esecutivi (art. 617 c.p.c.), lasciando piuttosto all’opposizione all’esecuzione il compito di accertare la sussistenza della giustificazione sostanziale dell’aggressione esecutiva, insomma la sussistenza di un diritto a procedere all’esecuzione che non si identifica con l’azione esecutiva, in sé fondata sul titolo esecutivo, quanto con la liceità del fenomeno, si può anche rendere irrilevante il fatto che il detentore corpore del bene da consegnare o rilasciare acquisti o meno la veste formale di esecutato, considerando che è legittimato a sollevare un’opposizione agli atti esecutivi ogni soggetto che in qualche modo è coinvolto nel processo esecutivo. Ora, se non vi è dubbio che colui che ha il possesso di fatto sul bene è necessariamente coinvolto nell’esecuzione in parola, perché sarà lui che inevitabilmente ne subirà le conseguenze, sembra che questo soggetto debba poter contestare l’efficacia del titolo esecutivo nei suoi confronti a prescindere dalla direzione soggettiva che in concreto abbia assunto la preliminare attività di notifica del titolo esecutivo e del precetto. Ma ciò, si ripete, è possibile solo se si è disposti ad abbandonare l’equivoco in cui cadono da tempo dottrina e giurisprudenza nel ritenere che l’art. 615 c.p.c., quando parla del “diritto della parte istante a procedere ad esecuzione forzata”, si riferisca all’azione esecutiva, la cui fattispecie costitutiva sta nel titolo esecutivo.
Altra è la posizione del terzo che voglia affermare di essere titolare di un diritto autonomo ed incompatibile rispetto a quello rappresentato nell’atto costituente titolo esecutivo e che non abbia il potere di fatto sul bene oggetto dell’esecuzione. Costui non potrà acquisire la veste di esecutato, né formalmente né sostanzialmente, ma potrà contestare la giustizia dell’esecuzione, al fine di impedirla del tutto. Tuttavia qui non si devono confondere rimedi che hanno ragioni ed obiettivi assai diversi tra loro, in particolare non si deve confondere la funzione dell’opposizione di terzo quale mezzo d’impugnazione di cui all’art. 404, co. 1, c.p.c. con la funzione dell’opposizione di terzo all’esecuzione di cui all’art. 619 c.p.c. Con questa il terzo lamenta un errore nella direzione oggettiva assunta in concreto dal processo esecutivo, senza contestare l’esecuzione forzata in sé. Con quello, invece, il terzo lamenta un pregiudizio che gli deriva, non dal processo esecutivo, quanto piuttosto dall’atto costituente titolo esecutivo. Se questa è la distinzione tra i due istituti, è evidente come il terzo in questione non possa avvalersi dell’opposizione di cui all’art. 619 c.p.c., appunto perché egli non lamenta un’errata direzione oggettiva assunta dal processo esecutivo, che, trattandosi di consegna o rilascio, si limita a coinvolgere il bene dovuto già specificamente individuato nel titolo esecutivo. Egli piuttosto dovrà avvalersi del rimedio offertogli dall’art. 404, co. 1, c.p.c., quindi dovrà attaccare la sentenza, perché appunto il pregiudizio da lui lamentato non gli deriva dal processo esecutivo, bensì già dall’atto costituente titolo esecutivo.
Sia l’esecuzione per consegna di cose mobili sia l’esecuzione per rilascio di beni immobili è compiuta dall’ufficiale giudiziario. Il giudice dell’esecuzione, ossia il tribunale del luogo in cui i beni si trovano (artt. 9 e 26 c.p.c.), assume un ruolo se insorgono delle difficoltà o sono sollevate delle contestazioni. Nel primo caso il giudice opera all’interno del processo esecutivo, su richiesta di ciascuna delle parti, assumendo provvedimenti meramente ordinatori che facciano fronte a difficoltà che non ammettono dilazione (art. 610 c.p.c.). In tal caso non è che l’ufficiale giudiziario non potrebbe operare in autonomia, ma accade che una parte sceglie di rivolgersi al giudice perché ritiene che in tal modo possa percorrere una via più rapida per superare un ostacolo che altrimenti ben potrebbe e dovrebbe superare l’ufficiale giudiziario (cfr. Cass., 28.6.2012, n. 10865, secondo la quale, posto che l’ambito di intervento del giudice dell’esecuzione è limitato alla soluzione di problemi pratici relativi al modus procedendi in concreto necessario al trasferimento del potere di fatto sul bene indicato nel titolo esecutivo dall’esecutato all’esecutante, le “difficoltà” di cui all’art. 610 c.p.c. abilitano le parti e l’ufficiale giudiziario a sollecitare al giudice provvedimenti temporanei anche per la soluzione di problemi interpretativi del titolo esecutivo, ai fini dell’individuazione della sua portata soggettiva o dell’identificazione dei beni, ma esclusivamente in vista dell’attuazione della tutela esecutiva). Nel secondo caso il giudice assume il ruolo che gli viene conferito, a seconda del tipo di contestazione, dagli artt. 615 e 616 c.p.c. ovvero dagli artt. 617 e 618 c.p.c., essendosi qui di fronte a processi dichiarativi che si innestano sul tronco del processo esecutivo in corso (cfr. Cass., 22.9.2006, n. 20648, in cui si precisa che si va oltre i limiti tracciati dall’art. 610 c.p.c. ove, nel caso di esecuzione per rilascio, il giudice non si limiti a localizzare il bene di cui al titolo esecutivo, ma ne individui la stessa consistenza, in presenza di una discrepanza tra la situazione fattuale rilevata dall’ufficiale giudiziario e quella apparentemente risultante dal titolo esecutivo stesso).
Se non sorgono difficoltà né sono sollevate contestazioni il giudice non ha alcun ruolo nello svolgimento dell’attività esecutiva e il protagonista isolato della scena processuale è l’ufficiale giudiziario, che quindi è, se così si può dire, l’unico organo esecutivo necessario. Ciò comunque fatto salvo quanto andremo a dire in riferimento agli artt. 608 bis e 611 c.p.c.
Dopo la preliminare notifica del titolo esecutivo e del precetto, atto quest’ultimo che deve contenere, oltre le indicazioni di cui all’art. 480 c.p.c., anche la descrizione sommaria del bene da consegnare (art. 605 c.p.c.), l’ufficiale giudiziario, decorso il termine indicato nel precetto, si reca sul luogo in cui la cosa si trova e la ricerca a norma dell’art. 513 c.p.c. e, quindi, la consegna all’avente diritto o a persona da questa designata (art. 606 c.p.c.). Questa semplicissima disciplina esige due precisazioni.
La prima: se la descrizione del bene da consegnare contenuta nel precetto dovrebbe bastare ad individuarlo, considerando che essa si collega ovviamente all’indicazione già contenuta nell’atto costituente titolo esecutivo, all’atto della sua ricerca è pur vero che qualche difficoltà potrebbe insorgere. In tal caso sembra che si possa dare un peso alle indicazioni dell’istante ovviamente nei limiti di ciò che è stato descritto nel precetto e rappresentato nel titolo esecutivo e comunque fatta sempre salva la possibilità di richiedere al giudice dell’esecuzione di meglio interpretare la descrizione contenuta nel titolo esecutivo ai sensi dell’art. 610 c.p.c. (cfr. Cass., 28.6.2012, n. 10865) ovvero di sollevare opposizione da parte dell’esecutato se la “difficoltà” implichi la soluzione di questioni che vanno oltre la determinazione di un modus procedendi e attengano al diritto a procedere ad esecuzione.
La seconda: il richiamo che l’art. 606 c.p.c. opera all’art. 513 c.p.c. non significa che la cosa da consegnare vada ricercata solo nei luoghi indicati in quest’ultima norma, avendo l’ufficiale giudiziario il potere di cercare la cosa dovunque si trovi. Piuttosto con quel richiamo si vuole qui attribuire all’ufficiale giudiziario i poteri coercitivi previsti nel citato art. 513 c.p.c., per cui quando «è necessario aprire porte, ripostigli o recipienti, vincere la resistenza opposta dal debitore o da terzi, oppure allontanare persone che disturbano l’esecuzione …, l’ufficiale giudiziario provvede secondo le circostanze, richiedendo, quando occorre, l’assistenza della forza pubblica».
La consegna è impedita ove la cosa sia già soggetta a pignoramento e quindi in buona sostanza sia nelle mani di un custode in attesa della vendita forzata. In tal caso l’avente diritto che voglia far valere le sue ragioni deve percorrere la via tracciata dall’art. 619 c.p.c., ossia proporre opposizione di terzo in connessione all’esecuzione per espropriazione già iniziata con quel pignoramento (art. 607 c.p.c.).
Se il processo esecutivo inizia con la notifica dell’atto di precetto, l’esecuzione forzata in senso stretto in linea di principio inizia col primo atto successivo col quale l’ufficio esecutivo inizia la sua “invasione” nella sfera giuridica dell’esecutato. In base a questo assunto la giurisprudenza ha per lungo tempo, mancando un dettato normativo a tal proposito in caso di esecuzione per rilascio, ritenuto che in tale ipotesi l’inizio dell’esecuzione fosse da ravvisare nell’accesso dell’ufficiale giudiziario nel luogo del rilascio di cui all’art. 608 c.p.c. Ma in tal modo si lasciava l’istante in balia dell’organo esecutivo, col rischio che un ritardo di questi comportasse la perdita di efficacia del precetto, che deve essere seguito dall’inizio dell’esecuzione entro 90 giorni dalla sua notifica (arg. dall’art. 481 c.p.c.). Per ovviare a tale rischio la l. 14.5.2005, n. 80 ha novellato l’art. 608 c.p.c. prevedendo che l’esecuzione per rilascio comincia con la notifica dell’avviso con il quale l’ufficiale giudiziario comunica almeno dieci giorni prima alla parte, che è tenuta a rilasciare l’immobile, il giorno e l’ora in cui procederà. Peraltro, se non si può imputare ad una parte eventuali decadenze dovute all’inerzia di altri, si deve anche ritenere qui applicabile il principio che la Corte costituzionale ha affermato in materia di notificazione degli atti per cui la notificazione è perfezionata per il notificante al momento in cui egli ha compiuto le formalità a lui spettanti, non potendo egli subire conseguenze negative dalla carenza di attività successive dell’ufficiale giudiziario (C. cost., 26.11.2002, n. 477). Invero, se l’avviso per il rilascio è atto dell’ufficiale giudiziario e non atto di parte che venga consegnato all’ufficiale giudiziario perché sia portato a conoscenza della controparte, è anche vero che sarebbe irragionevole accollare al creditore procedente conseguenze negative che potrebbero derivare dall’inerzia dell’organo esecutivo dopo la sua istanza per il compimento dell’atto a questi spettante.
A seguito del detto avviso (cfr. Cass., 27.10.2011, n. 22441, in cui si precisa che non sussiste un obbligo di nuovo avviso nel caso di sospensione dell’esecuzione già iniziata con un primo accesso e successivamente ripresa), l’ufficiale giudiziario, munito di titolo esecutivo e precetto, si reca nel luogo dell’esecuzione nel giorno e nell’ora stabiliti e, facendo uso ove occorra dei poteri a lui consentiti dall’art. 513 c.p.c., immette la parte istante o una persona da lei designata nel possesso dell’immobile (art. 608, co. 2, c.p.c.). Se trattasi di luoghi chiusi, l’immissione nel possesso si ha con la consegna delle chiavi, altrimenti esso avviene in modo simbolico. Quanto all’esecutato l’ufficiale giudiziario gli ingiunge di rispettare la nuova situazione di fatto, se presente, altrimenti gli viene notificato il verbale di accesso.
Infine, l’ultimo inciso dell’art. 608 c.p.c. prevede che l’ufficiale giudiziario ingiunga agli eventuali detentori di riconoscere il nuovo possessore. Qui, presupponendo che si tratti di un terzo che ha un potere di fatto compatibile con la pretesa dell’istante, posto che in caso contrario egli sarebbe nella posizione dell’effettivo esecutato, con tutte le conseguenze già sopra descritte (cfr. supra, § 3), bisogna distinguere a seconda che l’istante voglia o meno acquisire il potere di fatto sul bene. In caso negativo, trovandosi dei terzi nella detenzione dell’immobile che era posseduto dall’esecutato attraverso di loro (ad esempio nel caso di locazione), l’avente diritto vuole acquisire solo il possesso formale del bene, obiettivo che si raggiunge appunto semplicemente ingiungendo ai detentori di riconoscere il nuovo possessore. Se, invece, l’avente diritto vuole ottenere il potere di fatto su una parte del bene, che rimane nel possesso di altri per altra parte, allora, immesso l’istante in quella parte, si ingiunge agli altri di riconoscere questo nuovo stato di fatto.
Quanto, poi, alla presenza di eventuali beni mobili nell’immobile, essi, se sono estranei all’esecuzione, ossia non devono essere consegnati all’istante insieme al rilascio dell’immobile, sono dati in custodia, sempre che l’esecutato non li asporti immediatamente (art. 609 c.p.c.).
Con l. 14.5.2005, n. 80 è stato inserito nel codice di procedura civile un art. 608 bis che disciplina esplicitamente un’ipotesi di estinzione nell’esecuzione per consegna o rilascio. Si prevede che il processo si estingue ove la parte istante, prima della consegna o del rilascio, rinunci con un atto da notificarsi alla parte esecutata e da consegnarsi all’ufficiale giudiziario procedente. La fattispecie è assai semplice, sia nell’imporre all’istante il descritto doppio adempimento sia nell’escludere per implicito che abbia un qualche ruolo l’accettazione del debitore. Da questo secondo punto di vista qui emerge solo un principio generale che vale in ogni forma di esecuzione, posto che l’esecutato, a differenza del convenuto nel processo dichiarativo, non ha mai interesse a proseguire gli atti esecutivi. Dal primo punto di vista si deve solo precisare che, in caso di esecuzione per rilascio, la rinuncia che avvenga in sede di accesso in presenza dell’esecutato può semplicemente essere verbalizzata dall’ufficiale giudiziario.
L’unico dubbio che può emergere è il seguente: perché si abbia l’estinzione del processo esecutivo è sufficiente che si perfezioni la fattispecie descritta oppure è necessario che, a valle di essa, vi sia una dichiarazione di estinzione con ordinanza del giudice? In mancanza di indicazioni nella legge, è preferibile accogliere la seconda soluzione. In primo luogo perché in questo modo ci si adegua al principio generale secondo cui l’estinzione del processo esecutivo va dichiarata con un provvedimento del giudice. In secondo luogo perché, se è vero che l’unico organo esecutivo necessario dell’esecuzione per consegna o rilascio è l’ufficiale giudiziario, è anche vero che ciò vale fin quando si rientra nella fisiologia del fenomeno, dovendosi in caso contrario chiamare in gioco il giudice dell’esecuzione. E sembra che tra queste evenienze che rivitalizzano il ruolo del giudice vi sia anche, appunto, quella dell’estinzione per rinuncia.
In virtù del principio generale ricavabile dall’art. 95 c.p.c. le spese sono anticipate dal creditore istante e poi sono poste a carico dell’esecutato. Nello specifico l’art. 611, così come novellato con l. 14.5.2005, n. 80, prevede che la «liquidazione delle spese è fatta dal giudice dell’esecuzione a norma degli articoli 91 e seguenti con decreto che costituisce titolo esecutivo». Quindi è certo ormai che il giudice dell’esecuzione possa e debba liquidare con un unico decreto sia le spese vive sia i diritti e gli onorari di difesa (Cass., 12.7.2011, n. 15341), principio questo che, se era pur stato affermato dall’ultima giurisprudenza prima della detta novellazione (Cass., 11.11.2003, n. 16936, in Giust. civ., 2004, I, 2064), era però stato contrastato da una giurisprudenza precedente, nella quale si era sostenuto che il sistema di liquidazione di cui all’art. 611 c.p.c. concernesse solo le spese vive anticipate dall’istante e non anche diritti ed onorari di difesa (Cass., 24.2.1996, n. 1471, in Giur. it., 1997, I, 1432).
La norma lascia tuttavia due dubbi irrisolti.
Il primo emerge nel momento in cui l’art. 611 c.p.c. richiama anche le norme seguenti all’art. 91 c.p.c., dovendo l’interprete chiedersi se tutte queste disposizioni siano effettivamente trasferibili al campo del processo esecutivo. Tra queste non sembra trasferibile la previsione di una possibile compensazione delle spese perché il citato art. 95 c.p.c., lungi dal potersi riferire solo all’esecuzione per espropriazione, esprime il principio generale per cui l’avente diritto non può attuare il suo diritto decurtato dalle spese di esecuzione che l’obbligato ha reso necessarie a causa del suo inadempimento.
Il secondo dubbio attiene ai rimedi spendibili avverso il decreto che il giudice adotta ai sensi dell’art. 611 c.p.c. A tal proposito varie sono le soluzioni in astratto prospettabili. Si potrebbe ritenere che nel detto decreto sia ravvisabile un provvedimento meramente esecutivo per la parte relativa alle spese vive ed un provvedimento monitorio per la parte relativa alla liquidazione di diritti ed onorari di difesa, con la conseguenza che per questo secondo profilo il provvedimento sarebbe opponibile appunto come un decreto ingiuntivo. Oppure, attribuendo al decreto in parola un’unica natura, lo si potrebbe qualificare solo come un provvedimento monitorio o come un atto esecutivo. Ma, se nel primo caso la conseguenza sarebbe quella di chiamare in campo l’opposizione monitoria, nel secondo caso si potrebbero ancora prospettare due soluzioni rimediali alternative, immaginando che esso sia revocabile e modificabile fino alla sua esecuzione ovvero che sia assoggettabile all’opposizione agli atti esecutivi di cui all’art. 617 c.p.c, proponibile sia dall’esecutante sia dall’esecutato. Inoltre si potrebbe anche ritenere che col detto decreto l’interessato ottenga solo un titolo esecutivo sostanziato in un provvedimento sommario sempre suscettibile di contestazione in ogni sede utile, magari in sede di opposizione all’esecuzione (art. 615 c.p.c.). Tra queste incertezze, sembra ragionevole, per un verso, rigettare l’idea che il decreto in parola possa avere una doppia natura e, per altro verso, affermare che esso sia opponibile alla stregua di un decreto d’ingiunzione (così Cass., 12.7.2011, n. 15341), visto che questo è lo schema assunto dal legislatore nell’art. 614 c.p.c., che disciplina la questione in riferimento all’esecuzione per obblighi di fare, ossia in riferimento all’altra forma di esecuzione in forma specifica, al cui genus appartiene anche l’esecuzione per consegna o rilascio.
Artt. 2930 c.c.; 605-611 c.p.c.
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