ESEMPIO (lat. exemplum)
Morale. - In morale e in pedagogia l'esempio, cioè la realizzazione concreta del principio etico in una persona o in un atto, è stato sempre considerato come provvisto di una grande forza dimostrativa ed educativa. Questa poggia, però, per un lato, sopra l'evidenza della possibilità di una realizzazione dell'ideale e, per l'altro, sopra la tendenza imitativa dell'uomo, la quale è tanto maggiore quanto meno chiara e vigile è la coscienza di sé, ma è pure attiva là dove la coscienza di sé sia anche consapevolezza di un'esigenza imperativa suprema. Bisogna tuttavia, a questo riguardo, distinguere l'esempio che possono offrire i personaggi storici da quello che è offerto dall'educatore stesso. Se quelli sono di efficace sussidio all'insegnamento e all'educazione, questo è invece essenziale, cioè connaturale e intrinseco, all'ufficio educativo.
Bibl.: E. Kant, La metafisica dei costumi II: La dottrina della virtù, trad. ital. di G. Vidari, Torino 1923; G. A. Rayneri, Della pedagogia, Torino 1859 segg., II e IV; G. Gentile, Sommario di pedagogia, II, 2ª ed., parte 1ª, Bari 1924, cap. 1°; B. Croce, Frammenti di etica, Bari 1922, cap. 29°; G. Vidari, Elementi di pedagogia, Didattica, Milano 1923, sez. 1ª, cap. 4°.
Retorica. - Per Aristotele l'esempio (τὸ παράδειγμα) è una specie d'argomentazione, che si ha quando medio extremum inesse monstratum sit. L'esempio è, quindi, un'argomentazione, simile all'induzione, ma, come non va dal tutto alla parte, così non va dalla parte al tutto, bensì dalla parte alla parte. Esso fu detto anche analogia. Dell'esempio come forma oratoria di argomentazione tratta a lungo Aristotele nella Retorica, 1, 2, dove distingue due specie di esempî: storici e inventati, e questi in parabole e favole, concludendo che si deve fare uso degli esempî come di dimostrazioni, quando non si possiedano argomenti più forti, come l'entimema; ma quando ci siano questi, si deve ricorrere agli esempî come ad epiloghi in luogo delle testimonianze.
Già i nostri grandi maestri ed educatori del Quattrocento, Vergerio e Vegio, Guarino e Vittorino, facevano dipendere per gran parte l'efficacia dell'educazione dall'esemplarità del maestro e del padre. Ed è poi certo che l'autorità del maestro trova conferma nell'esemplarità di lui. Si può tuttavia revocare in dubbio l'efficacia dell'esempio partendo, come fa il Croce, dalla considerazione che la forza morale "o c'è, e compie l'opera sua senza bisogno di eccitamenti estranei, o non c'è, e nessun eccitamento dal di fuori può farla nascere". Ma lo stesso Croce ha osservato che non bisogna concepire lo spirito operante e l'esempio come estranei l'uno all'altro, bensì vedere nell'esempio una determinazione particolare di quella medesima forza morale che agisce nell'individuo. Lo stesso Kant, che poggia tutto il valore morale sulla motivazione della volontà, ammette il valore dell'esempio per l'educazione morale; egli però vuole che l'esempio non tragga per sé alla virtù, ma offra piuttosto il campo per esercitare il giudizio dei giovani nel discernimento del vero valore morale degli atti e degli uomini proposti ad esempio.
Nella letteratura medievale l'esempio (exemplum) era un racconto a scopo didattico-religioso, attinto alle fonti più diverse. Diffusosi con i Vangeli e con l'insegnamento cristiano, se ne fece un uso sempre maggiore, attraverso la patristica, l'agiografia, i sermoni e, in generale, per tutta la letteratura parenetica. Con l'incremento - durante i secoli XII-XIV - della predicazione, specialmente per merito dei nuovi ordini religiosi, gli exempla si moltiplicarono fino ad avere trattazioni speciali nelle Artes predicatoriae e a formare vere e proprie raccolte autonome, che servivano da prontuarî per predicatori e anche per laici.
Dalla Bibbia, dalle vite dei santi, dalle opere classiche e dalle enciclopedie medievali (Rabano Mauro, Isidoro di Siviglia, Odone di Cluny, ecc.), dalla storia e dall'aneddotica, dai racconti orientali e dalle favole, dalle cognizioni naturalistiche sotto forma di allegoria moralizzata (v. bestiario; favola; favolello; fisiologo; lapidarî; ecc.) l'esempio trae la sua molteplice materia, sviluppando, con il diffondersi del gusto letterario e della tecnica stilistica, l'interesse narrativo e rappresentativo. Alano da Lilla, Giacomo di Vitry, Stefano di Bourbon, Arnoldo di Liegi - per limitarci ai più autorevoli - ne discettano con serietà, ne inseriscono moltissimi nei loro sermones, ne compilano delle ricche antologie. Queste, per lo più, sono disposte secondo un criterio logico - contenuto teologico, morale, agiografico - come il Tractatus de diversis materiis predicabilibus di Stefano di Bourbon, di più di duemila esempî, il Tractatus de abundantia exemplorum di Umberto di Romans, il Promptuarium exemplorum di Martino di Polonia, e tanti altri anonimi; oppure sono compilate secondo un ordine alfabetico, che a sua volta è condizionato dal carattere della materia, come il Liber exemplorum di Durham, la nota Tabula exemplorum secundum ordinem alphabeti, del sec. XIII, l'Alphabetum narrationum completato dal Compendium mirabilium di Arnoldo di Liegi, la Scala Coeli di Giovanni Gobi, del sec. XIV, ecc. (tra le raccolte in volgare, v. gli Assempri di F. Agazzari). Con il Cinquecento, l'esempio, che già era diventato materia di novellistica e aveva subito l'elaborazione artistica, si fa poi raro ed esula dalla letteratura religiosa, non rispondendo più alla nuova mentalità che si creava con l'Umanesimo e la Riforma.
Bibl.: P. Meyer e L.-T. Smith, Les contes moralisés de Nicole Bozon, Parigi 1889; Die exempla des Jacob von Vitry, a cura di G. Frenken, Monaco 1914; Tabula exemplorum, a cura di J.-Th. Welter, Parigi 1927; cfr. J. A. Mosher, The exemplum in the early religions and didactic Literature of England, New York 1911; J.-Th. Welter, L'exemplum dans la littérature religieuse et didactique du mayen âge, Parigi-Tolosa, 1927.