Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La guerra è la principale preoccupazioni degli Stati europei, impegnati nel Cinquecento in una durissima competizione politica e militare che richiede un’efficace mobilitazione delle risorse umane ed economiche. Questo anche perché i cambiamenti tecnici, e in particolare la diffusione delle armi da fuoco e la conseguente evoluzione dell’architettura militare, assorbono una quantità crescente di capitali. Solo le grandi monarchie territoriali come Francia, Spagna e Inghilterra sono in grado di reggere uno sforzo economico che opera una spietata selezione dei soggetti politici e sociali in grado di conservare una capacità d’azione militare. Le piccole repubbliche e l’aristocrazia si trovano quindi ad avere un ruolo bellico ormai marginale.
Durante il Cinquecento la guerra è uno dei più importanti fattori di mutamento storico e questo non solo perché dall’esito dei conflitti dipende il destino di città, regioni e dinastie. L’evoluzione della tecnologia e delle istituzioni militari è infatti uno dei fattori che maggiormente contribuisce a plasmare le strutture sociali, economiche e politiche del continente.
Il sistema degli Stati europei costituisce un’arena nella quale la competizione politica e militare è intensissima. La guerra è quindi la principale preoccupazione dei governanti e a essa vengono destinate risorse umane ed economiche crescenti. Le possibilità di sopravvivenza e di estensione di un centro di potere dipendono strettamente non solo dalla base economica e demografica della quale uno Stato può disporre, ma anche dalla sua capacità di controllo e di mobilitazione di queste risorse, ovvero dal grado di centralizzazione politica e dall’efficacia degli strumenti politici e amministrativi. La guerra dunque contribuisce a un processo di selezione degli attori che agiscono sulla scena internazionale. A essere penalizzati sul lungo periodo sono da un lato quegli Stati medio-piccoli, come le signorie italiane o tedesche, che non dispongono di risorse umane sufficienti a misurarsi con le grandi monarchie amministrative protonazionali, dall’altro quegli Stati, pur di notevoli dimensioni, come la Polonia o in fondo lo stesso Sacro Romano Impero, che non sono riusciti a raggiungere un grado di integrazione politica e amministrativa sufficiente per drenare dal proprio territorio le risorse necessarie. Ad avvantaggiarsi sono invece gli Stati medio-grandi – Francia e Inghilterra, ma anche la Spagna in un primo momento e successivamente l’Olanda, la Svezia e il Brandeburgo – che faticosamente hanno saputo dotarsi degli strumenti necessari – finanziari e politici – per creare e mantenere apparati militari – eserciti e flotte – all’altezza delle nuove esigenze.
Ma la guerra ha un impatto anche sugli equilibri politici e sociali interni ai singoli stati. Vi è una correlazione positiva, un’evidente circolarità, fra l’aumento degli apparati militari e il potere della monarchia. L’aumento dei costi per mantenere un dispositivo militare adeguato finisce per mettere fuori gioco l’aristocrazia i cui eserciti privati – feudali e clientelari – non sono più competitivi con quelli della monarchia. A sua volta, il monopolio quasi effettivo dell’uso della forza all’interno dei propri confini mette i monarchi nelle condizioni favorevoli per attingere, attraverso varie forme di prelievo fiscale, alle risorse del regno necessarie a loro volta per ampliare il proprio dispositivo militare.
Armi fiammeggianti
Nel Cinquecento la presenza di armi da fuoco – le armi fiammeggianti – sui campi di battaglia e nelle operazioni d’assedio non è certo una novità assoluta. Vari tipi di cannoni avevano avuto una parte importante nell’ultima fase della guerra dei Cent’anni e fu soprattutto grazie ad enormi bombarde che i Turchi erano riusciti ad aver ragione delle mura di Costantinopoli. Tuttavia, come osserva Francesco Guicciardini, prima delle guerre d’Italia le artiglierie “se bene erano già in uso, si maneggiavano con sì poca attitudine che non offendevano molto”. Cannoni e bombarde, costosi, ingombranti, con una cadenza di fuoco e una gittata modesti erano impiegati quasi esclusivamente negli assedi, accanto alla tradizionale artiglieri a leva: catapulte, trabucchi, mangani.
Nel corso del Cinquecento, però, l’efficienza dell’artiglieria, e soprattutto la sua mobilità, aumentano considerevolmente e i cannoni si impongono progressivamente, non solo nelle battaglie campali, ma anche negli scontri sul mare. Già alla fine del Quattrocento il parco d’artiglieria messo in campo da Carlo VIII in occasione della sua discesa in Italia aveva destato molta impressione, pur non risultando, alla prova dei fatti, risolutivo. E proprio in area francese viene messo a punto un nuovo tipo di cannone, fuso in un’unica colata di bronzo o di ottone – con una tecnica paradossalmente simile a quella impiegata per le campane – anziché costituito legando insieme sbarre di ferro battuto. Questi nuovi cannoni possono essere trasportati con relativa facilità e, grazie all’uso di una polvere da sparo più efficiente e di palle di ferro anziché di pietra, hanno una maggiore potenziale distruttivo. Nonostante abbiano ancora molti limiti, i cannoni da campagna hanno una parte decisiva in varie importanti battaglie del Cinquecento. A Ravenna, ad esempio, nel 1512, quando i Francesi battono gli Spagnoli, o a Marignano, tre anni dopo, quando ad essere sconfitti, sempre dai Francesi, sono i celebrati fanti svizzeri. Nella seconda parte del secolo, soprattutto grazie agli Olandesi, vengono fatti tentativi per standardizzare tipi e calibri dei cannoni, la cui varietà pone enormi problemi logistici e organizzativi.
Probabilmente maggiore fu l’impatto tattico e strategico dell’evoluzione nella tecnica e nell’impiego delle armi da fuoco individuali portatili. L’archibugio, ad esempio, dotato di un meccanismo di sparo a ruota in sostituzione di quello a miccia, permette un uso efficace anche in condizioni climatiche sfavorevoli, aumenta la precisione e la cadenza di tiro. Inoltre l’archibugio viene affiancato e poi progressivamente sostituito dal moschetto, dotato di una canna più lunga e quindi di una maggiore gittata e velocità della palla che poteva così trapassare le armature. La riduzione delle dimensioni e del peso delle armi da fuoco permette anche il loro utilizzo da parte dei cavalieri.
I mutamenti tecnici comportano cambiamenti nelle tattiche di combattimento e nell’approccio strategico alle campagne militari. Il cambiamento forse più significativo è però nella natura stessa, e nella scala, delle operazioni militari. Per citare ancora Guicciardini “innanzi al 1492 erano le guerre lunghe e le giornate non sanguinose”, ma i Francesi “introdussero nelle guerre tanta vivezza”. Le battaglie impegnano quindi un numero crescente di combattenti e si fanno sempre più cruente soprattutto quando, ai tradizionali moventi politici e dinastici, si aggiungono, dopo la Riforma, quelli religiosi.
Per quanto concerne la struttura degli eserciti e le tattiche, sui campi di battaglia del Cinquecento si rafforza la preminenza della fanteria che si era già delineata nel corso dei conflitti della fine del Trecento e del Quattrocento. Se alla fine del Quattrocento l’esercito di Carlo VIII di Francia era composto per circa un terzo da cavalieri, pochi decenni dopo, in quelli del suo successore Francesco I, i cavalieri erano solo il 10 percento del totale dei combattenti.
Tra i fanti, all’inizio del Cinquecento, coloro che godono del maggior prestigio sono i rudi, disciplinati e spietati montanari svizzeri che combattono in massicci quadrati formati da 2-6 mila uomini con tattiche che ricordano quelle della falange macedone. Praticamente immune, grazie alla selva di picche lunghe 4-5 metri, dagli attacchi della cavalleria, e dotata di una forza d’urto quasi irresistibile, la compatta formazione elvetica non è però priva di controindicazioni. È relativamente lenta, poco manovriera, esposta agli attacchi ai fianchi nonostante la protezione di piccoli gruppi di archibugieri e, soprattutto, molto vulnerabile al fuoco dei cannoni che possono aprire vuoti terribili nelle file di picchieri e scompaginare la formazione. È quanto succede, ad esempio, nella battaglia di Marignano, quando la vittoria di Francesco I segna l’inizio della fine del predominio assoluto dei fanti svizzeri e dei loro emuli tedeschi, i lanzichenecchi, che combattono con tattiche analoghe.
A partire dal quarto decennio del secolo si impone invece il modello dei tercios spagnoli. In queste formazioni, picchieri, archibugieri e soldati armati di spada e protetti da uno scudo si equilibrano e si proteggono a vicenda, dando origine a un’unità più agile ed equilibrata che però richiede una maggiore coordinazione fra i reparti. Il predominio della fanteria spagnola resisterà fino alla guerra dei Trent’anni, ma nel corso di questo secolo non mancano evoluzioni e adattamenti. Il più significativo è probabilmente la proporzione crescente degli archibugieri e dei moschettieri fra le file dei fanti. Se all’inizio del secolo i fanti con armi da fuoco rappresentavano il 10 percento del totale, in seguito salgono fino a un quarto o addirittura a un terzo. Nel complesso comunque la stretta associazione fra picca e archibugio (o moschetto) durerà fino alla seconda metà del Seicento, rappresentando una lunga stagione di transizione nella cultura bellica europea, l’era detta appunto pike and shot (“picca e moschetto”).
Le armi da fuoco, quelle che Ariosto aveva chiamato “gli abominosi ordigni” non alterano solo gli equilibri tattici sul campo di battaglia ma minacciano anche i valori sociali. La figura del combattente a cavallo è in questo senso doppiamente colpita dall’evoluzione tecnica. Il nobile cavaliere che aveva per secoli dominato la guerra in Europa viene simbolicamente e materialmente disarcionato. In verità per comprendere meglio i tempi e il senso di questa evoluzione occorre collocarla in un arco di tempo più ampio. Già nel corso del Trecento e del Quattrocento a Crécy, Poitiers e Agincourt la cavalleria francese composta da aristocratici aveva subito sanguinose sconfitte ad opera degli arcieri “plebei” inglesi armati del temibile arco lungo, il long bow, che sotto il profilo strettamente tecnico, quanto a gittata, cadenza di tiro e capacità di penetrazione delle corazze era in effetti superiore agli archibugi, i quali avevano dalla loro essenzialmente la semplicità d’impiego anche da parte di reclute inesperte.
Le armi da tiro, ad arco o da fuoco, avevano quindi messo in crisi la tattica principe della cavalleria feudale, ovvero la carica frontale. Questo implica un ridimensionamento tattico, quantitativo e anche simbolico della cavalleria ma non certo la sua scomparsa dai campi di battaglia, dove del resto la troveremo ancora alla metà del Novecento. Piuttosto si tratta di una riconversione alla ricerca di una nuova vocazione. A trarne beneficio è soprattutto la cavalleria leggera. Nei conflitti contro i musulmani di Spagna, i Turchi e i Tartari, gli Europei hanno imparato ad apprezzare l’utilità di questo tipo di cavalieri, soprattutto nelle azioni di ricognizione, di disturbo e di copertura. Non è un caso che l’ispirazione e la terminologia delle nuove unità di cavalleggeri provengano soprattutto dalle zone di confine con il mondo islamico. Come i pinete spagnoli (ma la parola è di origine berbera) impiegati anche nelle guerre d’Italia, gli ussari (in questo caso l’etimo è ungherese o turco) originari dei Balcani e impiegati già dal Cinquecento dagli eserciti asburgici e polacchi, e gli stradiotti albanesi al servizio della Serenissima Repubblica di Venezia.
La cavalleria cerca comunque di adattarsi all’uso delle armi da fuoco e verso la fine del secolo viene messa a punto la tecnica del caracollo: linee successive di cavalieri armati di pistola si avvicinano al nemico per far fuoco e poi ritirarsi senza venire direttamente a contatto col muro di picche della fanteria. Si tratta di una manovra spettacolare e complessa che richiede un lungo addestramento, ma essendo di scarsa efficacia pratica, già all’inizio del Seicento viene abbandonata.
Il miglioramento costante dell’efficacia dell’artiglieria ha ripercussioni drammatiche sull’architettura militare. Le alte ma relativamente sottili mura dei castelli e delle città medievali si rivelano infatti già nel Quattrocento inadeguate di fronte al potere distruttivo delle palle da cannone di pietra o ferro. La soluzione è quella di costruire difese più basse ma più spesse, in grado di assorbire meglio l’energia cinetica dei proiettili.
Se l’Italia mostra un certo ritardo nello sviluppo e nell’adozione dell’artiglieria – significativa è la sua sottovalutazione nelle riflessioni di Machiavelli sull’arte della guerra – ingegneri e architetti italiani sono invece all’avanguardia nello sviluppo di tecniche costruttive per far fronte alla nuova minaccia. Non a caso la nuova architettura militare sviluppatasi nel secolo a cavallo fra Quattro e Cinquecento e chiamata in Italia fortificazione alla moderna, è nota in Europa come trace italienne. Ad essa si applicano le migliori menti del Rinascimento fra le quali Antonio da Sangallo e Francesco di Giorgio Martini, autore di un Trattato di ingegneria e di arte militare) e, successivamente, lo stesso Leonardo da Vinci e Michelangelo. Castel Nuovo a Napoli, le rocche di Sassocorvaro e di San Leo in Romagna sono l’esempio di una fase di transizione nella quale si cerca di migliorare la resistenza delle mura con ampie scarpe, cioè mura inclinate che aumentano lo spessore delle mura e, grazie appunto all’inclinazione, resistono meglio ai colpi di cannone. La nuova architettura militare raggiunge comunque la sua maturità solo nel Cinquecento, grazie anche all’introduzione del terrapieno e del bastione, che non solo offrono una maggiore resistenza ai colpi, ma possono ospitare batterie di cannoni in grado di ribattere al fuoco degli assedianti. Molte città vengono cinte da nuove e costosissime cerchia di mura bastionate. Lucca, la città-fortezza veneziana di Palmanova e Sabbioneta, la minuscola capitale dell’effimero Stato di Vespasiano Gonzaga, sono tra i migliori esempi ancora esistenti di questa stagione architettonica.
La progressiva diffusione anche in Europa di queste fortezze d’artiglieria cambia dopo la metà del Cinquecento la natura delle operazioni militari. Le battaglie campali sono più rare, mentre le operazioni d’assedio diventano il momento culminante delle campagne. Gli assedi durano talvolta mesi e la resistenza offerta da città come Metz, assediata da Carlo V nel 1552, o Famagosta, dove la guarnigione veneziana di 7 mila uomini resiste quasi un anno all’assedio di un esercito turco di 200 mila uomini, testimonia dell’efficacia della nuova architettura militare.
Chi sono gli uomini che si affrontano a Pavia (1525), Mühlberg (1547) o San Quintino (1559) o sulle mura di Metz (1552) e Nizza (1553)? Da tempo gli eserciti europei non sono più in prevalenza eserciti feudali. I cavalieri che combattono per ottemperare ai loro doveri feudali verso il sovrano sono ormai una minoranza rispetto ai soldati, cioè coloro, spesso non nobili, che fanno delle armi un mestiere e non una vocazione ereditaria di un ceto. Alla fine del Medioevo il combattente è quasi sempre un mercenario e i mutamenti tecnici nell’armamento – la diffusione del’arco e della balestra prima, quella delle armi da fuoco poi – accentuano la tendenza all’impiego di professionisti non nobili.
Il Cinquecento si apre comunque con l’appassionata difesa da parte di Machiavelli dei vantaggi di una milizia nazionale rispetto all’impiego dei mercenari, sempre infidi. Il modello di ispirazione classica del cittadino (o contadino) soldato non ha però molte possibilità di trovare applicazione nell’Italia e nell’Europa del tempo. Le condizioni sociali sono troppo diverse da quelle della repubblica romana e gli Stati, monarchici o repubblicani che siano, non hanno ancora messo a punto gli strumenti amministrativi e burocratici per creare e coordinare forze armate “nazionali” che comunque le fragili finanze del tempo avrebbero gestito con difficoltà.
Gli eserciti del Cinquecento dunque sono composti essenzialmente ancora da professionisti, mercenari assoldati da imprenditori militari che si impegnano con i governi a reclutare una certa quantità di soldati provenienti spesso da regioni al di fuori dei confini del regno o della repubblica. I tentativi di creare milizie nazionali sulla base di qualche forma di coscrizione si rivelarono per lo più fallimentari, come i francs-archers francesi o le milizie fiorentine volute da Machiavelli. Tra le poche, parziali, eccezioni, le cernide venete, animate da un sentimento di attaccamento a San Marco diffuso anche tra gli abitanti della terraferma veneziana.
Alcune regioni d’Europa, più povere e arretrate, si specializzano nell’esportazione di questo particolare tipo di manodopera. Innanzitutto la Svizzera, dove il mercenariato è una vera e propria industria gestita dalla autorità dei cantoni. E poi la vicina Germania meridionale, i cui lanzichenecchi adottano e sviluppano il modello svizzero. Altri serbatoi di mercenari bellicosi sono la Guascogna, la Corsica, la Scozia, l’Irlanda, l’Albania e in Italia, la Romagna. Anche la Spagna, che recluta i suoi uomini in larga misura fra i contadini della Castiglia e i bellicosi hidalgos ricorre al sistema della gestione indiretta, attraverso appaltatori.